1. Pronto soccorso
È ammissibile uccidere un pedone imprudente per non lasciar morire cinque persone gravemente ferite che devono essere trasportate d’urgenza in ospedale?
Scenario 1: Non soccorso ad una persona in pericolo
Ti precipiti al pronto soccorso: nella tua macchina vi sono cinque persone ferite assai gravemente in un’esplosione. Ogni minuto è importante! Se perdi troppo tempo, moriranno.
All’improvviso, al lato della strada vedi una persona vittima di un terribile incidente, che perde sangue.
Potresti salvare anche lei, caricandola sul tuo veicolo. Se non lo fai, certamente morirà. Ma se ti fermi, perdi tempo e a morire saranno le cinque persone che stai trasportando.
Ti devi fermare comunque?
Scenario 2: Uccidere il pedone
Ti precipiti al pronto soccorso: nella tua macchina ci sono cinque persone ferite assai gravemente in un’esplosione. Ogni minuto è importante! Se perdi troppo tempo moriranno. Ma all’improvviso, in mezzo alla strada vedi un pedone attraversare imprudentemente. Se freni, rischi di slittare, perderai tempo e le cinque persone che stai trasportando moriranno. Se non freni, ucciderai il pedone.
Devi frenare comunque?1
I filosofi che hanno inventato o commentato questo esperimento sono dell’avviso che la gran parte delle persone non riterrà questi due casi equivalenti sul piano morale.
Saranno più indulgenti verso il conducente che lascia morire un ferito sul lato della strada, anziché verso quello che uccide un pedone anche se le conseguenze sono esattamente le stesse.
Questa differenza di trattamento morale è giustificata?
Nel dibattito filosofico sulla distinzione tra uccidere e lasciar morire possiamo trovare qualche indicazione utile per rispondere a questa domanda2.
Uccidere e lasciar morire
Per alcuni consequenzialisti, non c’è una differenza morale profonda tra uccidere e lasciar morire. Il risultato è lo stesso in entrambi i casi: la vittima muore.
Gli aretisti (i fautori dell’etica delle virtù) e i deontologisti (sostenitori di Kant, in particolare) non sono d’accordo. Per l’aretista bisogna essere un individuo orribile per uccidere con le proprie mani (o con una sterzata), mentre chiunque o quasi può lasciar morire qualcuno per calcolo o per negligenza, senza per questo essere particolarmente ripugnante sul piano morale3. Da qui la durezza della reazione verso chi uccide e la relativa indulgenza per chi lascia morire.
Ma questa spiegazione trasforma la distinzione morale tra uccidere e lasciar morire in differenza psicologica, cosa che pone qualche problema a chi invece contrappone radicalmente le due azioni.
Il deontologista distingue tra uccidere e lasciar morire in base al criterio dell’intenzione. A suo avviso, non ci si può limitare a valutare un’azione in base alle sue conseguenze senza tener conto delle intenzioni. Se così fosse, saremmo obbligati a mettere sullo stesso piano chi uccide qualcuno affettandolo con la motosega, perché intendeva punirlo (perché non ha pagato i suoi debiti, ecc.), e chi scappa dalla scena di questo orribile crimine senza soccorrere la vittima, perché vuole salvare se stesso.
Per il deontologista l’intenzione ha un valore morale centrale: è naturale, dunque, che egli dia una tale importanza alla distinzione tra uccidere e lasciar morire e che rifiuti lo scetticismo del consequenzialista sulla questione.
Vi sono, tuttavia, dei casi in cui è possibile cogliere chiaramente la differenza tra uccidere e lasciar morire, ma è più difficile cogliere la differenza tra le intenzioni4.
1) Sei impaziente di ereditare da tuo zio. Lo trovi solo a casa sua, immerso nella vasca da bagno, vittima di un infarto. Un medico potrebbe ancora salvarlo. Non lo chiami. È chiaro che, senza uccidere tuo zio, lo lasci morire. È chiaro anche che vuoi sbarazzarti di lui per l’eredità.
2) Sei impaziente di ereditare da tuo zio. Lo investi con la tua macchina. È chiaro che non ti limiti a lasciarlo morire. Lo uccidi. È chiaro anche che vuoi sbarazzarti di lui per l’eredità.
Se il deontologista rimane fermo all’intenzione, come può distinguere il primo caso, che è un esempio di lasciar morire, dal secondo, che è un esempio di uccidere, dato che l’intenzione che orienta l’azione è la stessa: sbarazzarsi dello zio per l’eredità?
In termini più generali, e cioè indipendentemente dalle spiegazioni consequenzialiste, aretiste, deontologiste, ci si può domandare se è possibile mantenere la distinzione tra uccidere e lasciar morire, nel caso in cui lo sforzo richiesto per non lasciare morire qualcuno sia trascurabile.
Che differenza morale ci sarebbe tra uccidere un bambino e lasciarlo morire, se per salvarlo bastasse soltanto premere un bottone del nostro computer?5
Perfino i deontologisti e gli aretisti dovrebbero riconoscere che, in questo caso, la distinzione morale tra uccidere e lasciar morire è inesistente.
Per proseguire nella stessa direzione, ovvero per dimostrare che è possibile superare il conflitto tra consequenzialisti, deontologisti e aretisti sulla distinzione tra uccidere e lasciar morire, si potrebbe ipotizzare che esso non dipenda dai principi impiegati, ma dal punto di vista nel quale ci si colloca per descrivere l’azione.
In realtà, quando si interessano alla distinzione tra uccidere e lasciar morire, i filosofi si pongono spesso nella prospettiva dei soggetti agenti: conducenti d’ambulanza che hanno fretta, eredi senza scrupoli, o medici che hanno a che fare con pazienti incurabili in fin di vita. Da questo preciso punto di vista, la differenza tra uccidere e lasciar morire appare spesso eclatante.
Ma se ci si pone dal punto di vista della vittima o del paziente, le cose si presentano differentemente: la pertinenza della distinzione tra uccidere e lasciar morire diventa meno evidente.
Ad esempio, al paziente incurabile che vuole continuare a vivere poco importa se i medici intervengono attivamente per farlo morire o se lo lasciano morire ponendo fine alle cure che lo mantengono in vita. Il paziente non vuole né l’una né l’altra cosa: egli giudica le due soluzioni altrettanto cattive. Dal suo punto di vista di paziente che non vuole morire, la differenza morale è inesistente6.
Lo stesso discorso dovrebbe valere per un malato incurabile che non vuole più vivere. Poco importa se i medici intervengono attivamente per provocarne la morte, o se lo lasciano morire ponendo fine alle cure che lo mantengono in vita. Il paziente vuole o una cosa o l’altra: egli giudica le due soluzioni altrettanto buone. Dal suo punto di vista di paziente che non vuole più vivere, la differenza morale è inesistente.
Se l’ipotesi è corretta, ci si potrebbe chiedere: se, in una situazione del genere, per i pazienti non vi è alcuna differenza morale tra uccidere e lasciar morire, perché dovrebbe esserci per i medici?