IV. La discussione si allarga: altri punti di vista e altre idee
Carmine Abate. Le confessioni di uno scrittore che non parla inglese e non parlava italiano
Confesso: non parlo inglese. La prima lingua straniera che ho appreso a scuola è stata la lingua italiana, perché sono nato in un paese arbëresh della Calabria, fino a sei anni parlavo solo arbërisht (l’albanese antico) e sono stato scolarizzato in italiano. Quando frequentavo le scuole medie e poi quelle superiori, nella mia provincia veniva insegnato il francese, spesso da avvocati. A sedici anni ho seguito mio padre in Germania e ho imparato, sul campo, prima il germanese, la lingua ibrida e succosa che parlavano gli immigrati italiani, e poi nel corso degli anni, da semplice autodidatta, il tedesco che mi ha consentito di integrarmi abbastanza bene nel mondo di arrivo. I miei coetanei tedeschi parlavano tutti l’inglese e già da allora io li invidiavo e li ammiravo perché loro avrebbero potuto leggere in lingua alcuni dei miei scrittori preferiti, William Faulkner, John Fante, Philip Roth, mentre io dovevo accontentarmi di traduzioni in italiano.
Confesso dunque che se potessi tornare indietro, almeno al periodo universitario, mi butterei a capofitto nello studio dell’inglese perché, a parte la ricchezza culturale che ti dà la conoscenza di una lingua straniera, senza l’inglese è difficile districarsi nel mondo d’oggi. E si corre il rischio di affogare quotidianamente nella marea di termini inglesi che, come è noto, hanno infestato l’italiano.
Un esempio delle difficoltà e dei rischi succitati è l’articolo apparso il 1° giugno del 2012 sul «Corriere della Sera» con il titolo Conoscere l’inglese davvero. Una sfida che vale il lavoro. Un articolo interessante, senza dubbio, in cui la giornalista Irene Consigliere riportava i consigli di alcune aziende per studiare al meglio l’inglese e inserire di conseguenza nel mondo del lavoro neolaureati con esperienza «nel risk management, sourcing e procurement e supply chain management e per il settore della consulenza tecnologica e outsourcing». Ho capito soltanto management e le tre parole italiane che, in quel contesto, mi sembravano pure straniere, estranee.
Alla luce di questa lunga premessa, confesso infine che ho seguito con molto interesse e un po’ d’inquietudine il dibattito su quali lingue utilizzare nell’insegnamento universitario.
Leggendo gli interventi di chi è favorevole all’utilizzo esclusivamente dell’inglese, almeno nei corsi di laurea magistrali e nei dottorati, e di chi è contro, mi è sembrato di primo acchito che avessero ragione entrambi.
Prendiamo la posizione del rettore del Politecnico di Milano Giovanni Azzone, ben sintetizzata nell’articolo succitato: «Per i nostri studenti è importante non solo avere una buona preparazione tecnica, ma anche essere pronti a lavorare in un contesto internazionale. Siamo fortemente convinti che le nostre debbano essere classi internazionali e l’unico modo per farlo è di usare l’inglese come lingua franca di comunicazione». Un ragionamento che, in apparenza, non fa una grinza e che porta dritti alla decisione del Politecnico di erogare in maniera esclusiva e obbligatoria soltanto corsi di laurea magistrale e dottorati in lingua inglese. Come dargli torto se l’obiettivo dichiarato è l’inserimento dei giovani nel mondo globalizzato o se il lavoro diventa un ricatto e l’inglese viene visto come «l’arma linguistica» che consente di affrontare le sfide dei mercati mondiali?
La risposta lucida e altrettanto condivisibile la troviamo nello stesso numero del «Corriere», poche pagine più in là dei consigli delle aziende e del rettore Giovanni Azzone, in un articolo di Giovanni Belardelli. Fin dal titolo, Il provincialismo degli esterofili, vi si criticano le scelte di alcuni atenei e del governo, i quali vorrebbero trasformare «le nostre università in curiosi ibridi, impensabili in altri Paesi di antica tradizione e cultura». Il rischio reale sarebbe quello di eliminare progressivamente l’italiano come lingua dell’istruzione superiore e della ricerca, con la conseguenza perniciosa, secondo Berardelli, «di renderci tutti più apparentemente moderni e up to date, ma anche – ahinoi – meno culturalmente originali e (forse) meno intellettualmente capaci».
È questo il punto nodale: quando si affronta un tema così delicato come quello delle lingue da utilizzare nell’insegnamento universitario, non si dovrebbe ignorare ciò che i linguisti come Luca Serianni, citato nell’articolo, ci ripetono da anni: «la connessione che esiste tra la propria lingua madre e la struttura logica-argomentativa che presiede alla costruzione di ogni discorso o ragionamento».
Insomma, non si può pensare che la lingua sia solo uno strumento di comunicazione e che basti utilizzare la lingua inglese per diventare internazionali. Le difficili sfide dei mercati mondiali, la complessità del mondo in cui viviamo, le possiamo affrontare meglio, cioè più in profondità e con più originalità, imparando bene e utilizzando i linguaggi specifici in primo luogo della nostra lingua madre e poi dell’inglese o anche del tedesco, se ragioniamo soprattutto in termini di possibilità lavorative.
Non a caso i Paesi come la Germania, che da decenni hanno intrapreso la via dell’anglificazione dell’insegnamento universitario, oggi stanno ritornando sui loro passi e riconoscono, alla luce di numerose ricerche, il fallimento parziale o totale del modello. Che senso ha, dunque, importarlo in Italia? Non si capiscono le ragioni più profonde di questa scelta, se non nell’incapacità della politica di essere lungimirante o nello «sconcertante provincialismo» di cui parla Belardelli. Oltretutto l’inglese che si usa nei contesti internazionali non è più quello britannico o americano, ma una lingua impoverita nel lessico e, di conseguenza, a livello concettuale.
In conclusione, pur non condividendo del tutto i toni allarmistici (a meno che non siano provocatori) di chi teme che l’italiano possa diventare un semplice vernacolo nei confronti della superiore lingua inglese, credo che anche nel campo dell’apprendimento si avverta la necessità di proseguire sulla via dell’addizione: continuando a utilizzare la propria lingua madre (che noi arbëreshë chiamiamo con affetto «la lingua del cuore»), approfondendone la terminologia e i concetti dei vari settori del sapere, senza rinunciare all’apprendimento obbligatorio ed efficace dell’inglese e di almeno un’altra lingua comunitaria come il tedesco. Queste «lingue del pane» vanno apprese non solo nelle aule universitarie nazionali, ma anche favorendo soggiorni di studio all’estero e il programma Erasmus, un’opportunità formidabile che hanno i giovani europei per sprovincializzarsi.
Sulla base dell’esperienza personale, da sempre sono favorevole al pluralismo linguistico, che è ricchezza culturale e umana, la strategia più funzionale al mondo del lavoro, più efficace nell’apprendimento, più giusta a livello etico. Una formazione di qualità, che non può prescindere dal pilastro fondamentale della lingua madre, rafforzato dall’inglese e da altre lingue straniere, non rappresenta un incentivo alla «fuga dei cervelli», ma piuttosto un’opportunità a sbocchi lavorativi nazionali o internazionali, nel rispetto della volontà individuale.
Giovanni Adamo e Valeria Della Valle. Italiano, inglese e parole nuove
Le citazioni giornalistiche raccolte da quasi quindici anni nella banca dati dell’Onli (Osservatorio neologico della lingua italiana) ci permettono di verificare uno dei fenomeni più complessi e tipici dell’innovazione lessicale dell’italiano, in particolare di quello giornalistico: il rapporto tra il mondo globalizzato, che tende sempre di più a esprimersi in lingua inglese, e i vari settori della società italiana. Ma vorremmo ricordare subito che la prosa giornalistica potrebbe indurre a una percezione eccessivamente allarmistica degli effetti prodotti dalla penetrazione dell’angloamericano. A questo proposito, rispetto alle 12.700 entrate censite dall’Onli, i forestierismi rappresentano circa il 12% (percentuale che si è conservata stabile nel corso degli anni di osservazione). Accanto a essi, però, vanno diffondendosi con frequenza sempre maggiore gli equivalenti diretti di espressioni straniere, secondo il modello del calco lessicale. Di calchi ne sono registrati 450 e 70 di essi sono internazionalismi, cioè parole o espressioni nuove che si diffondono simultaneamente in tutte le lingue occidentali, adattando o ricalcando in vario modo elementi lessicali di matrice inglese o angloamericana, soprattutto nell’ambito della tecnologia, dell’economia, dei grandi eventi di portata mondiale, ma anche con riferimento a esperienze della vita quotidiana che tendono a somigliarsi sempre di più in ogni luogo del pianeta.
Del resto, il processo di adozione di forestierismi ha costellato l’intera evoluzione diacronica dell’italiano, riflettendo relazioni e scambi con culture e lingue che nel corso dei secoli sono entrate in contatto con le varie popolazioni italiane. L’ingresso di parole straniere è avvenuto con forme e modi diversi e, nel tempo, ha coinvolto aree geografiche e fasce sociali differenti, lasciando tracce anche nel lessico della lingua letteraria. Vale la pena, però, di sottolineare che, soprattutto nel lavoro giornalistico, l’uso di un forestierismo non è sempre il frutto di una scelta pienamente consapevole e motivata. Sovente, al contrario, può essere dovuto alla quantità di notizie che arrivano nelle redazioni attraverso i canali delle agenzie internazionali e alla velocità con cui il materiale informativo viaggia nella rete telematica, senza tenere conto dei tempi ridotti che spesso scandiscono l’attività giornalistica.
Inoltre, quando si tratta di neoformazioni recenti – come suggeriva opportunamente Massimo Fanfani – si «è sempre in bilico fra enciclopedia e vocabolario, fra aneddotica e storia della cultura, fra l’effimero e ciò che si radicherà profondamente nella lingua, fra l’ultraspecialistico e il lessico più comune» e può risultare quindi perlomeno azzardato tentare classificazioni o previsioni che abbiano la pretesa di durare nel tempo.
Non si deve pensare, infatti, che leggere una parola straniera sulle pagine di un giornale, di una rivista o di un sito web, o ascoltarla alla radio e alla televisione, possa farla diventare un forestierismo definitivamente entrato nel lessico italiano. Oltre a un’attenta osservazione del suo perdurare nell’uso e alla registrazione nei dizionari, che ne sanciscono l’accoglienza, la conferma più significativa del radicamento di un forestierismo nel patrimonio lessicale consiste nel conio di forme derivate che si adattino ai criteri strutturali del sistema linguistico dell’italiano, per quanto si possa correttamente obiettare che si tratta di formazioni ibride. Giovanni Nencioni affermava in proposito: «La lingua di comunicazione, usata nei laboratori e nelle officine, nelle istruzioni per l’uso, nella presentazione commerciale, nella divulgazione, ha con la lingua comune una relazione più o meno vasta e varia, che produce quei fatti d’ibridazione e assimilazione favoriti dal parlato e tollerati da certo scritto: cito il sorprendente caso della lingua di una tecnologia sorta e sviluppatasi nel mondo angloamericano e quindi parlante inglese, l’informatica, tuttavia aggredita dalla forza assimilatrice dell’italiano, che ne trae softuerista, harduerista, formattare, ecc.».
Non solo i giornalisti, ma anche scienziati e tecnologi possono trovarsi nell’occasione di divulgare al grande pubblico dei lettori di quotidiani le conoscenze acquisite, benché il loro obiettivo primario rimanga l’avanzamento della ricerca e – nei limiti posti dagli interessi particolari e dalla concorrenza imprenditoriale – il bisogno di confrontare i risultati del loro lavoro. Scienziati e tecnologi hanno quindi necessità di comunicare in modo efficace, rapido e preciso con i loro colleghi stranieri, prescindendo dalle limitazioni imposte dallo spazio e dal tempo. Proprio questo li porta a privilegiare una lingua internazionale di comunicazione che, a costo di comprimere le diversità culturali dei singoli, riesca a favorire relazioni e scambi. Inoltre, per essere conosciuti e valutati in ambito internazionale, gli studiosi universitari devono far circolare il frutto di ricerche e studi su riviste pubblicate in inglese, lingua che utilizzano abitualmente anche per presentare le loro relazioni ai congressi internazionali. Occorre, però, tenere ben presente che la tendenza all’uso dell’inglese nella maggior parte della produzione scientifica può risultare fortemente penalizzante per uno sviluppo armonico delle singole lingue nazionali. Ancor più penalizzante risulterebbe l’insegnamento specialistico impartito esclusivamente in lingua inglese, soprattutto laddove si consideri che il primo contatto che gli studenti hanno con le terminologie specialistiche si materializza proprio nel momento della lezione accademica. Se uno scienziato non fosse capace di curare la circolazione dei termini specialistici del proprio settore d’interesse anche nella lingua madre, ne determinerebbe un progressivo impoverimento che potrebbe arrivare fino alla completa atrofia lessicale dei settori maggiormente specializzati, quelli nei quali opera un più ristretto numero di addetti. Anche i grandi settori specialistici più direttamente coinvolti nel fenomeno della globalizzazione – si pensi all’informatica e alla telematica, alle nuove tecnologie in genere e all’economia – sono quelli che presentano nella lingua italiana contemporanea il più alto tasso di forestierismi, di parole cioè originariamente estranee al sistema linguistico italiano. Non è qui in discussione la tutela di un patrimonio lessicale, ma il diritto di tutti a utilizzare forme lessicali trasparenti e comprensibili, soprattutto quando irrompono con veemenza nella vita quotidiana. E ciascuno sa, per la propria personale esperienza, quanto costi dover comprendere, oltre al funzionamento di tecnologie nuove e complesse, anche i termini stranieri che vengono utilizzati per designarne i servizi, i prodotti – o le loro singole parti –, e le varie procedure d’uso. Per non parlare del destino di una lingua nazionale che, privata dell’innovazione lessicale nei settori specialistici, si troverebbe a svolgere le funzioni di una mera espressione dialettale.
Paolo E. Balboni. Quale lingua all’università
È necessaria una premessa personale che dà un significato particolare alla posizione fortemente critica verso i corsi in inglese (tranne che in alcune discipline nelle magistrali dei Politecnici) che esprimerò in questo contributo:
a) sono laureato in inglese;
b) la mia formazione scientifica nasce da due Fullbright che mi hanno consentito di studiare prima alla ucla e poi alla nyu;
c) sono stato visiting professor in università americane e canadesi;
d) ho scritto libri e saggi in inglese;
e) ho iniziato la mia carriera come lettore di inglese e borsista di linguistica inglese.
Non ho, quindi, problemi con l’inglese: lo parlo, lo leggo, lo scrivo.
Se argomenterò su...