Il fascismo come regime della menzogna
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Il fascismo come regime della menzogna

  1. 112 pagine
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Il fascismo come regime della menzogna

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«Bisogna fare di tutto perché quella intossicazione vischiosa non ci riafferri: bisogna tenerla d'occhio, imparare a riconoscerla in tutti i suoi travestimenti. In quel ventennio c'è ancora il nostro specchio. Solo guardando ogni tanto in quello specchio possiamo accorgerci che la guerra di Liberazione, nel profondo delle coscienze, non è ancora terminata.»
I capitoli inediti di un'opera di Piero Calamandrei: un bilancio del ventennio all'indomani della Liberazione, un inno alla libertà ritrovata, un'analisi a caldo del regime.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115053
Argomento
Filosofia

VI. I congegni costituzionali per la manifestazione del consenso

Questo fu il valore morale della apparente acquiescenza dell’Italia al fascismo: che non fu dunque consenso, ma fu, prima, impreparazione alla resistenza armata, e poi, nella lunga attesa ventennale, maturazione paziente della riscossa.
Ma non su questa generale apparenza di rassegnazione, il fascismo fondava la sua ambizione di figurare come un regime basato sul consenso: il silenzio, l’assenteismo politico erano anzi guardati di mal’occhio, e furono spesso titolo sufficiente per esser bastonati.
Le prove del consenso nazionale, da cui il fascismo si vantava sostenuto, erano cercate, più che nella passività acquiescente e silenziosa, nelle manifestazioni non solo attive ma clamorose che periodicamente venivano fuori dai novissimi congegni costituzionali creati apposta per dar modo all’entusiasmo popolare di erompere a data fissa: sul curioso meccanismo di questi congegni mette conto fermare un momento l’attenzione.
La dottrina fascista, si è già visto, si dichiarò fin da principio fieramente ostile al suffragio popolare e alle “consultazioni periodiche”47: e la facezia contro i “ludi elettorali demo liberali” fu uno dei luoghi comuni con cui i polemisti del regime, di solito così duri ed accigliati, amavano riposare, in un sorriso di compiacimento, la tensione del loro stile. Ma, nonostante questa proclamata avversione teorica, il fascismo si guardò bene, quando salì al potere, dallo smontare subito la macchina elettorale: e per ben diciassette anni, cioè fino alla legge del 10 gennaio 1939, continuò a servirsene anch’esso, cercandovi, proprio come facevano i deprecati regimi democratici, la prova del consenso popolare.
Ma poiché, a lasciarla così com’era, col voto libero e segreto, era agevolmente prevedibile quale risposta avrebbe dato la grandissima maggioranza degli elettori, il fascismo apportò alla legge elettorale alcuni ingegnosi ritocchi che costituiscono forse, tra tutte le truffe costituzionali del regime, la più pittoresca.
In tutti i governi rappresentativi, qual era, per l’art. 2 dello Statuto, la monarchia italiana, le elezioni presuppongono nell’elettore un diritto di scelta tra i diversi candidati o le diverse liste di partito che si presentano nella lizza politica; in modo che il conferimento dell’ufficio pubblico all’eletto (il cosiddetto “mandato politico”) appaia come l’espressione di una libera determinazione del corpo elettorale. Ora che cosa fece il fascismo? Mantenne, poiché questo poteva far comodo alla sua tecnica spettacolare, tutta la teatralità della lotta elettorale: convocazione delle masse popolari, la clamorosa propaganda elettorale, il cerimoniale misterioso del voto segreto, la inscenatura delle urne e degli scrutini, l’emozione finale della proclamazione dei vincitori; ma, al di sotto di tutto quest’apparato scenico di vecchio stile “liberaldemocratico”, che doveva dare l’impressione di un’accanita lotta politica e di una vittoria valorosamente conquistata, introdusse questa piccola novità: abolì nella votazione non solo la libertà, ma finanche i termini della scelta. L’elettore infatti non poté più scegliere tra diverse liste di partito, perché di partiti ormai non era rimasto sul mercato altro che uno, quello fascista; e non poté più scegliere tra diversi candidati, perché i candidati li sceglieva per conto suo il governo e li includeva d’ufficio nell’unica lista, il famigerato “listone” del partito fascista, che i cittadini erano chiamati ad ingoiare in blocco... Così le elezioni, che sotto i precedenti regimi erano “ludi”, si ridussero finalmente, per merito del fascismo, ad essere una cosa seria: una specie di finta battaglia elettorale in cui tutti gli elettori italiani venivano solennemente chiamati a celebrar la vittoria di cinquecento campioni che già prima di scendere nella lizza vuota di avversari erano stati dichiarati vincitori dalla volontà del duce.
A voler essere sinceri bisogna riconoscere che una certa possibilità di scelta era lasciata dalla legge del 192848 agli elettori: non più scelta tra candidati o tra liste di partito, ma scelta tra il votar “sì” o il votare “no” su quell’unica lista. La legge infatti, a pigliarla così come è scritta, non imponeva espressamente all’elettore di approvare la lista fascista, ma gli lasciava apparentemente la libertà di approvarla o di respingerla. Era dunque, all’apparenza, una specie di referendum o plebiscito applicato alle elezioni politiche, e destinato, anziché alla scelta dei deputati, a dire attraverso la approvazione o il rigetto delle liste governative, un giudizio generale di consenso o di dissenso sulla politica del governo.
È facile intendere che con questo sistema, anche se fosse stato attuato lealmente, era già sparito, insieme colla distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo, ogni freno di legalità alla onnipotenza del governo: nessun controllo effettivo poteva ormai esercitare sul governo la Camera dei deputati, i quali, per esser inclusi nella lista governativa e per non essere cacciati alla prima occasione, non potevano far altro che obbedire e tacere.
Ma tuttavia, anche in questo sistema ingegnosamente escogitato per trasformare il parlamento in un’accademia di lacchè, c’era la possibilità che il corpo elettorale votasse “no”: era una possibilità meramente teorica (tant’è vero che la legge si guardava bene dal precisare, o anche solo dall’accennare, che cosa sarebbe giuridicamente avvenuto se il listone governativo non fosse stato approvato dalla maggioranza degli elettori), ma insomma, per quanto teorica, la possibilità c’era; e bisognava dunque, perché la legge fosse perfetta, colmare questa lacuna. Ed ecco che proprio qui si vede tipicamente messa in azione la duplicità, in senso proprio ed in senso figurato, del sistema fascista: la realtà dell’illegalismo ufficioso chiamato a smentire l’apparenza della legalità ufficiale. Di fronte agli articoli della legge scritta, che proclamavano solennemente la libertà e la segretezza del voto e che predisponevano tutto un procedimento visibile per garantire al cittadino il diritto di scegliere fra il sì e il no (l’elettore, a cui il presidente del seggio consegnava una busta aperta colla scheda tricolore del sì e quella bianca del no, si ritirava in cabina ed in segreto introduceva nella busta la scheda preferita: e poi, uscito dalla cabina, consegnava al presidente la busta chiusa, che veniva introdotta nell’urna in presenza degli scrutatori) c’era, organizzato nei minimi particolari, un procedimento sotterraneo destinato a paralizzare e a beffare il procedimento apparente: e mentre l’osservanza del procedimento apparente era affidata alle autorità ufficiali, cioè ai magistrati che presiedevano i seggi, la esecuzione di quello sotterraneo era affidata alle autorità del partito, i cui rappresentanti stavano nel seggio col preciso incarico di sorvegliare gli elettori e costringerli a votare totalitariamente per il sì; se poi il magistrato che presiedeva il seggio si ostinava a far rispettare la legge contro la prepotenza delle camicie nere (ed era una ostinazione che poteva costargli la carriera), allora a dirimere il conflitto tra le due autorità interveniva il prefetto: il quale lodava gli scrupoli giuridici del magistrato, e dava ragione alla avvedutezza politica delle camicie nere...
Le cose procedevano in questo modo. In certi seggi, specialmente in quelli di campagna, tutto si svolgeva alla buona, senza inutili cerimonie: erano gli stessi elettori che, a scanso di guai, si rifiutavano di andare in cabina: e il fiduciario fascista provvedeva da sé a introdurre via via nelle buste le schede tricolori, senza che gli elettori, che sfilavano disciplinati dinanzi al banco presidenziale, si scomodassero a compier quella bisogna. In altri seggi più legalitari gli elettori andavano soltanto in cabina, ma di piantone sulla porta di questa c’era una camicia nera, che garantiva colla sua presenza la segretezza del voto. Se poi il presidente esigeva che in cabina l’elettore andasse solo, allora, per questa ipotesi estrema, il rimedio era dato dalle buste: le quali, essendo state fabbricate per preveggenza governativa di carta molto fine, in modo che dal di fuori si potesse vedere per trasparenza se la scheda introdottavi era tricolore o bianca, davano agio agli scrutatori fascisti, per le cui mani tutte le buste dovevano passare prima di esser introdotte nell’urna, di verificare come l’elettore aveva votato; e se appariva che alcuno aveva votato bianco, i solerti fiduciari del partito provvedevano a farlo bastonare seduta stante, oppure lo mettevano in nota per esser bastonato più comodamente la sera, a domicilio.
Chi non ha visto coi suoi occhi questo spettacolo, non crederà mai che si sia potuto arrivare a tanto. Quando si pensa che in altri tempi i piccoli brogli privati di un candidato ministeriale che comprava coi propri denari qualche decina di voti sembravano sufficienti per bollare il capo di quel governo col titolo di “ministro della malavita”, bisogna oggi rinunciare a cercar nel vocabolario espressioni idonee a qualificare colla dovuta proporzione l’ideatore di questo trucco totalitario pubblicamente organizzato, con cui il governo fascista dimostrò al mondo, col semplice geniale ritrovato di una scheda tricolore e di una busta trasparente, il consenso popolare che lo sorreggeva. Ma il trucco non si limitava a garantire il voto favorevole degli elettori che si presentavano al seggio: mirava ad assicurare il plebiscito, l’unanimità di tutto il corpo elettorale. Ed ecco allora, sempre a cura del partito, il rastrellamento mattutino degli elettori casa per casa ed il loro avviamento alle urne in cortei regolarmente inquadrati da militi fascisti; ecco ammessi a votare per procura i bambini lattanti o i vecchi paralitici, od anche, per maggiore solennità, i sepolti; ecco, prima della chiusura della votazione, manciate di schede tricolori cacciate a forza nelle urne per finir di imbottirle... Poi, quando nel far lo scrutinio risultava che i voti erano assai più dei votanti, si facevano le opportune tare per eliminare il troppo e far quadrare i conteggi. Qualche volta quei burloni di scrutatori si divertivano anche a insaporire la scipita unanimità tricolore, coll’aggiungervi, prima di servirla, un pizzico di schede bianche: e così c’era un argomento di più per ridere alle spalle delle “sparute opposizioni” e per confermare che la libertà di voto era assicurata anche a quei quattro lividi antifascisti superstiti...
Io che scrivo, ebbi la dabbenaggine, nelle elezioni del 1928, di andare alla mia sezione elettorale, alla periferia di Firenze, col proposito di votare no: non per inutile bravata, ma per ingenua fiducia nella legge che garantiva la libertà del voto. Mi furono assegnate dal presidente del seggio, che era un giudice del tribunale, le due schede e la busta; entrai in cabina, chiusi nella busta la scheda bianca, gettai nel cestino la scheda tricolore senza neanche prender la precauzione (o sancta simplicitas!) di nasconderla sotto le schede bianche di cui era pieno: e tornai nella sala colla mia busta ben ostentata in mano, ignaro di avviarmi al martirio... Ma ancor prima che salissi lo scalino del seggio, il presidente di scatto si rizzò dalla sua poltrona e allungando il braccio al di sopra del banco verso di me mi strappò bruscamente di mano la busta e la ficcò nell’urna così rapidamente che nessun altro poté posarvi l’occhio. Lì per lì rimasi sorpreso di questo inesplicabile gesto; solamente la sera capii da quali conseguenze esso mi aveva salvato. La stessa [sera] infatti da una terrazza di Piazza Vittorio il segretario politico del tempo annunciò a gran voce al popolo esultante che le elezioni erano state (chi l’avrebbe potuto prevedere?) una schiacciante vittoria della giovinezza fascista; e aggiunse: “Questa vittoria totalitaria l’abbiamo riportata nonostante che alcuni pseudointellettuali antifascisti abbiano votato contro di noi. Ne dico i nomi a titolo d’infamia...”. E qui una lista di nomi, ciascuno dei quali faceva esplodere giù nella piazza, nella marea delle camicie nere tumultuanti, un urlo di sacrosanto sdegno... Se il mio buon presidente non avesse con quella sua mossa repentina impedito agli scrutatori di accorgersi dell’immacolato candore che traspariva dalla mia busta, anche il mio nome sarebbe stato incluso nella lista di proscrizione e gettato in pasto alla folla vendicatrice: come accadde al mio indimenticabile Giulio Paoli, allora ammiratissimo professore di diritto penale alla nostra università fiorentina, il quale, subito avvertito per telefono da un amico che il suo nome era stato gridato in testa alla lista, fece appena a tempo a mettersi in salvo, pochi istanti prima che una banda di squadristi arrivasse a casa sua per fare giustizia... Dovette stare qualche settimana nascosto. Finché si trovò un ministro della educazione nazionale (era [sic!]49: ricordiamolo perché il suo nome non si perda) che per placare la giusta indignazione del fascismo fiorentino trasferì il ribelle che aveva osato votare no dall’Università di Firenze a quella di Pavia. Alla cattedra fiorentina, che era stata la meta di tutta la sua vita, non tornò più: col cuore avvelenato dall’amarezza di quell’esilio, si spense sognando la libertà...
Questo fu dunque il sistema elettorale creato dal fascismo e inaugurato felicemente colle elezioni del 1928; la cui essenza giuridica si può riassumere in questa formula: acclamazione totalitaria dei deputati eletti in anticipo dal governo, con voto libero e segreto, ma temperato (affinché la segretezza non partorisca il tradimento e la libertà non degeneri in licenza), dal controllo del partito fascista e dal bastone per chi vota no.
Eppure anche questo sistema non parve al duce abbastanza totalitario: in quel nome di “deputati” c’era ancora qualche sapore di democrazia; e c’era da sospettare che quella specie di plebiscito popolare da cui gli eletti si sentivano consacrati potesse ingenerare in qualcuno di loro la illusione di contare qualcosa... L’avvilimento di tutti questi poveretti che si strisciavano ai suoi piedi per essere inclusi nel listone o per esservi mantenuti non gli pareva bastante: voleva una legge che ancor più energicamente dichiarasse che i legislatori del regime fascista non erano altro che salariati del potere esecutivo licenziabili ad nutum senza preavviso.
E così venne la legge del 10 gennaio 1939, n. 129: della cui singolarissima originalità gli Italiani non hanno avuto agio di avvedersi perché essa è venuta in un periodo in cui c’era da pensare a qualcosa di più serio; ma che merita tuttavia di essere illustrata, perché è una delle più superbe prove della capacità costruttiva del fascismo. La ingegnosa trovata, che si potrebbe denominare della camera perpetua a formazione automatica e continua consisté nel rendere la nomina dei “consiglieri nazionali” (denominazione sostituita a quella di “deputati”) indiretta ed impersonale, in quanto si stabilì che questo ufficio, anziché essere conferito attraverso apposite elezioni a persone scelte come individualmente degne ed idonee a questo fine, fosse attribuito automaticamente a tutti quei gerarchi che “già si trovassero a far parte del consiglio nazionale del partito nazionale fascista” o del “consiglio nazionale delle corporazioni” (art. 3): e per questo la nuova camera si disse, invece che dei deputati “dei fasci e delle corporazioni”. Così non c’era più bisogno di elezioni politiche, poiché l’ufficio di consigliere nazionale ricadeva di diritto, come un accessorio connesso alla carica principale, su ciascun componente di quei due consigli: i chiamati a sedere in un di quei due consessi, trovavano annessa per sovrappiù la nomina a consigliere nazionale come un titolo nobiliare attaccato al possesso di un feudo: e la perdevano automaticamente il giorno in cui cessavano di stare assisi su quel seggiolone. La qualità di consigliere nazionale non era dunque conferita mediante una designazione ex novo, ma “riconosciuta”, “con decreto del duce del fascismo” (art. 5), quale investitura secondaria a cui si aveva diritto in conseguenza di un altro ufficio che si aveva in precedenza; e si perdeva col decadere da questo ufficio (art. 8).
Non c’è bisogno di approfondita indagine per comprendere come questo sistema (nel quale l’esercizio della funzione legislativa, che negli Stati liberi è la più alta espressione della sovranità, diventava un trascurabile accessorio di altri uffici di natura amministrativa) segnasse il completo e definitivo assorbimento della funzione legislativa nel potere esecutivo: alla rigida formula dello Statuto, secondo il quale “il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal re e dalle due camere” (art. 3) era sostituita una frase pietosamente anodina: “il senato del regno e la camera dei fasci e delle corporazioni collaborano al governo per la formazione delle leggi (art. 2), nella quale era scomparsa ogni traccia del “potere legislativo” e la funzione del senato e della camera era ridotta a una semplice collaborazione col governo. Ma se si pensa che la nomina a tutti gli uffici politici o corporativi, o la revoca dei medesimi, dipendeva dal beneplacito del duce, è facile intendere non soltanto che con questo sistema la camera “dei fasci e delle corporazioni” era apertamente diventata un organo di nomina governativa, ma che il capo del partito e del governo poteva in ogni tempo, ordinando opportuni “cambi della guardia” nelle gerarchie, sbalzare giù ad uno ad uno dal loro seggiolone i consiglieri nazionali che non lo soddisfacessero più, e mettere altri più graditi ai loro posti. Così la camera, senza il perturbamento periodico delle elezioni e degli scioglimenti, aveva raggiunto la augusta solidità di un’istituzione permanente come il regime, munita di valvole di ricambio per rinnovarsi perennemente...

Indice dei contenuti

  1. I. Il regime della menzogna costituzionale
  2. II. La finzione del totalitarismo
  3. III. La finzione della rivoluzione: la fase iniziale
  4. IV. La rivoluzione continua
  5. V. La finzione del consenso
  6. VI. I congegni costituzionali per la manifestazione del consenso
  7. Nota editoriale. Un bilancio del ventennio fascista all’indomani della Liberazione di Firenze