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Povertà e welfare in Italia
1. L’irruente aumento della povertà
La diffusa presenza della povertà pare oggi un tratto scontato nel nostro panorama sociale. Solo pochi anni fa, però, la realtà era ben diversa. Nel 2007, alla vigilia della lunga crisi economica vissuta dall’Italia – assai più duratura e pesante di quella verificatasi negli altri principali Paesi europei – si trovavano in povertà assoluta 1,8 milioni di persone: da allora il loro numero è progressivamente cresciuto fino a raggiungere i 5 milioni (nel 2017 e 2018) per poi scendere a 4,6 (2019). In termini percentuali, gli individui in povertà assoluta – la definizione utilizzata nel libro (cfr. box 1) – in quest’ultimo anno erano il 7,7% del totale e le famiglie il 6,4%.
Dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale, è la seconda volta che l’Italia sperimenta un forte incremento della povertà. Nel 1948, nel lacerato scenario post-bellico, un italiano ogni tre si trovava in questa condizione. Un costante trend di diminuzione, particolarmente accentuato nel corso degli anni ’70, ha caratterizzato il periodo dagli anni ’50 all’inizio degli anni ’80. Dopo un decennio di sostanziale stabilità, nella prima metà degli anni ’90 – in concomitanza con una fase di crisi economica – ebbe, appunto, luogo un grande aumento della povertà, seguito da una sua costante riduzione sino alla metà del decennio successivo. L’interrogativo è se, nel prossimo futuro, un’analoga inversione di rotta sarà possibile, ipotesi impegnativa anche alla luce dell’irrompere della pandemia dovuta al Covid-19 nella primavera del 2020. Se così non fosse, sarebbe la prima volta, dopo la Seconda guerra mondiale, che una fase pluriennale di crescita della povertà non è seguita da un’altra di progressiva riduzione.
Box 1 Cos’è la povertà?
Esistono numerose definizioni di povertà, e altrettante modalità di misurazione. In ogni modo, sia il dibattito tecnico sia quello politico concordano nell’indicare la povertà assoluta come punto di riferimento. Nel libro ci si riferisce sempre a essa, così come viene misurata dall’Istat, e il sostantivo «povertà» è utilizzato come sinonimo.
Versa in povertà assoluta chi non può sostenere le spese minime necessarie ad acquisire i beni e i servizi ritenuti essenziali, nel contesto italiano, a conseguire uno «standard di vita minimamente accettabile». Ciò significa, in concreto, raggiungere livelli nutrizionali adeguati, vivere in un’abitazione dotata di acqua calda ed energia, potersi vestire decentemente, poter acquistare medicinali e usare i mezzi pubblici, e così via. La soglia di povertà assoluta definita dall’Istat rappresenta il valore monetario dell’insieme di queste spese: chi non può affrontarle si trova in tale stato. La soglia varia secondo l’ampiezza della famiglia, la sua composizione per età, l’area territoriale (Nord-Centro-Sud) e la dimensione del Comune di appartenenza.
La principale definizione alternativa consiste nella povertà relativa. La sperimenta chi ha una disponibilità di risorse fortemente inferiore a quella della maggior parte degli individui della società in cui vive. Secondo l’Istat, questa situazione si verifica quando il consumo familiare equivalente – cioè aggiustato opportunamente rispetto alla numerosità del nucleo – è inferiore alla metà del consumo medio pro capite della popolazione. Per l’Eurostat, invece, è in povertà relativa chi ha un reddito inferiore al 60% di quello mediano* del proprio Paese.
Quella relativa, tuttavia, non rappresenta una forma di povertà bensì di accentuata diseguaglianza. La specificità della povertà, infatti, consiste nell’impossibilità di avere uno standard di vita ritenuto minimamente accettabile nel proprio contesto sociale. Disporre di risorse economiche molto inferiori rispetto agli altri, invece, non significa necessariamente essere privi di quelle necessarie a raggiungere tale standard. In altre parole, la domanda da porsi per capire se una persona è povera è: «ha le risorse per poter condurre una vita decente?»; per chi si trova in povertà assoluta la risposta è negativa. Per comprendere se una persona è in povertà relativa, invece, il quesito è: «ha molte meno risorse degli altri?» e la risposta è positiva.
La disponibilità di risorse economiche costituisce il criterio abitualmente adoperato per definire la povertà in ambito scientifico e per stabilire la possibilità di beneficiare degli interventi tesi a contrastarla. Nondimeno, la povertà assume spesso i tratti di un fenomeno multidimensionale, che vede sommarsi alle difficoltà economiche problemi di diversa natura legati a lavoro, casa, cura dei componenti fragili della famiglia, relazioni, salute e altro**.
* La mediana è il valore assunto dall’unità statistica che si trova a metà della distribuzione. In questo caso gli individui di un Paese vengono ordinati in base al reddito e il valore mediano contraddistingue le persone che si trovano a metà di tale ordinamento.
** Su definizione e misurazione della povertà si veda Baldini, M., Toso, S. (2009), Diseguaglianza, povertà e politiche pubbliche, Il Mulino, Bologna.
2. Le trasformazioni della povertà
Per comprendere l’evoluzione del fenomeno non basta chiedersi quante sono le persone colpite, bisogna anche esaminare chi sono. In proposito, la recente fase di grande crescita dell’indigenza è stata accompagnata dall’insorgere di caratteristiche storicamente inedite nel profilo della popolazione coinvolta, che hanno modificato il tradizionale «modello italiano di povertà» perdurante sin dalla fine della Seconda guerra mondiale. Solo l’adozione di una prospettiva di lungo periodo, dunque, permette di mettere a fuoco le trasformazioni della povertà nel nostro Paese. Allo stesso tempo, è utile fermare l’analisi della sua dinamica temporale appena prima dell’introduzione delle nuove politiche di contrasto. Si potrà così tratteggiare il contesto nel quale si è deciso di avviarle; per quanto riguarda il futuro, invece, non è possibile prevedere la conformazione della povertà in Italia nello scenario successivo alla comparsa del Covid-19. La disamina delle trasformazioni del fenomeno nel nostro Paese proposta di seguito è costruita in tal modo e verte sulle sue principali dimensioni.
Geografia
Storicamente la povertà in Italia è fortemente concentrata nel Mezzogiorno e, anzi, il divario tra Centro-Nord e Sud si è ampliato nel dopoguerra, con una significativa accelerazione nei decenni precedenti l’inizio del secolo attuale. Ancora nel 1997, infatti, tre famiglie povere su quattro vivevano al Sud. Neppure in anni recenti la miseria nel Mezzogiorno si è ridotta, piuttosto è avvenuto il contrario: tra il 2005 e il 2017, infatti, la percentuale di poveri sulla popolazione di quell’area è salita dal 5,5% all’11,4%. Nel frattempo, però, nel Settentrione si è passati dal 2,3% al 7% e nel Centro dal 2,7% al 6,4%. Considerando che due terzi della popolazione complessiva risiede nel Centro-Nord, l’insieme di questi trend ha prodotto una novità rilevante: la maggioranza dei poveri non vive più nel Meridione, dove oggi si trova il 47% del totale.
Rispetto alla variabile territoriale si evidenziano due tendenze comuni a diverse altre caratteristiche distintive della povertà. Da una parte, l’indigenza aumenta nei gruppi tradizionalmente più esposti a questo rischio (qui il Sud), nei quali si rilevano sempre i tassi nettamente più elevati. Dall’altra, si registra un incremento relativo maggiore nei gruppi sinora meno esposti (in questo caso il Centro-Nord), che passano da percentuali residuali ad altre molto più alte che in passato, indicative di un’inedita rilevanza sociale.
Lavoro
Sino all’inizio di questo secolo disporre in famiglia di un reddito da lavoro aveva rappresentato un efficace elemento di protezione contro il rischio di povertà. Oggi, invece, nella metà delle famiglie povere c’è una persona che lavora, a riprova dell’estensione raggiunta dal fenomeno dei working poors, appunto individui occupati appartenenti a un nucleo indigente. I dati 2005-2017 mostrano una dinamica simile a quella della collocazione geografica. Nelle famiglie senza occupati la povertà, già assai radicata all’inizio del periodo, è cresciuta notevolmente giungendo addirittura a toccare circa un nucleo ogni cinque. Ma ad evidenziare il maggior incremento relativo sono i nuclei con occupati: tra questi la povertà è salita dal 2,2%, una percentuale marginale, sino al 6,1%. Poiché le famiglie con occupati sono ben più di quelle che ne risultano prive, l’esito complessivo è la presenza di lavoratori in un nucleo povero su due, come detto sopra.
Figli
Storicamente, a influenzare il rischio di povertà di una famiglia non era tanto la generica presenza di figli minori quanto il loro numero, poiché più ve n’erano, maggiore era la probabilità di impoverirsi. La regola della «soglia di sicurezza» a due figli, in particolare, si era dimostrata eccezionalmente stabile nel tempo, accentuandosi nei periodi più recenti: le famiglie con uno o due figli minori sperimentavano tassi di povertà inferiori alla media nazionale, quelle con tre o più tassi superiori. Ebbene, questo assunto non vale più: oggi anche tra i nuclei con uno o due figli minori si registrano livelli di indigenza decisamente più alti della media nazionale. Tra il 2005 e il 2017 le coppie con almeno tre figli minori mostrano di essere quelle più colpite, con un deciso incremento della percentuale coinvolta (dal 5% al 17,2%). Nondimeno, una crescita relativa ancora maggiore si riscont...