Vergogna, paura e altre emozioni
Il grido “Vergogna!” sprigiona da un canovaccio di relazioni sociali mosse non da
strutture economiche e di classe, ma da sentimenti morali. La vergogna dovrebbe essere
un sentimento di autocontrizione atto a svolgere una funzione correttiva del comportamento
dei singoli e, indirettamente, della società. Questo può succedere a condizione che
chi dovrebbe vergognarsi riconosca un’autorità morale giudicante esterna: un amico
o un genitore nel caso di attori privati, oppure il pubblico del quale si cerca e
si teme il giudizio nel caso di attori politici. Il sentimento della vergogna ha una
forza performativa unicamente se il vincolo sociale esiste e ha autorevolezza di giudizio
sui singoli.
Nel 1823, Giacomo Leopardi annotava nello Zibaldone: «Niuna cosa nella società è giudicata, né infatti riesce più vergognosa, del vergognarsi»1. Convinto della funzione attiva, ovvero pratica del “vergognarsi”, Leopardi aveva
immortalato la deprimente condizione dell’Italia nel canto Sopra il monumento di Dante, come a voler muovere i lettori:
Volgiti indietro, e guarda, o patria mia,
quella schiera infinita d’immortali,
e piangi, e di te stessa ti disdegna;
che senza sdegno omai la doglia è stolta:
volgiti e ti vergogna e ti riscuoti,
e ti punga una volta
pensier degli avi nostri e de’ nepoti.
Per questa sua capacità generativa di comportamento reattivo e innovatore, il sentimento
della vergogna, insieme a quello della colpa, viene posto da Giambattista Vico alle
origini della società: è il mito della vergogna primaria, quella di Adamo e Eva di
fronte alla loro nudità, scoperta dopo aver ascoltato le loro emozioni e disatteso
il comando divino. Nella Genesi come nell’Esodo, la vergogna e la colpa figurano alle origini della responsabilità morale e dell’autorità.
Il rossore che avvampa le guance di chi prova vergogna è il segno della socialità
di questa emozione, l’indicazione del bisogno di riconoscimento da parte degli altri
e del controllo che quel riconoscimento opera sulle azioni: chi prova vergogna non
riesce a sostenere lo sguardo altrui e abbassa gli occhi a terra, riconoscendo in
questo modo l’autorità morale dell’altro, e delle norme etiche della comunità. Questa
dimostrazione di vergogna è correlata e complementare alla reazione di indignazione
che la conoscenza dell’altrui comportamento vergognoso induce.
Insomma, la vergogna mette in scena una fenomenologia doppia: nel protagonista (la
persona colpevole) genera un’azione reattiva o di ritorno a sé quasi a voler cercare
nascondimento (così nasce il senso di autocontrollo); nell’osservatore esterno (chi
assiste e vede o sa) genera un’azione attiva o di indignata ripulsa (il potere giudicante
dell’opinione).
È a causa di questa doppia fenomenologia che poeti e filosofi hanno attribuito ad
essa un ruolo non solo di fustigazione per contrizione e pentimento, ma anche liberatorio,
sia per l’individuo sia per la collettività. La vergogna che si traduce in indignazione
è un atto di accusa che può muovere le azioni collettive di chi denuncia e non ha
o non esercita potere: a gridare “Vergogna!” è verosimilmente chi il potere non ce
l’ha.
Non provare vergogna, e per converso non essere indignati, è da questo punto di vista
segno di una realtà morale preoccupante perché impermeabile all’ethos pubblico, indifferente
al riconoscimento da parte degli altri e al giudizio pubblico e del pubblico; segno
di un’attitudine di apatico realismo, di cinismo, di coriaceo individualismo che si
accompagna a una realtà recalcitrante al cambiamento. Una persona che non si vergogna
non sente di dover reagire o cambiare comportamento.
È proprio contro questa eventualità che gli scrittori si sono spesi per svegliare
le coscienze dormienti, educare il senso di indignazione, smuovere l’emozione della
vergogna: a questo scopo è orientato lo spirito civico. E quest’opera della cultura
dimostra ulteriormente come la vergogna possa essere segno della civiltà e agente
di civilizzazione. La forza di questa emozione, come di tutte le emozioni, è certo
irrazionale, ma la forma espressiva che prende dipende dall’ethos di una società e
svolge una funzione che è razionalmente spiegabile e comprensibile. Per esempio, ciò
che il comportamento sessuale prescrive o censura non è identico in tutte le società,
gli “oggetti” della vergogna e quindi dell’indignazione sono contestuali e socialmente
situati, ma il meccanismo che lo governa è universale. Universale nel senso che, per
riprendere la Bibbia e Vico, le radici della responsabilità morale (e quindi della
punibilità) stanno nella capacità che gli individui hanno di sentire la presenza autorevole
dell’altro. Su questa base, l’azione educativa e culturale si è sviluppata nelle società
umane.
Dunque, gridare “Vergogna!” in una piazza contro chi sta nei palazzi del potere segnala
due cose: l’estrema gravità di una condizione di immoralità pubblica, ovvero di corruzione
e la speranza che le persone alle quali quel grido è indirizzato temano il giudizio
pubblico, non importa se per convenienza o per sincero sentimento di vergogna. A questa
condizione l’indignazione popolare può avere effetto e innescare comportamenti e decisioni
che hanno la forza di cambiare il corso degli eventi.
Su questa catena di fenomeni lo stesso Karl Marx – per nulla ben disposto all’utilizzo
di emozioni e sentimenti nella spiegazione dei fenomeni sociali – scrisse parole straordinarie
in una lettera del 1843 scritta dall’Olanda ad Arnold Ruge sulle politiche illiberali
del governo prussiano (che a Marx costarono la condanna e l’espatrio). Commenta Marx,
senza cadere in un vuoto patriottismo, che sarebbe stato auspicabile che i tedeschi
avessero almeno provato vergogna, e aggiungeva: «la vergogna è già una rivoluzione
[...]. E se davvero un’intera nazione si vergognasse, sarebbe come un leone che si
china per spiccar il balzo»2.
Ma le emozioni non sono sempre adatte a guidare il conflitto verso trattative e soluzioni
pragmatiche. Sono spesso energie di contestazione volte a segnalare prepotentemente
uno stato di radicale scontento e che possono anche portare a una rottura delle relazioni
sociali, a ostacolare la ricerca di possibili mediazioni per ricomporre le tensioni
con la parte contestata. Quando ciò succede, come oggi, opinionisti, studiosi, intellettuali
iniziano ad accorgersi che qualcosa non funziona più nelle relazioni sociali e mettono
in circolo l’idea di una “crisi della democrazia” e perfino di una sua “agonia” e
“morte”, l’ansia per il plebeismo, il timore dell’irrazionalità che sgorga della “pancia
del paese”. L’assunto non detto di questi esercizi retorici di catastrofismo è che
il termometro da consultare per comprendere lo stato di salute della democrazia sia
o il grado di reverenza dei “molti” verso “i pochi” che sanno (il ruolo degli intellettuali
guida), o la diffusione dell’apatia politica (occuparsi d’altro e lasciare la politica
agli eletti), mentre le contestazioni segnalerebbero una “sofferenza” della democrazia.
La lotta condotta dai gilet gialli nella Francia di Macron ripropone questo schema:
reazione, manifestazione, rifiuto di aprire una trattativa. Intervistato da un giornalista,
un cittadino francese mobilitato ha offerto in poche parole una spiegazione eloquente
della relazione tra “classi popolari” e politica delle élites nelle nostre democrazie
consolidate: «abbiamo dovuto scegliere la strada della rivolta per farci sentire.
Sono mesi, anni che cerchiamo di far capire le nostre esigenze, le nostre frustrazioni,
di trasmettere le nostre preoccupazioni sul potere di acquisto, ma nessuno ci ascolta».
Tuttavia, se l’ascolto e la visibilità sono lo scopo delle contestazioni, l’obiettivo
non sembra essere quello di ottenere risultati specifici, ma piuttosto quello di tenere sotto tiro, se così si può dire, la classe politica e l’élite sociale. Creare, insomma, una
condizione di imprevedibilità, di imponderabilità, di insicurezza dalla quale una
passione sopra tutte deve emergere e governare gli animi: la paura... La paura che
«un’intera nazione» sia come il leone accovacciato di cui parlava Marx, pronto a spiccare
il balzo.
La divisione tra “i pochi” e “i molti” si manifesta in tutta la sua gravità non solo o non tanto nei contenuti (radicalizzati) delle rispettive posizioni,
ma anche nella concezione della libertà politica: i primi rispondono ai secondi con
una visione di agire pubblico del cittadino che segnala appieno il loro timore per
l’insorgenza collettiva: la democrazia viene indentificata con l’apatia (salvo l’esercizio
ciclico del voto per autorizzare chi governa). I “pochi”, dopo essersi liberati da
gran parte dei vincoli sociali che li mantenevano responsabilmente interattivi con
i “molti”, hanno cessato di provare vergogna, mentre provano certamente paura. Ed
è proprio sulla paura che le relazioni tra le parti sociali si strutturano nell’età
della fine dei conflitti di classe e della politica della mediazione.
Vedremo in conclusione di questo saggio quanto peso abbia avuto e abbia l’interpretazione
minimalista della democrazia in questa incapacità a nominare il conflitto politico,
l’idea cioè che ciò che designa la libertà politica sia essenzialmente ed esclusivamente
godere del diritto di suffragio, senza necessariamente usarlo. La democrazia ridotta
a plebiscito e referendum, a sì/no su persone e cose, è lo specchio di una società
nella quale la relazione binaria tra “i pochi” e “i molti” domina la scena e lascia
poco spazio al discorso, alla deliberazione, alla ricerca della mediazione, al conflitto.
1 G. Leopardi, Zibaldone di pensieri (17 giugno 1822).
2 Le lettere di Marx furono pubblicate dallo stesso Ruge negli «Annali franco-tedeschi»,
e sono ora reperibili anche in https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/Carteggio1843.htm
(consultato il 21/10/2019).