Pochi contro molti
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Pochi contro molti

Il conflitto politico nel XXI secolo

  1. 120 pagine
  2. Italian
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Pochi contro molti

Il conflitto politico nel XXI secolo

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Nadia Urbinati esplora il cuore del meccanismo democratico: la scossa conflittuale tra i 'pochi' e i 'molti', le élites e il popolo.

Il XXI secolo è punteggiato da una serie ininterrotta di manifestazioni popolari che hanno portato in piazza un diffuso scontento: le primavere arabe, Occupy Wall Street, gli indignados, i Vaffa Days, i gilet gialli, le manifestazioni sul clima, le rivolte in Cile, a Hong Kong, in Libano. Quello a cui assistiamo è un conflitto nuovo rispetto a quello rappresentato e organizzato da partiti e sindacati: è contrapposizione tra pochi e molti, tra chi detiene il potere e chi sente di non contare nulla. La frattura sociale profonda che questi antagonismi evidenziano mette in crisi l'idea stessa di democrazia e la espone al rischio di pulsioni autoritarie. Ma questo non è un esito scontato: come scriveva Machiavelli, il conflitto tra pochi e molti può essere anche un lievito di libertà, se il nuovo ordine che ne può risultare riequilibra il potere nella società.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858141939
Argomento
Economia

Vergogna, paura e altre emozioni

Il grido “Vergogna!” sprigiona da un canovaccio di relazioni sociali mosse non da strutture economiche e di classe, ma da sentimenti morali. La vergogna dovrebbe essere un sentimento di autocontrizione atto a svolgere una funzione correttiva del comportamento dei singoli e, indirettamente, della società. Questo può succedere a condizione che chi dovrebbe vergognarsi riconosca un’autorità morale giudicante esterna: un amico o un genitore nel caso di attori privati, oppure il pubblico del quale si cerca e si teme il giudizio nel caso di attori politici. Il sentimento della vergogna ha una forza performativa unicamente se il vincolo sociale esiste e ha autorevolezza di giudizio sui singoli.
Nel 1823, Giacomo Leopardi annotava nello Zibaldone: «Niuna cosa nella società è giudicata, né infatti riesce più vergognosa, del vergognarsi»1. Convinto della funzione attiva, ovvero pratica del “vergognarsi”, Leopardi aveva immortalato la deprimente condizione dell’Italia nel canto Sopra il monumento di Dante, come a voler muovere i lettori:
Volgiti indietro, e guarda, o patria mia,
quella schiera infinita d’immortali,
e piangi, e di te stessa ti disdegna;
che senza sdegno omai la doglia è stolta:
volgiti e ti vergogna e ti riscuoti,
e ti punga una volta
pensier degli avi nostri e de’ nepoti.
Per questa sua capacità generativa di comportamento reattivo e innovatore, il sentimento della vergogna, insieme a quello della colpa, viene posto da Giambattista Vico alle origini della società: è il mito della vergogna primaria, quella di Adamo e Eva di fronte alla loro nudità, scoperta dopo aver ascoltato le loro emozioni e disatteso il comando divino. Nella Genesi come nell’Esodo, la vergogna e la colpa figurano alle origini della responsabilità morale e dell’autorità. Il rossore che avvampa le guance di chi prova vergogna è il segno della socialità di questa emozione, l’indicazione del bisogno di riconoscimento da parte degli altri e del controllo che quel riconoscimento opera sulle azioni: chi prova vergogna non riesce a sostenere lo sguardo altrui e abbassa gli occhi a terra, riconoscendo in questo modo l’autorità morale dell’altro, e delle norme etiche della comunità. Questa dimostrazione di vergogna è correlata e complementare alla reazione di indignazione che la conoscenza dell’altrui comportamento vergognoso induce.
Insomma, la vergogna mette in scena una fenomenologia doppia: nel protagonista (la persona colpevole) genera un’azione reattiva o di ritorno a sé quasi a voler cercare nascondimento (così nasce il senso di autocontrollo); nell’osservatore esterno (chi assiste e vede o sa) genera un’azione attiva o di indignata ripulsa (il potere giudicante dell’opinione).
È a causa di questa doppia fenomenologia che poeti e filosofi hanno attribuito ad essa un ruolo non solo di fustigazione per contrizione e pentimento, ma anche liberatorio, sia per l’individuo sia per la collettività. La vergogna che si traduce in indignazione è un atto di accusa che può muovere le azioni collettive di chi denuncia e non ha o non esercita potere: a gridare “Vergogna!” è verosimilmente chi il potere non ce l’ha.
Non provare vergogna, e per converso non essere indignati, è da questo punto di vista segno di una realtà morale preoccupante perché impermeabile all’ethos pubblico, indifferente al riconoscimento da parte degli altri e al giudizio pubblico e del pubblico; segno di un’attitudine di apatico realismo, di cinismo, di coriaceo individualismo che si accompagna a una realtà recalcitrante al cambiamento. Una persona che non si vergogna non sente di dover reagire o cambiare comportamento.
È proprio contro questa eventualità che gli scrittori si sono spesi per svegliare le coscienze dormienti, educare il senso di indignazione, smuovere l’emozione della vergogna: a questo scopo è orientato lo spirito civico. E quest’opera della cultura dimostra ulteriormente come la vergogna possa essere segno della civiltà e agente di civilizzazione. La forza di questa emozione, come di tutte le emozioni, è certo irrazionale, ma la forma espressiva che prende dipende dall’ethos di una società e svolge una funzione che è razionalmente spiegabile e comprensibile. Per esempio, ciò che il comportamento sessuale prescrive o censura non è identico in tutte le società, gli “oggetti” della vergogna e quindi dell’indignazione sono contestuali e socialmente situati, ma il meccanismo che lo governa è universale. Universale nel senso che, per riprendere la Bibbia e Vico, le radici della responsabilità morale (e quindi della punibilità) stanno nella capacità che gli individui hanno di sentire la presenza autorevole dell’altro. Su questa base, l’azione educativa e culturale si è sviluppata nelle società umane.
Dunque, gridare “Vergogna!” in una piazza contro chi sta nei palazzi del potere segnala due cose: l’estrema gravità di una condizione di immoralità pubblica, ovvero di corruzione e la speranza che le persone alle quali quel grido è indirizzato temano il giudizio pubblico, non importa se per convenienza o per sincero sentimento di vergogna. A questa condizione l’indignazione popolare può avere effetto e innescare comportamenti e decisioni che hanno la forza di cambiare il corso degli eventi.
Su questa catena di fenomeni lo stesso Karl Marx – per nulla ben disposto all’utilizzo di emozioni e sentimenti nella spiegazione dei fenomeni sociali – scrisse parole straordinarie in una lettera del 1843 scritta dall’Olanda ad Arnold Ruge sulle politiche illiberali del governo prussiano (che a Marx costarono la condanna e l’espatrio). Commenta Marx, senza cadere in un vuoto patriottismo, che sarebbe stato auspicabile che i tedeschi avessero almeno provato vergogna, e aggiungeva: «la vergogna è già una rivoluzione [...]. E se davvero un’intera nazione si vergognasse, sarebbe come un leone che si china per spiccar il balzo»2.
Ma le emozioni non sono sempre adatte a guidare il conflitto verso trattative e soluzioni pragmatiche. Sono spesso energie di contestazione volte a segnalare prepotentemente uno stato di radicale scontento e che possono anche portare a una rottura delle relazioni sociali, a ostacolare la ricerca di possibili mediazioni per ricomporre le tensioni con la parte contestata. Quando ciò succede, come oggi, opinionisti, studiosi, intellettuali iniziano ad accorgersi che qualcosa non funziona più nelle relazioni sociali e mettono in circolo l’idea di una “crisi della democrazia” e perfino di una sua “agonia” e “morte”, l’ansia per il plebeismo, il timore dell’irrazionalità che sgorga della “pancia del paese”. L’assunto non detto di questi esercizi retorici di catastrofismo è che il termometro da consultare per comprendere lo stato di salute della democrazia sia o il grado di reverenza dei “molti” verso “i pochi” che sanno (il ruolo degli intellettuali guida), o la diffusione dell’apatia politica (occuparsi d’altro e lasciare la politica agli eletti), mentre le contestazioni segnalerebbero una “sofferenza” della democrazia.
La lotta condotta dai gilet gialli nella Francia di Macron ripropone questo schema: reazione, manifestazione, rifiuto di aprire una trattativa. Intervistato da un giornalista, un cittadino francese mobilitato ha offerto in poche parole una spiegazione eloquente della relazione tra “classi popolari” e politica delle élites nelle nostre democrazie consolidate: «abbiamo dovuto scegliere la strada della rivolta per farci sentire. Sono mesi, anni che cerchiamo di far capire le nostre esigenze, le nostre frustrazioni, di trasmettere le nostre preoccupazioni sul potere di acquisto, ma nessuno ci ascolta». Tuttavia, se l’ascolto e la visibilità sono lo scopo delle contestazioni, l’obiettivo non sembra essere quello di ottenere risultati specifici, ma piuttosto quello di tenere sotto tiro, se così si può dire, la classe politica e l’élite sociale. Creare, insomma, una condizione di imprevedibilità, di imponderabilità, di insicurezza dalla quale una passione sopra tutte deve emergere e governare gli animi: la paura... La paura che «un’intera nazione» sia come il leone accovacciato di cui parlava Marx, pronto a spiccare il balzo.
La divisione tra “i pochi” e “i molti” si manifesta in tutta la sua gravità non solo o non tanto nei contenuti (radicalizzati) delle rispettive posizioni, ma anche nella concezione della libertà politica: i primi rispondono ai secondi con una visione di agire pubblico del cittadino che segnala appieno il loro timore per l’insorgenza collettiva: la democrazia viene indentificata con l’apatia (salvo l’esercizio ciclico del voto per autorizzare chi governa). I “pochi”, dopo essersi liberati da gran parte dei vincoli sociali che li mantenevano responsabilmente interattivi con i “molti”, hanno cessato di provare vergogna, mentre provano certamente paura. Ed è proprio sulla paura che le relazioni tra le parti sociali si strutturano nell’età della fine dei conflitti di classe e della politica della mediazione.
Vedremo in conclusione di questo saggio quanto peso abbia avuto e abbia l’interpretazione minimalista della democrazia in questa incapacità a nominare il conflitto politico, l’idea cioè che ciò che designa la libertà politica sia essenzialmente ed esclusivamente godere del diritto di suffragio, senza necessariamente usarlo. La democrazia ridotta a plebiscito e referendum, a sì/no su persone e cose, è lo specchio di una società nella quale la relazione binaria tra “i pochi” e “i molti” domina la scena e lascia poco spazio al discorso, alla deliberazione, alla ricerca della mediazione, al conflitto.
      
1 G. Leopardi, Zibaldone di pensieri (17 giugno 1822).
2 Le lettere di Marx furono pubblicate dallo stesso Ruge negli «Annali franco-tedeschi», e sono ora reperibili anche in https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/Carteggio1843.htm (consultato il 21/10/2019).

Radicalità

Tra i movimenti autoconvocati di questo ultimo ventennio, solo Occupy Wall Street ha avuto uno spiccato profilo deliberativo, non meramente emotivo, nei mesi in cui ha stazionato nei centri finanziari delle città americane. Occupy aveva uno scopo molto preciso: mettere a nudo la contraddizione per cui mentre la democrazia è governo della maggioranza, nel presente stato di cose la maggioranza sociale non conta più nulla. I cittadini riuniti nelle piazze erano rappresentativi di quella maggioranza impotente. “Siamo il 99%” è una sintesi efficacissima della disfunzione della rappresentanza politica e della sua contestazione, che mette in scena una rappresentazione visiva, fotografica, di una realtà, qualcosa di più di un grido di rabbia. Del resto, a Zuccotti Park non vi era rabbia, ma la testardaggine delle assemblee popolari classiche: persone che si riunivano per raccontare, discutere, capire, denunciare, criticare. Non...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Movimenti
  3. Vergogna, paura e altre emozioni
  4. Radicalità
  5. Distanze
  6. Le ideologie: un lusso
  7. Il potere deve circolare
  8. L’occhio e il click
  9. Vecchi e nuovi intellettuali organici
  10. I “molti” senza classe
  11. Immagini di due popoli
  12. Chi divorzia?
  13. Il “noi politico”
  14. Frontiere interne
  15. Un peccato virtuoso
  16. Passato e presente
  17. Elogio dell’apatia politica
  18. Non vi è pacificazione
  19. La povertà
  20. La sana diffidenza
  21. Repubblica e conflitto
  22. L’ambizione democratica
  23. Il buon conflitto