Capitale e potere
È dagli anni Ottanta che lo Stato si sente dire che deve mettersi sul sedile posteriore e lasciare il volante in mano alle imprese, lasciarle libere di creare ricchezza, intervenendo solo per risolvere i problemi quando emergono. Il risultato è che i governi non sempre sono preparati e attrezzati per gestire crisi come il Covid-19 o l’emergenza climatica. Se si parte dal presupposto che i governi devono aspettare che si verifichi uno shock sistemico enorme prima di decidersi ad agire, è inevitabile che si finisca per non predisporre preparativi adeguati (Mariana Mazzucato, Come cambierà il capitalismo, in “la Repubblica”, 24 marzo 2020).
Il punto di forza del capitalismo politico è l’efficienza dello Stato, ossia il fatto che può portare gli attori privati a costruire qualcosa che migliori la vita quotidiana delle persone in modo tangibile e concreto. Il punto di forza del capitalismo liberale è che lo Stato esiste per definire il quadro istituzionale all’interno del quale gli attori privati decideranno da soli quale sia (casomai) la cosa migliore da costruire. Nel primo caso, lo Stato è un attore attivo e diretto; nel secondo caso, è un attore “abilitante” e passivo (Branko Milanovic, Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro, Laterza, Bari-Roma 2020, pp. 141-142).
Non v’è dubbio che nel corso degli ultimi trent’anni si sia verificato un rovesciamento di ruoli tra Stato e mercato, con un ridimensionamento delle funzioni dello Stato per dare spazio alle libere forze del mercato. E non v’è dubbio che c’erano delle ragioni valide perché questo avvenisse.
Dobbiamo risalire alla prima crisi petrolifera (1973) e alla reazione dei paesi industriali per comprendere perché, a un certo punto della nostra storia, le teorie liberiste hanno finito per prevalere, soppiantando tutta la struttura di pensiero che aveva prevalso nel corso dei trent’anni che sono seguiti alla seconda guerra mondiale. Una struttura che aveva in John Maynard Keynes il suo principale punto di riferimento, con tanto di analisi e teorie che giustificavano, anzi preconizzavano, un forte e costante impegno dello Stato nel determinare una corretta crescita economica dei nostri paesi, non già per sostituirsi al libero mercato, bensì per correggerne i fallimenti.
Teorie e fatti economici vanno di pari passo ed è difficile separarli. Spesso si ritiene che le teorie e le ideologie che le supportano siano responsabili dell’evoluzione dei fatti economici e politici a loro legati. È sicuramente vero il legame, ma non è sempre agevole capire quale sia la causa e quale l’effetto. In un sistema economico dominato dalla politica e in paesi a regimi autoritari l’ideologia condiziona i fatti, ma più spesso sono i fatti, gli eventi e la loro successione che suscitano o resuscitano ideologie e teorie. In effetti, il succedersi di specifici eventi spesso gioca nel senso di rivalutare teorie e impostazioni ideologiche sempre presenti, ma che si ritenevano superate, dando loro nuova audience, nuova forza e nuove espressioni. E questo fino a che nuovi fatti e nuovi eventi non vengano a rendere insufficienti queste impostazioni, che verranno nuovamente superate. L’esperienza degli ultimi settant’anni ci ha fornito un avvicendamento di impostazioni ideologiche al succedersi di eventi di portata rilevante. In realtà, per l’economia, come per molte altre scienze sociali, non esiste una sola soluzione buona per tutti i problemi, così come non c’è una teoria unica buona per tutte le stagioni. Se si vogliono risolvere i problemi, occorre guardare le cose come stanno, inquadrarle nel loro contesto storico e istituzionale ed avere l’umiltà anche di abbandonare i propri preconcetti: nelle scienze sociali ogni soluzione a un problema presente è parte integrante del problema futuro che richiederà perciò nuove e diverse soluzioni.
Fatti e ideologie
Il pensiero di Keynes ha caratterizzato tutto il secondo dopoguerra coinvolgendo, di fatto, la maggior parte dei paesi con le sue teorie. Sicuramente, la necessità di ricostruzione dopo le distruzioni belliche ha favorito una politica di interventi diretti dello Stato, né poteva essere diversamente data la situazione che si era venuta a determinare. Ma non si è trattato solo di ricostruzione fisica. In effetti il pensiero keynesiano ha finito per conquistare quasi tutti gli economisti e ha indotto a costruire un sistema di statistiche e di strumenti analitici legati al pensiero di Keynes, al punto che anche gli economisti che si consideravano liberali e diffidavano dell’interventismo keynesiano furono indotti ad adattarsi all’impostazione keynesiana.
Prima di allora gli economisti basavano le loro teorie essenzialmente sulle osservazioni individuali dei comportamenti delle persone per trarne considerazioni generali da proporre ai governanti. A partire dal secondo dopoguerra l’analisi economica abbandonò i comportamenti individuali e si concentrò tutta sui comportamenti degli operatori economici aggregati: consumatori, imprenditori, famiglie, Stato. Tutti gli istituti di statistica nazionali, sotto la guida di organismi internazionali, svilupparono e utilizzarono sistemi di contabilità nazionale basati essenzialmente sull’equazione della domanda keynesiana, dove il reddito di ogni paese (PIL) è determinato dalla domanda interna (consumi più investimenti) e dalle esportazioni sottratte alle importazioni. In questa equazione, domanda interna ed esportazioni determinano l’offerta (ossia reddito più importazioni) che, a sua volta, determina l’occupazione, e quindi la massa salariale e i profitti, in un circuito che si autoalimenta e genera la crescita del reddito.
In questo gioco di variabili, lo Stato ha un ruolo privilegiato perché, agendo con la finanza pubblica (tasse e spesa pubblica), può influenzare il livello della domanda interna e quello della competitività del paese, perciò anche del reddito e dell’occupazione. Teoria, fatti e strumentazione d’analisi confluivano tutti per dare allo Stato un ruolo primario nella determinazione del benessere. Da qui le politiche economiche che hanno contraddistinto tutti i paesi industriali negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.
La prevalenza del pensiero keynesiano cominciò a vacillare con la prima crisi petrolifera (1973), che intervenne a sovvertire i sistemi produttivi del mondo industrializzato, a causa del venir meno dell’energia a basso costo. Non è questa la sede per raccontare quali furono le reazioni dei paesi industriali alla crisi petrolifera: esiste già un’abbondante letteratura. Ricordiamo solo che la crisi petrolifera ha sconvolto tutti i sistemi produttivi, che si sono dovuti adattare a processi volti alla riduzione dei consumi di energia, ed è stato solo grazie alle innovazioni tecnologiche, quelle che oggi caratterizzano la nostra vita, se le imprese e il mondo industriale sono riusciti a superare la crisi, tanto che oggi il prezzo del petrolio rappresenta una variabile meno significativa per le nostre economie. Questo rovesciamento ha contribuito a riportare forte l’attenzione degli economisti sui fattori che determinano l’offerta (imprese, tecnologie di produzione, strutture e funzionamento dei mercati, fattori che limitano o allargano l’offerta di beni e servizi) e, quindi, ha spostato l’asse dell’attenzione dalle politiche keynesiane, improntate all’interventismo dello Stato per influenzare la domanda, a quelle di stampo liberista, volte a deregolamentare e a privatizzare l’economia per far emergere le forze del mercato che avrebbero influenzato positivamente l’offerta di beni e di servizi.
Le innovazioni nate dopo la crisi petrolifera sono state numerose e pervasive. Esse hanno indotto cambiamenti consistenti della nostra vita quotidiana e hanno sovvertito tutti i processi di produzione e di scambio. L’uso dell’informatica e dell’elettronica ha fatto scomparire milioni di posti di lavoro, mentre ne ha creati altri completamente diversi. Interi settori produttivi sono stati rivoluzionati e sono nate nuove imprese in comparti quasi inesistenti fino ad allora, imprese che hanno finito per dominare il mondo economico e non solo quello: Apple, Microsoft, Google, Facebook, Amazon, Alibaba e tante altre che non esistevano proprio prima della crisi petrolifera.
Tutta la nostra vita è stata rivoluzionata. Basti pensare alle possibilità nate dall’aver messo in connessione tutto il mondo attraverso la rete di internet, che ha consentito di sfruttare, ai fini di contatti di lavoro, tutte le 24 ore della giornata, indipendentemente dal fuso orario di ogni paese, sicché per molti la giornata di lavoro, che prima era scandita ovunque nell’arco delle canoniche otto ore (più un intervallo) tra le 8 e le 17, è esplosa senza più limitazioni. Abbiamo avuto accesso a una quantità incredibile di informazioni superando ogni mezzo di intermediazione. La vita politica è stata sconvolta per l’emergere di nuovi partiti grazie alla disponibilità di nuovi canali di comunicazione e di propaganda. I processi produttivi si sono scomposti e le imprese si sono trovate a competere su una scena mondiale senza più le protezioni fisiche e materiali di un tempo. Insomma, effettivamente per una volta è stato lecito dire che nulla sarebbe stato più come prima.
Tutto questo è avvenuto in un lasso di tempo molto stretto, mettendo in crisi non solo i nostri comportamenti quotidiani, ma anche tutto il sistema di regole e norme che era stato predisposto per un mondo completamente diverso da quello che stava emergendo. Gran parte di questi cambiamenti avrebbe necessitato modifiche giuridiche complesse e articolate, posto che i nostri paesi, allora, erano retti da regolamentazioni rigide e adatte alle tecnologie dell’epoca. Spesso tali regolamentazioni erano state realizzate dopo lunghe ed estenuanti lotte sindacali e/o politiche che avevano segnato molti degli anni del dopoguerra. Anni di discussioni che avevano consentito alle nostre società di definire tutta una serie di regole e di leggi che tutelavano il risparmio, il lavoro, le imprese, la proprietà, i diritti dei cittadini, la gestione dei servizi pubblici e così via. Ebbene, di colpo molte di queste regole diventavano un ostacolo al dispiegarsi delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie. La nuova offerta di merci e di servizi era di fatto ostacolata dalla rete di norme e convenzioni che avevano retto sin lì le nostre società. Sono saltati molti monopoli pubblici che fino ad allora sembravano difficili da smantellare, specie nei paesi europei, come la telefonia, la radio e televisione, la produzione e distribuzione di energia, i trasporti, ecc. Di fatto, le nuove tecnologie hanno reso di colpo obsoleto il nostro mondo.
Questi cambiamenti non hanno riguardato solo i rapporti tra lavoratori e imprese o quelli tra cittadini e Stato, ma anche i rapporti tra gli Stati, regolati fino ad allora da accordi stipulati dopo la seconda guerra mondiale. Basti pensare che la crisi petrolifera generò un forte debito dei paesi consumatori e fece emergere importanti riserve di capitale nei paesi produttori di petrolio. Si verificò così uno squilibrio strutturale nelle bilance dei pagamenti di tutti i paesi, squilibrio da cui è nata quella che avremmo chiamato la finanziarizzazione delle nostre economie.
Per consentire ai paesi in debito di sopravvivere e poter riconvertire tutto l’apparato produttivo, è stato necessario avviare un processo di riciclaggio di quelli che allora venivano chiamati petrodollari – ossia le ricchezze detenute dai paesi produttori di petrolio che, all’improvviso, si trovavano a disporre di rilevanti riserve di capitali grazie agli elevati avanzi nella bilancia dei pagamenti – da prestare ai paesi consumatori di petrolio. Molti nuovi prodotti finanziari, creati per favorire il riciclaggio dei petrodollari, non avevano basi giuridiche per essere trattati sui mercati finanziari e si dovettero fare molte deroghe ai comportamenti e alle strumentazioni esistenti. Da qui una forte spinta all’innovazione finanziaria e alla finanziarizzazione delle economie.
Insomma, era necessario ripensare tutta l’organizzazione della vita economica e civile delle nostre società. Tuttavia, mancavano i riferimenti per capire quale dovesse essere il nuovo assetto di regole. Nacque da qui una forte richiesta di liberalizzazione e di semplificazione dei quadri giuridici e normativi nei nostri paesi. Certo, la componente ideologica di chi è sempre stato più favorevole ai principi del mercato libero ha giocato la sua parte. Ma la spinta principale alla riscoperta del mercato venne proprio dal fastidio per le molte regole, spesso di natura corporativa, che frenavano le innovazioni e dalla necessità di creare un nuovo impianto normativo che facesse emergere i vantaggi delle innovazioni tecnologiche e finanziarie per determinare un nuovo assetto dell’offerta di beni e servizi dopo la rivoluzione del prezzo dell’energia.
E poiché non c’erano precedenti, la cosa migliore che si poteva fare era lasciar operare liberamente il mercato, al fine di conseguire un nuovo assetto che poi avrebbe potuto essere normato una volta che si fosse stabilito quali specifiche soluzioni erano prevalenti. È così che i processi di liberalizzazione hanno trovato sul campo la loro giustificazione, prima ancora di trovarla nei libri di testo e nelle teorie degli economisti e dei politici favorevoli alle libertà di mercato. Il pensiero economico e politico, nonché le teorie che lo accompagnano, sono certamente capaci di cambiare il corso degli eventi. Ma non bisogna dimenticare che più spesso è il corso degli eventi che spinge a favorire certe specifiche impostazioni ideologiche in politica e in economia.
Questo è quanto è successo dopo la prima crisi petrolifera. Nei paesi industriali si avviò un ripensamento profondo delle teorie economiche e politiche che avevano contrassegnato gli anni precedenti tale crisi. Mentre prima tutta l’analisi economica era dedicata al livello della domanda affinché fosse adeguata al livello di reddito necessario ad assicurare la massima occupazione senza effetti inflazionistici, ora diventava importante conoscere e analizzare prevalentemente le condizioni dell’offerta di beni e servizi per favorire l’emergere di nuovi processi produttivi e di nuove produzioni capaci di soddisfare la domanda senza generare squilibri inflazionistici e di bilancia dei pagamenti.
Se per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta la costruzione dello Stato sociale era stata una delle aspirazioni principali dei nostri paesi, assieme alla tutela degli interessi nazionali, dagli anni Settanta si avviò un ripensamento a favore delle libertà di mercato per una migliore composizione dei fattori di produzione e una maggiore efficienza nel funzionamento dei mercati. E questo sia perché i sistemi rigidi apparivano incapaci di riassorbire le scosse della crisi petrolifera, sia perché l’emergere di innovazioni tecnologiche spingeva a modificare profondamente il quadro giuridico dei nostri paesi.
Non è un caso, quindi, se nel 1979 nel Regno Unito i conservatori vinsero le elezioni con Margaret Thatcher, che propugnava un programma chiaramente ispirato alle libertà di mercato, e se l’anno successivo (1980) negli USA fu eletto il repubblicano Ronald Reagan, sempre con un programma di liberalizzazioni e di riaffermazione dei principi del libero mercato. A partire da quegli anni, le parole d’ordine furono: liberalizzazioni e privatizzazioni. Parole che vennero assunte praticamente da gran parte degli economisti e dalla maggior parte dei partiti politici, anche da quelli della sinistra europea e mondiale. Si arrivò a dire che l’intervento dello Stato per stabilizzare l’economia era inutile se non dannoso. Famosi (allora) economisti si sono sperticati per dimostrare che l’economia era retta da aspettative razionali e che tali aspettative includevano tutto quello che c’era da sapere, sicché, se un governo si accingeva ad attuare politiche per aggiustare l’economia, famiglie e imprese, con le loro aspettative razionali che consentivano di sapere in anticipo quali sarebbero state le conseguenze di tali politiche, ponevano in essere comportamenti tali che finivano per annullare gli effetti delle politiche del governo. Nacque da lì la convinzione che i mercati avessero sempre ragione, perché disponevano di tutte le informazioni necessarie per fare le migliori scelte possibili.
Se, ad esempio, il governo avesse voluto spendere di più in disavanzo per sostenere l’economia (come suggeriva l’impostazione keynesiana), famiglie e imprese avrebbero capito subito che questo intervento avrebbe generato maggiore domanda e maggiore inflazione, quindi avrebbero adeguato immediatamente i ...