L'intellettuale
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L'intellettuale

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Un uomo nato fra il Mille e il Millequattrocento avrebbe compreso i termini donna (mulier), cavaliere (miles), cittadino (urbanus), mercante (mercator), povero (pauper): non avrebbe inteso invece il significato della parola «intellettuale» (intellectualis) attribuita all'uomo. Per chi frequentava la scuola, l'uomo era piuttosto razionale (animal rationale e purtroppo mortale), ma questa era la definizione buona per tutto il genere umano, una definizione che discendeva da Aristotele. L'aggettivo «intellettuale» si accompagnava a sostantivi diversi, con qualche variante di significato. La «sostanza intellettuale» (opposta a «sostanza materiale») era lo spirito o l'anima, la «conoscenza intellettuale» (opposta alla «conoscenza sensibile») era quel tipo di conoscere che superava lo strumento dei sensi spingendosi a cogliere le forme. Gli aristotelici parlavano anche di «piacere intellettuale» (riservato agli eletti e ben distinto da quello «sensuale»), di «virtù intellettuale» (diversa da quella «morale») secondo l'antica analisi dell'Etica Nicomachea.Acquista l'ebook e continua a leggere!

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858107256

L’intellettuale

1. Un uomo nato fra il Mille e il Millequattrocento avrebbe compreso i termini donna (mulier), cavaliere (miles), cittadino (urbanus), mercante (mercator), povero (pauper): non avrebbe inteso invece il significato della parola «intellettuale» (intellectualis) attribuita all’uomo. Per chi frequentava la scuola, l’uomo era piuttosto razionale (animal rationale e purtroppo mortale), ma questa era la definizione buona per tutto il genere umano, una definizione che discendeva da Aristotele. L’aggettivo «intellettuale» si accompagnava a sostantivi diversi, con qualche variante di significato. La «sostanza intellettuale» (opposta a «sostanza materiale») era lo spirito o l’anima, la «conoscenza intellettuale» (opposta alla «conoscenza sensibile») era quel tipo di conoscere che superava lo strumento dei sensi spingendosi a cogliere le forme. Gli aristotelici parlavano anche di «piacere intellettuale» (riservato agli eletti e ben distinto da quello «sensuale»), di «virtù intellettuale» (diversa da quella «morale») secondo l’antica analisi dell’Etica Nicomachea.
Questo preambolo ha una connessione significativa con il tema «l’intellettuale nel Medioevo»? Senz’altro sì. Il moderno termine «intellettuale», che indica non una qualità ma una categoria di persone, entra in uso molto tardi, nella Francia di fine Ottocento con il Manifeste des intellectuels (dove un gruppo di scrittori si proclamava solidale a Zola a proposito dell’affaire Dreyfus). Ma questo vocabolo così recente si presta meravigliosamente al nostro scopo, che è quello di individuare un tipo d’uomo che nei secoli medievali «lavorava con la parola e con la mente», non viveva di rendita della terra né era costretto a «lavorare con le mani» e, in misura variabile, era consapevole di questa sua «diversità» dalle altre categorie umane.
La ragione dell’adattabilità del termine «intellettuale» a un gruppo di uomini «medievali» sta anche in una sfumatura precisa, pur se sottintesa, di significato dell’aggettivo «intellettuale», usato in quei tempi in relazione alla virtù, alla conoscenza e al piacere. In tutti i contesti citati, infatti, «intellettuale» significa qualcosa ritenuta più pregevole ed elevata del suo opposto e indica una qualità indiscutibilmente positiva. La stima e il giudizio degli intellettuali medievali su se stessi ha questo denominatore comune: la loro attività o professione ha ai loro occhi un pregio particolare (anche se sovente contestato dagli altri) rispetto alle altre attività o professioni. Sembra dunque che dal nostro punto di vista moderno ci sia piena legittimità a parlare di «intellettuale medievale»: l’analisi della tipologia ci offrirà, credo, nuove conferme.
Certamente l’uomo medievale, per indicare coloro che noi chiamiamo intellettuali, usava altri termini: è interessante ricordarli perché ci indicano già vari tipi di intellettuale. Maestro e professore erano termini identici per significato nella sostanza nominata: si trattava di persone che insegnavano dopo aver studiato; ma (è curioso) mentre magister indica sempre una qualità di elevatezza morale e dignità indiscussa, professor sovente reca con sé una traccia di ironia verso la boria e la presunzione di alcuni personaggi «che confidano troppo nel loro sapere». È una connotazione negativa che troviamo ad esempio in Abelardo quando parla dei «professori di dialettica», e in Giovanni di Salisbury perplesso e ironico di fronte alla loro «verbosità».
«Erudito» e «dotto» sono termini più neutri e indicano chi ha studiato e accumulato conoscenze sui libri. Il termine «filosofo» è in un certo senso meno significativo: un lieve sospetto di laicità, rispetto a chi studia prevalentemente la pagina sacra, rende il suo uso più raro. Filosofi rimangono soprattutto gli antichi, anche se qualche personaggio con molta consapevolezza reclama il nome per sé: Abelardo, che si dichiara «filosofo del mondo» e in un secondo tempo «filosofo di Dio», Sigieri ed i compagni «averroisti» che dicono di essere filosofi secondo un ben preciso intendimento. Alcuni di questi dotti si sentono viri scientifici (Bradwardine nel secolo XIV); molti si dichiarano speculativi, ossia dediti alla più alta attività umana secondo la visione platonico-aristotelica; tutti si sentono e vengono chiamati letterati.
Letterati è la categoria più ampia e per forza di cose la meno precisa: erano letterati tutti quelli che sapevano leggere e scrivere, e dominavano il mondo delle parole (discorso orale e scritto, predica, lezione o trattato), in quei secoli una esigua minoranza di fronte al vasto gruppo degli illetterati (detti anche idioti, simplices, o rudes). Anche «illetterato» era un termine di ampio significato: comprendeva chi non sapeva né leggere né scrivere (quelli che noi chiamiamo analfabeti) ma anche altri, coloro che non conoscevano il latino, la lingua per eccellenza, o lo sapevano appena (come i lords inglesi del Trecento), ossia non lo sapevano scrivere ma lo comprendevano un poco.
Una cosa è certa: il letterato era quasi sempre, soprattutto nei primi secoli dopo il Mille, un chierico, e quindi, per lungo tempo, i due termini coincidono. Isidoro di Siviglia (secolo VII) era stato preciso nella definizione ma vago nella indicazione («chierico è chi si dedica alla vita religiosa e ricerca la perfezione morale»): ma arrivando su ai secoli dopo il Mille ecco che già significativamente Giacomo da Viterbo nel Milleduecento dichiara «impropriamente a volte qualsiasi letterato viene chiamato chierico, per il fatto che i chierici devono essere letterati». Un secolo dopo Corrado di Megenberg, descrivendo l’ordinamento scolastico, chiama «chierico» qualunque membro dell’apparato della scuola, senza distinzione di livello di studio o di facoltà. Nonostante queste oscillazioni, o meglio il singolare processo di laicizzazione della figura, i chierici emergono come un gruppo ben individuabile e una forza che nella società di quei secoli guidava sia la organizzazione sia il dissenso.
Può essere utile distinguere un senso forte e uno debole di intellettuale, due tipi fra i quali si stende, beninteso, tutta una varia gamma di attività che a buon diritto si chiamano intellettuali. Chiameremo intellettuale forte l’uomo che non solo fa attività intellettuale, ma è impegnato a trasmettere questa sua capacità di indagine, dotata di suoi strumenti, di un suo percorso di sviluppo e di mete ben definite; è naturale che sia anzitutto insegnante, magister quindi nella scuola di allora. Un senso debole di «intellettuale» è invece proprio del termine applicato agli uomini che si sono serviti dell’intelligenza e della parola, ma cambiando anche sovente ruolo e contesto per la loro attività, in un modo che rivela spesso una certa indifferenza rispetto al fine del proprio lavoro. Uomini che sono stati nella loro vita diplomatici, curiali, vescovi, scrittori free lance, precettori, come Giovanni di Salisbury e Vincenzo di Beauvais. In essi si avverte una minor consapevolezza della loro «diversità», congiunta, credo, proprio al loro non essere maestri interessati a trasmettere, come gli artigiani nella bottega, gli strumenti del loro lavoro al discepolo.
Ma poiché l’intellettuale in senso forte e pieno lo troviamo già all’inizio del nostro esame e in un contesto, a ragione, ben individuabile, la città e la scuola, sembra utile...

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  1. L’intellettuale