Introduzione alla lettura del «Decameron» di Boccaccio
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Introduzione alla lettura del «Decameron» di Boccaccio

  1. 224 pagine
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Introduzione alla lettura del «Decameron» di Boccaccio

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«Comincia il libro chiamato Decameron cognominato prencipe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in diece dì dette da sette donne e da tre giovani uomini».Questo libro introduce all'opera che ha mutato il cammino dell'intera narrativa occidentale attraversandone la storia compositiva, l'architettura della narrazione, i temi e il sistema dei personaggi, le coordinate della lingua e dello stile, così da proporne una nuova interpretazione complessiva.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858111185

Capitolo IV.
Le coordinate dell’azione

IV.1. L’identikit del personaggio e la complessità del caso

La prima novella del Decameron racconta la storia di ser Cepparello da Prato, un notaio che, come tanti suoi compatrioti del tempo, ha lasciato la nativa Toscana per andare a vivere a Parigi. Legato all’ambiente di Musciatto Franzesi, un abile mercante fiorentino divenuto cavaliere grazie alla sua ricchezza e alle amicizie politiche coltivate in Francia, è proprio a lui che Musciatto si rivolge per mettere a posto certi affari di prestito a usura che ha maturato in Borgogna. La prima descrizione del personaggio, pur assai sintetica («per ciò che piccolo di persona era e molto assettatuzzo»), è funzionale al tema, importante nella novella, della contrapposizione tra essere e apparire e della corrispondenza tra i nomi e le cose. Com’è chiaramente spiegato a testo, ciò è subito applicato alla complessione fisica del protagonista, giacché i parigini,
non sappiendo [...] che si volesse dir Cepparello, credendo che “cappello”, cioè “ghirlanda” secondo il lor volgare a dir venisse, per ciò che piccolo era come dicemmo, non Ciappello ma Ciappelletto il chiamavano: e per Ciappelletto era conosciuto per tutto, là dove pochi per ser Cepperello il conoscieno. (I 1 9)
La rilevanza dell’aspetto linguistico è sottolineata anche ­nella rubrica – «Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate e muorsi; e, essendo stato un pessimo uomo in ­vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto» (I 1 1) –, dove si nota bene che il passaggio da ser Cepparello a san Ciappelletto coincide con la trasformazione da «pessimo uomo» a «santo». L’individualità del personaggio viene così strettamente collegata al contesto ambientale, quasi fosse il frutto di una contrattazione tra le diverse forze sociali e culturali che si confrontano nella realtà storica.
Nello sviluppo della novella, il passaggio da pessimo uomo a santo (e da ser a san) è esaltato dalla dettagliata presentazione che Panfilo, il narratore, dedica al protagonista, mettendone in luce l’effettivo carattere:
Era questo Ciappelletto di questa vita: egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando uno de’ suoi strumenti, come che pochi ne facesse, fosse altro che falso trovato; de’ quali tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richesto, e quegli più volentieri in dono che alcuno altro grandemente salariato. Testimonianze false con sommo diletto diceva, richesto e non richesto; e dandosi a quei tempi in Francia a’ saramenti grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato. Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in commettere tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de’ quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d’allegrezza prendea. Invitato a uno omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volenterosamente v’andava, e più volte a fedire e a uccidere uomini con le proprie mani si ritrovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ Santi era grandissimo, e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcuno altro era iracundo. A chiesa non usava giammai, e i sacramenti di quella tutti come vil cosa con abominevoli parole scherniva; e così in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli. Delle femine era così vago come sono i cani de’ bastoni; del contrario più che alcuno altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con quella coscienza che un santo uomo offerrebbe. Gulosissimo e bevitor grande, tanto che alcuna volta sconciamente gli facea noia. Giucatore e mettitore di malvagi dadi era solenne. Perché mi distendo io in tante parole? egli era il piggiore uomo forse che mai nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenzia e lo stato di messer Musciatto, per cui molte volte e dalle private persone, alle quali assai sovente faceva iniuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu riguardato. (I 1 10-15)
Al di là della possibile storicità del personaggio (è provata l’esistenza di un Cepperello Dietaiuti da Prato), è necessario osservare che la descrizione è funzionale allo sviluppo del racconto, nonché alla presentazione non edulcorata dell’ambiente affaristico fiorentino all’estero (Musciatto protegge Cepparello perché un uomo senza scrupoli può tornargli utile). Concentrandosi sullo status professionale del personaggio e soprattutto sul suo profilo morale (che si caratterizza per la perfidia, la malizia gratuita, la violenza e l’aggressiva perversione sessuale), il Narratore prepara la mirabolante trasformazione del pessimo soggetto, realizzata attraverso tre macro-sequenze narrative: 1) partenza di Cepparello/Ciappelletto per la Borgogna, sua malattia e preoccupazione dei suoi ospiti che non sanno come risolvere il problema (§§ 16-26); 2) falsa confessione a un «santo e valente frate» (§§ 27-80); 3) morte esemplare del protagonista, sue esequie e sua apoteosi (§§ 81-88).
Lo sviluppo narrativo è un’evidente parodia dei racconti agiografici, cioè quelle storie, scritte in latino o in volgare, in cui erano esposte la vita esemplare e le opere (ossia i miracoli) dei santi. Risulta inoltre di particolare interesse che la tecnica con cui è realizzata questa parodia è basata sul rovesciamento della descrizione iniziale e al contempo sulla sua paradossale conferma. Nella confessione sono infatti recuperati tutti gli aspetti del carattere di Cepparello illustrati da Panfilo all’inizio della novella; essi, però, nelle parole del protagonista vengono mutati di segno, diventando, da orrendi vizi quali sono, prove di una straordinaria virtù (cfr. §§ 14 vs. §§ 39, 41, 46). Al tempo stesso, proprio perché rovescia la verità, la confessione conferma la propensione del protagonista alla falsa testimonianza e allo spergiuro: il che è tanto più grave perché, in vita, egli è stato notaio (e dunque ha abusato della fides publica che la professione gli conferiva) e perché, in punto di morte, ha mentito al frate (abusando della sua credulità e del particolare contesto comunicativo). Il rovesciamento è infine reso gustoso dal fatto che l’iracondia di un violento peccatore (§ 13) si risolve nella «buona ira» con cui l’uomo giusto può addirittura rimproverare i frati che non si comportano in maniera corretta (§ 50).
La novella di ser Cepparello mostra in maniera esemplare quanto sia importante nell’opera boccacciana quel che Giancarlo Mazzacurati ha definito il «codice dell’identità» dei personaggi, ossia quella specie di «carta d’identità a rubriche fisse», contenente i «tratti economici, talvolta anche quelli fisionomici dei primi attori», cui spesso si aggiungono indicazioni sugli «attributi caratteriali» o su «altri elementi di psicologia sociale». Si tratta di un aspetto decisivo, forse riconducibile a quanto asserì Vittore Branca a proposito della dipendenza del Decameron dalla cultura mercantile che, coi suoi riti sociali e le sue nuove pratiche intrise di precisione e attenzione al dettaglio, introdusse importanti innovazioni anche sul piano della pratica scrittoria: dalla formalizzazione dei contratti alla nuova tendenza analitica della cronachistica contemporanea.
Abbiamo in verità già osservato (cfr. supra, cap. II) che i più recenti studi fanno pensare che Boccaccio intendesse riferirsi a un orizzonte socio-economico più vasto, come peraltro era già stato notato a proposito di alcuni aspetti della sua posizione culturale, per tanti versi convergente con la rappresentazione aristocratica e cortese a lui coeva (cfr. infra, cap. V). Ciò non toglie, tuttavia, che sotto il profilo delle tecniche narrative il capolavoro boccacciano sia effettivamente riconducibile alla nuova attenzione per la concretezza dell’esperienza sociale e per la necessità di circoscrivere i fenomeni dentro coordinate chiare e precise.
Ne consegue che il racconto sia spesso presentato come una sorta di sviluppo delle premesse fornite all’inizio della narrazione, così che la storia risulti quasi una conseguenza diretta del carattere dei protagonisti. Lo confermano le altre novelle della prima giornata, i cui personaggi sono quasi sempre figure dall’identità chiaramente riconoscibile, anche quando possono apparire generiche. È il caso dei due protagonisti della quarta novella, dove la contrapposizione tra un monaco giovane e un abate anziano è rafforzata dalla indicazione della comune appartenenza all’ordine benedettino e soprattutto dal dettaglio secondo cui la vigoria fisica del monaco «né la freschezza né i digiuni né le vigilie potevano macerare» (I 4 4). Un breve ma preciso riferimento al suo carattere rende più “corposo” e riconoscibile anche l’anonimo frate inquisitore della successiva novella sesta, il quale «come che molto s’ingegnasse di parer santo e tenero amatore della cristiana fede, sì come tutti fanno, era non meno buono investigatore di chi piena aveva la borsa che di chi di scemo nella fede sentisse» (I 6 4). Veloce e precisa anche la caratterizzazione della vittima del frate, un «buono uomo» (cioè un sempliciotto), il quale «non già per difetto di fede, ma semplicemente parlando, forse da vino o da soperchia letizia riscaldato», si lascia scappar detto di «avere un vino sì buono che ne berebbe Cristo» (I 6 5). L’ingenua battuta mostra con chiarezza lo spessore psicologico e cognitivo di questa figurina, la cui dimensione economica è chiarita subito dopo, quando, compiute le dovute indagini, il frate scopre che «li suoi poderi eran grandi e ben tirata la borsa» (I 6 6): la descrizione, qui offerta in maniera indiretta, ha però una precisa rilevanza narrativa.
Da queste prime osservazioni si può dunque confermare la tendenza dei Narratori boccacciani a fornire un identikit dei propri personaggi, che spesso va oltre la semplice caratterizzazione sociale, giungendo a precisare gli aspetti più rappresentativi della loro personalità. Questa resta in ogni caso legata al loro rango e al ruolo che occupano in società (è quel che Mazzacurati chiama la «psicologia sociale»), e comunque è sempre in rapporto con il contesto storico e geografico nel quale si trovano ad agire: perciò è importante che Dioneo precisi che i suoi due protagonisti sono benedettini, così come è densa di significato l’identità fiorentina del chierico e del laico che si affrontano nella sesta novella.
L’analisi della prima giornata lascia emergere ulteriori utili elementi caratteristici della scrittura boccacciana. Innanzitutto è possibile disegnare una sorta di mappa delle provenienze sociali dei personaggi. I religiosi risultano poco numerosi: quattro e tutti frati, con due appartenenti alla conventualità urbana che si affiancano ai due benedettini su cui ci siamo già soffermati; a questi va aggiunto l’insieme del clero romano, che però fa solo una generica apparizione nella seconda novella. Assolutamente maggioritario è invece lo stato civile laico, che si estende dalle posizioni eccelse del Saladino, dei re, del signore di Verona e della nobiltà feudale dei marchesi di Monferrato (nelle novelle tre, cinque, sette e nove), passando per la condizione elevata dell’aristocrazia di corte e della grande borghesia urbana (la novella otto) e per il livello mediano di medici, mercanti e donne borghesi (nella prima, nella seconda e nell’ultima), fino a lambire il popolo minuto (nella sesta) e la collocazione incerta dei cortigiani di secondo piano presenti nella settima novella. Nella prima giornata sono dunque lasciati fuori fuoco le classi popolari e il ceto servile, che appare soltanto sullo sfondo lontano delle attività di Ciappelletto in taverna (I 1 13-14). Su una curva sociale del tutto simile si distribuisce il mondo femminile, con l’apice della marchesana di Monferrato, seguito dalla «gentil donna di Guascogna» e da «Malgherida dei Ghisolieri». Tra le donne fa però capolino la plebe, con la «giovinetta assai bella, forse figliuola d’alcuno de’ lavoratori della contrada», destinata alle attenzioni del novizio e dell’abate (I 4 5). Questa sintetica caratterizzazione impone di riflettere sulla condizione sociale femminile: preso atto che in questa giornata non compaiono religiose, va osservato che le donne sono tutte sposate o vedove; sebbene nella nona novella non sia specificato lo stato civile della «gentil donna di Guascogna», il fatto che ella venga oltraggiata di ritorno da un pellegrinaggio al Santo Sepolcro e chieda perciò giustizia al re locale, fa intendere che si tratta di una vedova che viaggia senza compagnia familiare maschile (cosa impossibile per una pulzella). L’unica donna non sposata ad apparire in questa giornata è dunque la giovinetta sedotta dai due benedettini nella quarta novella: questa è anche l’unico personaggio femminile che provenga dai ceti subalterni, nonché l’unica figura cui non sia attribuita nemmeno una battuta in discorso diretto.
L’identità, è ovvio, passa innanzitutto attraverso il nome proprio. Ed è allora interessante che – per restare sempre nella prima giornata – su venti personaggi principali, sette siano storicamente identificabili, mentre cinque sono dotati di nomi e cognomi riconducibili ai contesti geografici in cui è ambientata la novella. Se gli altri otto restano anonimi, essi sono però individuati dal loro profilo sociale (professionale o religioso), dall’indole morale e dal carattere psicologico: anche in questo senso, la muta fanciulla di I 4 fa eccezione.
Oltre ai dati forniti in apertura bisogna infine tener conto delle ulteriori indicazioni caratterizzanti fornite nel corso della narrazione: si tratta di riferimenti di tipo talvolta connotativo, o semmai indiziario, come può esserlo un accenno indiretto alla loro personalità o il sintetico ritratto del modo che hanno di esprimersi e di atteggiarsi. Tra i tanti, questo è il caso di Cisti fornaio, che nella sesta giornata si presenta a messer Geri e agli ambasciatori del papa indossando «un farsetto bianchissimo indosso e un grembiule di bucato innanzi sempre» (VI 2 11): la nettezza della persona, l’urbanità e la sagacia del personaggio vengono così significate nella sintetica ma assai efficace descrizione del modo in cui è abbigliato e, poche righe più avanti, degli oggetti di cui è circondato («una secchia nuova e stagnata d’acqua fresca e un picciolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevano d’ariento, sì eran chiari»: ivi).
In un importante libro del 1969 Hans-Jörg Neuschäfer ha confrontato il Decameron con i vari generi medievali della ­narratio brevis. Dalla sua analisi Neuschäfer ha dedotto che la novella boccacciana differisce dai vari prodotti romanzi e latini perché questi si limiterebbero a presentare un caso tipico, realizzato narrativamente in un modello chiaro e lineare, con uno sviluppo prevedibile a partire da premesse prive di problematicità. Al contrario, la novella, così come l’ha realizzata Boccaccio, presenta un «caso giuridico problematico» che nasce non da principi generali ampiamente accettati nel sistema culturale dell’epoca (come la contrapposizione tra “buono” e “cattivo” o tra “cortese” e “vile”), ma da «circostanze particolari e volta per volta diverse». Dal «caso tipico», lo scrittore fiorentino sarebbe così passato al «caso particolare».
È evidente che questa particolarità è fornita in gran parte da quell’insieme di indicazioni individuali che abbiamo definito, con Mazzacurati, la carta d’identità del personaggio. Ma ovviamente la complessità morale e cognitiva del racconto è il prodotto di un sistema culturale più articolato, nel quale la rappresentazione degli esseri umani, delle loro aspirazioni e dei loro conflitti non risponde a una contrapposizione assiologica indiscutibile e immodificabile (coi valori positivi da una parte e i valori negativi dall’altra), ma a una congiunzione di forze e tensioni talvolta anche contraddittorie.
In un capitolo del suo libro, Neuschäfer mette a confronto la vida, ossia la biografia del poeta Guillem de Cabestaing con la novella IV 9 del Decameron, che da lì senza dubbio deriva. Lo studioso osserva che nel racconto provenzale «i ruoli sono distribuiti a priori e fissati per sempre», così che i caratteri appaiono unilaterali e le posizioni occupate dai diversi personaggi prive di ogni possibilità di rapporto: gli amanti sono positivi (anche se adulteri), il geloso è negativo (anche se subisce il tradimento della donna). Al contrario, nella novella boccacciana i due rivali appaiono all’inizio come pari in valore e uniti da un forte vincolo di amicizia, mentre l’amore è presentato come «fuor di misura», e dunque irrazionale e non legittimo; se, date queste premesse, anche Boccaccio sancisce la fine della storia con la condanna morale del marito e l’omaggio postumo alla coppia degli amanti, ciò accade perché il marito si è a sua volta avvalso dell’inganno, indulgendo peraltro nel gesto biasimevole (per quanto dotato di precedenti illustri) di strappare il cuore all’avversario per farlo mangiare alla moglie fedifraga. Pur confermando alcuni elementi tipici del codice cortese – che del resto trovava nella fonte provenzale – l’autore toscano sostituisce dunque alla «tipicità regolare» una «questione morale complessa» con la quale il lettore deve confrontarsi.
È interessante osservare che circa un decennio prima di Neuschäfer, e in maniera del tutto autonoma, Salvatore Battaglia aveva presentato un ragionamento simile mettendo a confronto due exempla latini – il De dimidio amico e il De integro amico (“l’amico a metà” e “il vero amico”), di ampia diffusione medievale in tutta l’area romanza – con la novella di Tito e Gisippo (X 8), che ha identico argomento. L’analisi comparativa dei racconti rivelava allo studioso l’importanza fondamentale per l’opera boccacciana di una «carta d’identità» dei personaggi (si noti la stessa espressione utilizzata da Mazzacurati), che fornisce quelle necessarie «precisazioni» dalle quali si ricavano «un’aria di attualità» e una maggiore «concretezza» rispetto al «racconto tradizionale». Da qui, «il senso di una morale nuovamente aperta, problematica, possibilistica», che è il frutto esclusivo di un certo modo di narrare, ispirato alla individualizzazione degli attori in campo e alla identificazione precisa degli obiettivi che essi si pongono, come anche delle limitazioni che subiscono in quanto inseriti in un campo di forze storicamente e geograficamente determinato.
Un bell’esempio dello scarto tra il Decameron e i racconti medievali precedenti viene dal confronto tra Novellino LXXIII e la novella I 3. In entrambi i testi è sfruttata la tecnica del racconto nel racconto: un potente musulmano tenta di mettere in difficoltà un suo sottoposto ebreo costringendolo a rispondere a una domanda ingannevole su quale sia la religione migliore; per cavarsi d’impaccio, l’ebreo racconta la “novella dei tre anelli”, una storia tradizionale all’epoca molto diffusa, nella quale un padre, che ama i suoi tre figli allo stesso modo, quando giunge il momento di trasmettere l’anello di famiglia a uno di loro per affidargli l’eredità, commissiona di nascosto a un orafo due anelli identici al primo e ne regala uno a ciascuno dei propri figli, così che tutti e tre siano convinti di essere proprietari del gioiello autentico. La storia – che rappresenta la rivalità fra le tre religioni monoteistiche (ebraica, cr...

Indice dei contenuti

  1. Capitolo I. Tra storia e letteratura
  2. Capitolo II. La composizione e la trasmissione
  3. Capitolo III. L’architettura dell’opera
  4. Capitolo IV. Le coordinate dell’azione
  5. Capitolo V. Le forme dell’azione
  6. Capitolo VI. La lingua e lo stile
  7. Capitolo VII. Il libro della convivenza
  8. Bibliografia
  9. Ringraziamenti