L'eclissi della borghesia
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L'eclissi della borghesia

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L'eclissi della borghesia

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Che cosa succede in un Paese quando scompare la borghesia? Cosa è accaduto all'Italia?Dove è finita una borghesia in grado di governare il nostro Paese? In sua assenza, gli italiani non hanno coltivato il senso delle istituzioni, della nazione e dello Stato. È salita l'onda di un populismo viscerale, che in alcuni casi si è tradotto in antipolitica, non si è consolidata una classe dirigente di stampo europeo, sono cresciuti le paure e il risentimento. Il futuro è scomparso dal nostro orizzonte. Il ceto medio ha così preso il sopravvento senza che la borghesia esercitasse doveri e responsabilità che le competono per mettere ordine in un sistema altrimenti condannato al caos.Giuseppe De Rita e Antonio Galdo analizzano i diversi modi in cui si manifesta l'eclissi della borghesia: dallo svuotamento dei partiti e della rappresentanza a un capitalismo refrattario a regole ed etica, dalla rinuncia all'impegno nella vita pubblica al dilagare di corporativismo e pulsioni individuali, dallo smarrimento di elementi di equilibrio all'interno di una democrazia compiuta alla crescita di un'informazione poco indipendente. Fino all'abbandono delle nuove generazioni che vanno a studiare all'estero e lasciano il Paese al suo declino. La conseguenza di quanto è accaduto è un evidente corto circuito tra governanti e governati, tra istituzioni e cittadini. E rappresenta un vuoto che bisognerà colmare per restituire all'Italia un'idea forte e condivisa di cambiamento. «Un libro denso e completo.»Corrado Augias«Quando si è spenta la luce? In quale momento l'Italia ha perso la bussola e si è ritrovata senza guida, sprofondata in una crisi che è economica, politica e morale nello stesso tempo? È un lungo processo in cui si mescolano la grande storia e la piccola cronaca, le figure migliori del passato e gli avventurieri, i rubagalline del presente. Ma è una vicenda che si può sintetizzare con un titolo, L'eclissi della borghesia.»Giuseppe Sarcina, "Corriere della Sera"«Un pamphlet più ottimista del titolo che hanno scelto gli autori, una analisi che introduce due elementi di riflessione: la frammentazione individualista della società italiana e la rivendicazione non negoziabile del benessere familiare come status immodificabile.»Marco Ferrante, "Il Sole 24 Ore"«Un saggio breve e giustamente polemico, che ha fatto discutere.»Lelio Demichelis, "Tuttolibri"

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858106327
Argomento
Economics

Un ciclo è finito. E dopo?

Abbiamo retto bene, meglio del previsto, all’urto della Grande Crisi, anzi delle tante crisi degli anni Novanta e Duemila. Ha retto il sistema industriale, colpito dalla fine della svalutazione con l’arrivo dell’euro e dai processi della globalizzazione, ma che nel 2009 – l’anno più nero dell’economia mondiale – è comparso nei primi cinque posti della graduatoria degli esportatori in ben 1.593 prodotti su 5.517 classificati. E per numeri di primi posti nell’export mondiale ogni mille abitanti, siamo preceduti soltanto dalla Germania.
Ha retto il sistema bancario locale, meno esposto alle operazioni spericolate della finanza creativa che ha tagliato le gambe ai grandi gruppi bancari: il rubinetto del credito non si è chiuso, le aziende hanno avuto ossigeno anche nei momenti più difficili e non sono state abbandonate al loro destino.
Ha retto il territorio con la sua coesione sociale dal basso, con gli ammortizzatori “fai-da-te” nella rete delle piccole e medie industrie che hanno integrato gli interventi nazionali come la cassa integrazione. Migliaia di posti di lavoro e di salari sono stati salvati attraverso accordi locali di solidarietà che hanno permesso di utilizzare tutti gli strumenti disponibili per spalmare gli effetti della Grande Crisi: riduzione degli orari di lavoro, compensazione di ferie arretrate e permessi retribuiti, rotazione degli addetti nei singoli impianti. Con un esercizio creativo di flessibilità, imprese e lavoratori sono riusciti a sostenere l’occupazione contrastando l’emergenza ed evitando tensioni sociali che potevano diventare catastrofiche.
Perfino il sommerso ha recuperato una sua forza, con il moltiplicarsi del doppio lavoro nei nuclei familiari a sostegno del reddito, e segnali di adattamento arrivano dal mondo del precariato. Se è vero, infatti, che la disoccupazione giovanile sfiora il 30 per cento e i rapporti di lavoro a tempo determinato sono diventati la regola nella nuova occupazione, non bisogna trascurare un elemento di novità nell’organizzazione del proprio orizzonte professionale: molti giovani hanno ormai maturato un’idea “surfista” del lavoro, non più legato al posto fisso e sicuro, ma costruito attraverso la somma di rapporti a tempo determinato.
L’occupazione giovanile, piuttosto, sconta un micidiale effetto missmatch, ovvero il mancato incrocio tra la domanda e l’offerta di lavoro. Che cosa è accaduto? Negli ultimi decenni una sottocultura della formazione ha spinto i giovani all’affannosa ricerca di titoli di studio inutili, inservibili sul mercato del lavoro: licei dequalificati e lauree deboli, se non finte. Abbiamo derubricato il lavoro manuale, considerandolo di serie B, e tra il 2005 e il 2010, in soli cinque anni, 720 mila addetti in questo universo così disprezzato dagli italiani sono stati sostituiti dagli immigrati, che oggi rappresentano una quota del 20 per cento degli occupati. Abbiamo bisogno di sarti, falegnami, progettisti, idraulici, elettricisti, addetti alle pulizie, muratori. Ma continuiamo a sfornare laureati in Scienze della comunicazione e in Sociologia, senza alcuna prospettiva di inserimento nel mondo del lavoro. Oltre 60 mila posti, tutti concentrati in attività manuali, risultano scoperti e scarseggiano le competenze necessarie. Gli istituti professionali, al contrario di quanto è avvenuto in Germania e in Francia, sono diventati sempre più marginali nel sistema formativo. Eppure i dati dell’Istat dimostrano, in modo inequivocabile, che il 75 per cento dei diplomati in istituti professionali trova un lavoro in tre anni, a fronte di una percentuale molto più bassa (26 per cento) di occupati provenienti dai licei. Tutte le statistiche dei centri di ricerca anglosassoni convergono sul fatto che, nei prossimi dieci anni, i venti lavori con le migliori prospettive in termini di occupazione avranno in comune la stessa parola: manutenzione (delle persone e delle cose). E sarà il ritorno alla manutenzione, se riusciremo a coltivarlo interrompendo l’effetto missmatch, che ci aiuterà a uscire dal tunnel della Grande Crisi asciugando il bacino del precariato.
Accanto ai giovani disoccupati, che in età tra i 15 e i 29 anni sono circa 8 su 100, c’è un esercito di ragazzi che non lavorano, non studiano, non si addestrano, assai ben fotografati dall’acronimo inglese Neet (Not in education, employment or training). Gli italiani Neet sono circa il 20 per cento dei giovani, un numero pari a quasi il triplo dei disoccupati: una cifra record in Europa, visto che i ragazzi inattivi nel Regno Unito sono il 14 per cento, in Francia il 12, in Germania l’11 e in Svezia l’8. Questi dati hanno sicuramente a che fare con la nostra cultura e la rete di protezione della famiglia italiana, ma come ha dimostrato il professore Luca Ricolfi, è determinante quella che viene definita “l’eredità attesa”. Nei paesi in cui il giovane medio non può contare granché sul patrimonio accumulato dalle generazioni precedenti, i Neet sono pochi; nei paesi dove invece l’indice di “eredità attesa” è molto alto, come da noi, i Neet si moltiplicano.
Ma torniamo all’esplosione della Grande Crisi. Fra il 2008 e il 2010 in Italia ha retto innanzitutto la famiglia, con le spalle forti di un patrimonio solido e con un indebitamento – circoscritto quasi sempre ai mutui – sotto controllo. Alla fine del 2009, secondo i calcoli della Banca d’Italia, la ricchezza netta delle famiglie italiane, stimata attorno agli 8.600 miliardi di euro, corrispondeva a circa 350 mila euro in media per ciascun nucleo familiare, e le famiglie italiane hanno un rapporto ricchezza-reddito disponibile superiore a quello di tutti gli altri paesi industrializzati. Alla fine del 2009 la ricchezza netta degli italiani era pari a 7,8 volte il reddito disponibile: più della Francia (7,5), del Regno Unito (7,7), del Giappone (7), del Canada (5,4) e degli Stati Uniti (4,8). Gli italiani presentano inoltre un ammontare di debiti pari al 78 per cento del reddito disponibile, rispetto al 100 per cento della Francia e della Germania e al 130 per cento degli Stati Uniti e del Giappone.
Certo: si sta accentuando un fenomeno di concentrazione della ricchezza che ha portato il 10 per cento delle famiglie più ricche a detenere quasi il 45 per cento della ricchezza nazionale. Il coefficiente Gini, che misura l’ineguaglianza dei redditi (va da zero, ovvero totale uguaglianza dei redditi, a uno, ovvero totale disparità), è salito dallo 0,31 degli anni Ottanta all’attuale valore pari a 0,35 e in Europa risultiamo secondi, dietro soltanto alla Gran Bretagna.
Inoltre, l’utilizzo di questo fiume di denaro rappresentato dal risparmio finanziario degli italiani (148.170 milioni di euro), è molto conservativo, come dimostrano il 58 per cento della ricchezza custodita in depositi bancari e obbligazioni, i 320 miliardi di euro raccolti attraverso la rete di Bancoposta, e l’opinione di circa il 9 per cento degli italiani che considerano come migliore modo di investire i propri risparmi quello di conservarli in casa, magari sotto il materasso. La ricchezza, insomma, resta in famiglia e non entra, per esempio, nel circuito dell’economia reale, a partire dalle imprese e dal loro capitale di rischio.
Tre italiani su quattro sono proprietari di casa, con una media di 62 metri quadrati a testa e, a proposito del rapporto tra debiti e patrimoni, quasi il 14 per cento delle famiglie paga un mutuo. Quanto ai consumi, restano alti, sebbene per mantenerli siano state erose anche quote del risparmio. Nel nostro paese ci sono 64 automobili ogni 100 abitanti, rispetto a una media europea che si aggira intorno a 50. Abbiamo un cellulare e mezzo a testa (record europeo), più di un televisore in ogni casa e ormai il 65 per cento delle famiglie possiedono un computer. Tra il 2005 e il 2010, nonostante la crisi economica, gli andamenti dei consumi di beni chiaramente voluttuari, come quelli tecnologici, indicano livelli di crescita molto sostenuti: +81,8 per cento nel settore delle apparecchiature per la telefonia e +32,9 per cento per articoli audiovisivi, fotografici, computer e accessori. Nello stesso tempo, secondo uno studio della Fondazione Zancan e della Caritas, la quota di popolazione italiana adulta colpita da forme di dipendenza legate allo shopping compulsivo è compresa tra l’1 e l’8 per cento, e si tratta soprattutto di donne tra i 35 e i 45 anni con livelli di istruzione medio-alti.
Piuttosto, conserviamo la maglia nera in Europa nei consumi culturali, quelli tipicamente “borghesi”: pesano meno del 3 per cento (833 euro l’anno) sul bilancio annuale di una famiglia. Siamo un popolo di lavoratori creativi con 120 mila artisti, registi, musicisti, scrittori, ma nell’ultimo anno meno della metà degli italiani (46 per cento) ha messo piede in un cinema, solo un terzo è andato a vedere uno spettacolo dal vivo e ha visitato un museo o un sito archeologico. Appena un cittadino su tre acquista almeno un libro all’anno sborsando, in media, non più di tre euro al mese: nei paesi del Nord Europa quasi il 30 per cento degli abitanti ha letto più di dodici libri in un anno, uno al mese.
Le statistiche sui consumi indicano che il ceto medio italiano, nonostante l’intensità e la profondità del vento della recessione, resta uno dei più benestanti del mondo, a partire dai suoi elevati stili di vita. Non abbiamo visto, neanche nei giorni più neri della Grande Crisi, nessuna di quelle drammatiche scene che arrivavano dall’America o dall’Inghilterra: parliamo di milioni di cittadini, ceto medio appunto, che si sono visti pignorare la casa sotto il peso delle rate del mutuo che non potevano più pagare. Sui giornali e nei network televisivi americani sono apparse le immagini di New York, Los Angeles, Seattle, dove sono tornate le tendopoli per i disoccupati senza lavoro e per i proprietari di casa senza più un tetto. Tra la fine del 2010 e i primi sei mesi del 2011, 45,8 milioni di americani hanno chiesto i buoni pasto che vengono assegnati ai cittadini indigenti. E durante le settimane del fallimento della Lehman Brothers si è scoperto che una famiglia americana, in media, era indebitata per oltre 10 mila dollari soltanto per l’uso delle carte di credito, mentre gli acquisti a rate in Inghilterra avevano raggiunto la cifra record di 53,9 miliardi di sterline.
Il ceto medio italiano che, ricordiamolo, ha subìto il colpo durissimo dell’introduzione dell’euro (in pratica, un dimezzamento del valore reale della moneta) è oggi molto solido. Gli italiani sono ricchi, mentre il paese è fermo. L’impoverimento è vissuto piuttosto come paura e incertezza sul futuro dei propri figli, che potrebbero vedere regredire gli standard di vita conquistati dai genitori. E fare così un passo indietro rispetto a decenni di crescita costante, alla rete di copertura del welfare, alla certezza del lavoro attraverso le garanzie del posto fisso. Da qui l’insicurezza, e lo spaesamento.
Da quindici anni l’Italia non cresce più, e siamo l’unico paese industrializzato che nello stesso arco di tempo ha visto diminuire la produttività. Negli ultimi dieci anni il prodotto interno lordo in Italia è aumentato meno del 3 per cento (nei quindici anni del boom economico la crescita del Pil pro capite è stata del 260 per cento), rispetto al 12 per cento della Francia: i nove punti di scarto, con un paese europeo molto simile a noi per popolazione, coincidono integralmente con il divario della produttività oraria, stimato proprio nell’ordine dei nove punti percentuali.
Tra i fattori che pesano in modo determinante in questo declino c’è il costo della burocrazia, valutato dal Ministero dell’Economia come un’uscita per le imprese italiane di 21,5 miliardi di euro l’anno, circa un punto e mezzo di Pil. Ciascuna piccola azienda deve accantonare in bilancio, in media, 23.328 euro per gli oneri che derivano dalla pubblica amministrazione, dei quali 13.877 si riferiscono alle varie pratiche burocratiche. Un esempio? Gli adempimenti fiscali in Italia sono 122 rispetto ai 12 del Regno Unito, mentre per pagare le tasse le nostre aziende impiegano 285 ore l’anno contro le 215 della Germania e le 197 della Spagna. Una vera tassa occulta si nasconde dietro il fenomeno della lentezza della giustizia che abbassa il livello della ricchezza, riduce la competitività, scoraggia gli investimenti. Secondo i calcoli del Centro Studi di Confindustria nel solo periodo 2000-2007 se i tempi dei processi civili fossero stati la metà di quelli effettivi (in pratica come quelli francesi), l’incremento del Pil sarebbe stato di due punti in più. Un processo civile di primo grado in Italia dura 533 giorni contro i 286 giorni della Francia e i 129 dell’Austria; un credito si recupera in 1.250 giorni, mentre in Francia ne bastano 380; una controversia commerciale, proprio per i tempi del suo percorso giudiziario, ha un costo pari al 30 per cento del suo valore, contro il 17 per cento della Francia e il 14 per cento della Germania; la nostra litigiosità (quasi 6 milioni di cause civili pendenti nel 2010) è il doppio di quella francese e otto volte quella inglese. E non si tratta di mancanza di risorse, visto che la spesa italiana per la giustizia è allineata alla media europea: la verità è che i tribunali sono troppo piccoli, mal distribuiti sul territorio, con bassi livelli di efficienza; e la possibilità di impugnare continuamente le sentenze, fino ai tre gradi di giudizio, incentiva il ricorso alla discussione in aula e gonfia i fascicoli sulle scrivanie dei magistrati. Dice Piercamillo Davigo, consigliere di Cassazione: «Finché nel nostro paese sarà più conveniente resistere in giudizio che saldare un debito, i tribunali saranno sempre ingolfati di cause».
Un altro fattore di rallentamento della crescita riguarda lo scarso sviluppo delle infrastrutture, dove il rapporto tra investimenti e Pil è previsto ancora in caduta nei prossimi anni: sarà l’1,6 per cento nel 2012, era il 2,3 per cento negli anni 2000-2009. I costi delle opere sono troppo elevati, anche in confronto agli standard europei, eccedono i preventivi del 40 per cento, e i tempi di realizzazione spesso diventano biblici. Nei ritardi pesano le carenze progettuali (56 per cento dei casi), la giungla delle autorizzazioni e i conflitti tra enti pubblici (36,7 per cento), l’insorgere di contenziosi (36,6 per cento), il ritardo nei pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese (53,7 per cento).
Per tornare a crescere, secondo alcuni economisti, occorre ridare slancio ai consumi. Bassi consumi si traducono in bassa crescita: è un’equazione che può avere un suo fondamento nelle leggi della statistica, ma non tiene conto della chimica sociale e in particolare della traiettoria dei nostri stili di vita. Nel periodo di crisi ...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Che cosa succede in un paese senza borghesia
  3. La politica schiacciata sul presente
  4. L’economia delle relazioni e delle corporazioni
  5. Un popolo di separati in casa
  6. Un ciclo è finito. E dopo?
  7. Annotazioni bibliografiche