Il valore della Costituzione
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Il valore della Costituzione

L'esperienza della democrazia repubblicana

  1. 224 pagine
  2. Italian
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Il valore della Costituzione

L'esperienza della democrazia repubblicana

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Non c'è democrazia senza Costituzione, ma è vero anche l'inverso: nessuna Costituzione è possibile senza l'esistenza di una società capace di riconoscerla e sorreggerla come norma fondamentale, perché in grado di determinare una comune forma politica. A oltre sessant'anni dalla sua promulgazione, sei specialisti passano al vaglio la Carta costituzionale italiana: in tempi di riforme, il riconoscimento sul piano storico del permanente valore del suo impianto fondamentale è considerato più che mai indispensabile.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115237
Argomento
Law
Categoria
Legal History

La pubblica amministrazione e il sistema delle autonomie

di Umberto Allegretti
1. Premessa - 2. Un modello «classico»: l’amministrazione e le autonomie come «soggetti» - 3. Le conseguenze sull’amministrazione-attività - 4. Critiche e superamenti dell’amministrazione classica - 5. Nuovi orizzonti: verso un potere della società?1

1. Premessa

Cogliere il «valore della Costituzione», nella cultura giuridica e attraverso di essa, sul terreno dell’amministrazione e delle autonomie, significa cercare di identificare (a costo di una selezione anche parziale e severa) la linea fondamentale riscontrabile in quella cultura, non trascurando le complessità e le varianti in essa presenti, ma senza coprirne tutta l’estesa dimensione.
D’altra parte non sarebbe congruo affidarsi alla sola parte della riflessione amministrativa, in sé abbastanza esigua, che si riferisce direttamente alla Costituzione. Il rapporto tra Costituzione e amministrazione, sebbene essenziale e dunque in qualche modo sempre presente, non costringe l’opera dottrinale a prender necessariamente le mosse dalla Costituzione. Anzi, per natura e per radicata tradizione del diritto amministrativo, la maggior parte della riflessione non muove dalla Costituzione ma dalla normazione legislativa e, via via che cresce la propensione a un metodo realistico, dalle esigenze poste agli osservatori dalla realtà in movimento, un movimento che non è sorretto, o comunque non lo è sempre, dal riferimento alla Costituzione.
Quest’atteggiamento contribuisce a render ragione del perché sia così forte nella cultura del diritto amministrativo quella difficoltà di transizione verso la novità della Repubblica che è stata giustamente indicata come propria dell’intera cultura giuridica2. E tuttavia questo non priva la produzione, che tace sul rapporto dell’amministrazione con la Costituzione, dell’attitudine a conferire una determinata fisionomia a quel rapporto: questo infatti è biunivoco, perché se la Costituzione influenza l’amministrazione, l’amministrazione a sua volta influenza il modo d’essere della Costituzione, della Costituzione reale, inclusa l’interpretazione della Costituzione formale. Perciò occuparsi del valore della Costituzione sul terreno dell’amministrazione vuol dire, insieme, verificare il valore della Costituzione per l’amministrazione e riconoscere quale valore la lettura che si dà dell’amministrazione contribuisce a conferire alla Costituzione.
Non è particolarmente utile, a questi fini, accentuare la divisione del percorso repubblicano in diverse fasi. Una prima potrebbe esser data, sì, dall’iniziale epoca di vigenza della Costituzione, saldata del resto, nel caso del tema amministrativo, con quella della preparazione e della deliberazione della stessa, e che si identifica press’a poco con quella certa stabilità di modello dell’amministrazione che fu propria, nel suo insieme, della letteratura del quindicennio 1945-1960. La seconda potrebbe esser ravvisata nel periodo di movimento plurale verso innovazioni mai veramente o compiutamente realizzate, che va da circa il 1960 fin verso la fine degli anni Settanta, e una terza sarebbe segnata dalla critica e dal mutamento dei modelli che procede attraverso il travaglio degli anni 1980-1995: due periodi diversi più che altro per il crescente peso quantitativo delle critiche e dei superamenti rispetto alla tradizione. Può meglio essere isolata un’ultima fase, più recente, che si apre con le riforme legislative degli anni Novanta e che, mentre per un verso continua oggi con aggiornamenti, tra numerose contraddizioni, negli andamenti precedenti, per altro verso parrebbe proporre gli incerti orizzonti, annunciati in precedenza da poche voci, di un nuovo modo di intendere l’amministrazione e il sistema delle autonomie nella loro relazione con la società3. Ma più che di fasi – che non si diversificherebbero nettamente e sarebbero tutte assai sfumate e talora sovrapposte – si può meglio parlare, in un senso diverso, di «momenti»; e attraverso questi momenti corre il filo di una continuità che, mescolato a quello più esile dell’innovazione, non permette di tracciare caratteri recisi e anzi impone una qualche unità di concezione4.
Inoltre, è difficile riconoscere la presenza nel sessantennio di diverse e caratterizzate «scuole» nelle quali si impongano distinte e contrastanti visioni dell’amministrazione e delle autonomie. È certo possibile individuare, nel grande impegno di una produzione che cerca di uguagliare l’enorme spazio coperto dalla fenomenologia legislativa e pratica dell’amministrazione dei nostri tempi, dei raggruppamenti in filoni distinti, contrassegnati dal riferimento a un comune orientamento e anche a un ispiratore geniale dotato di autorevolezza magisteriale. Ma questi naturalissimi fenomeni, se determinano senza dubbio differenti sensibilità e differenti scelte su molti temi, non danno in realtà luogo, nel periodo, a caratterizzazioni così nette e organicamente contrapposte ad altre, da costituire veri e propri arcipelaghi di scuole5.

2. Un modello «classico»: l’amministrazione e le autonomie come «soggetti»

Fissando l’attenzione sul momento che si può dire «classico», che predomina assolutamente nella prima epoca di vigore della Costituzione ma anche, come accade per le concezioni delle origini, con effetti sulla storia seguente, bisogna porsi due questioni principali, tra loro connesse.
La prima, di natura per dir così formale, interroga circa il rapporto intercorrente tra Costituzione e amministrazione: se esso venga concepito effettivamente come una relazione di reciproca influenza o invece come un rapporto di separazione. Essa si suddivide in vari profili tra loro intrecciati: la questione di quanto, se molto o poco, la Carta intervenga a disciplinare l’amministrazione6; la rilevazione di quali aspetti – l’organizzazione, l’attività, i procedimenti, le funzioni, la tutela – la Costituzione si faccia carico e se se ne faccia carico più o meno7; la questione del livello, di principio o di dettaglio, delle varie norme; il problema, forse il più interessante e il più trattato, della continuità o discontinuità, dell’omogeneità o eterogeneità8, della disciplina costituzionale dell’amministrazione e delle autonomie rispetto alle età precedenti e nel contesto sistematico delle varie norme.
La risposta più comune a quest’insieme di quesiti sembra la seguente: la Costituzione – della quale Guido Zanobini, l’autore che è forse il più rappresentativo dell’intera prima epoca postcostituzionale, non esita a dire, in forma sorprendentemente estrema, che «nel diritto amministrativo ha un’importanza soltanto remota»9 – coinvolge l’amministrazione solo per alcuni aspetti, per lo più quelli trattati in disposizioni costituzionali esplicite; il resto è il modo di essere proprio dell’amministrazione, ad essa peculiare e in questo senso anche permanente nel tempo, e questo modo di essere non è ritenuto particolarmente qualificante per la Costituzione in quanto tale.
È una risposta che ha un sicuro rapporto con quanto la Commissione di studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato (seconda Commissione Forti)10 e i costituenti stessi hanno sentito e la Costituzione ha tradotto nella sezione di norme, esplicita ma ridotta, dedicata all’amministrazione; anche se può essere e viene contraddetta dalla diversa lettura di coloro che, facendo perno sui princìpi fondamentali dell’art. 97 e sull’impianto generale della Costituzione, riconoscono su quelle basi nella Carta una figura di amministrazione, certo incompiuta e perfino contraddittoria, ma tuttavia piena di spunti nuovi rispetto all’amministrazione classica11. Ed è una risposta, quella che può richiamarsi all’autorità di Zanobini, che si può dire classica per un complesso di motivi: perché è legata alla partizione disciplinare dei saperi, che come noto è fondata sull’autonomia, sia pur relativa, dei vari «rami del diritto»; perché si trova già nei precedenti precostituzionali, originatisi nello Stato liberale e non incisi in profondità neppure dal fascismo (nonostante la sua fisionomia costituzionale avesse radicalmente alterato quella del liberalismo, esso non ha avuto bisogno di toccare il concetto profondo dell’amministrazione e la sua natura, pur accrescendone l’autoritarismo, il gerarchismo e la discrezionalità); perché traccia uno spartiacque alla conoscenza e alle pratiche che garantisce una contemplazione sdrammatizzata del proprio oggetto e che dà sollievo rispetto al vortice delle difficoltà politiche e alle accelerate dinamiche proprie del livello costituzionale.
Questa risposta esclude che la cultura si ponga nell’ottica di ritenere che a una nuova forma di Stato, la democrazia, e per di più democrazia sociale, corrisponda un nuovo modo di essere dell’amministrazione; la continuità di concezione è assicurata in campo amministrativo, a prescindere dalla discontinuità costituzionale.
Il punto principale in cui ciò emerge, e la impostazione del quale condiziona tutti gli altri, è però quello della seconda questione, di rilievo più direttamente sostanziale. Riguarda quale sia il concetto base dalla cui angolazione la cultura giuridica guarda sia all’amministrazione che alle autonomie e ne raffigura la «costituzione» intima, nel senso della natura fondamentale dei fenomeni, del loro essenziale modo d’essere, un punto che non può che essere «costituzionale» anche in senso giuridico.
In proposito, non si è ragionato abbastanza sul fatto che, nel determinare il concetto di amministrazione e nel configurare il sistema delle autonomie, la dottrina del diritto amministrativo e quella costituzionalistica, di fronte all’irrompere nella realtà nazionale della Costituzione, muovono come presupposto essenziale dallo Stato (Stato, naturalmente, con una maiuscola usuale ma qui significativa). Non nel solo senso, del tutto ovvio, che l’amministrazione e le autonomie si situano come fenomeni interni dell’ordinamento statale, ma in quello più qualificante e specifico, che esse si identificano senz’altro come funzioni statali o sono assimilate alle funzioni statali. E nel contempo, viene identificato il potere dello Stato a cui l’amministrazione è ricondotta, il potere esecutivo o governo; il che comporta la saldatura diretta della funzione amministrativa a quella di indirizzo politico, che si ritrova poi anche a livello di autonomie locali. Vi è in ciò una movenza del discorso decisamente concorde, che vede allineati su formulazioni consimili, insieme agli autori della vecchia generazione, rappresentanti autorevoli della nuova, che per la loro età potrebbero essere più inclini a percepire il nuovo che sale nella democrazia repubblicana.
Così tra gli amministrativisti Zanobini, al culmine della sua autorevolezza di maestro, nel presentare l’amministrazione, muove dalla «nozione e caratteri distintivi dello Stato» e la configura senz’altro, nel «suo oggetto», come una delle funzioni statali, cogliendone le peculiarità rispetto alle altre e definendola come «l’attività pratica che lo Stato dispiega per curare, in modo immediato, gli interessi pubblici che assume nei propri fini»: dove i concetti di amministrazione in senso oggettivo, da cui si parte, e quello in senso soggettivo sono naturalmente tra loro implicati. E, sempre evidentemente per influenza diretta dell’elemento soggettivo, «l’espressione attività amministrativa in senso generico» risulta «comprensiva così dell’amministrazione in senso stretto, come dell’attività politica»12. Quanto alle autonomie, incluse quelle riconosciute come massime (le territoriali), esse sono indicate da lui come capacità di un’attività, normativa e amministrativa – quest’ultima denominata autarchia –, «avente gli stessi caratteri e la stessa efficacia giuridica» dell’attività dello Stato13. La plurisoggettività dunque è ammessa nel modello di quest’autore (e come potrebbe non esserlo, in presenza della Costituzione e della stessa realtà storica degli enti pubblici italiani in genere?), ma compare nei termini di una rigida uniformità alla posizione dominante dello Stato e ai suoi caratteri (anche per quanto attiene agli scopi: in difformità da altre dottrine, gli enti pubblici sono identificati da Zanobini come quelli i cui scopi sono propri anche dello Stato, benché sia poi normale che «la maggior parte di essi» svolga «un’attività tipicamente pubblica»). Con la conseguenza che potestà di autonomia e potestà di autarchia sono proprie di tutti gli enti pubblici e non riconoscibili come peculiari di alcuni di essi e segnatamente dei territoriali (anche se si ammettono per questi caratteristiche particolari, specialmente per quelli regionali, dotati di potestà di grado legislativo) e che tutti gli enti pubblici senza distinzione sono qualificati come «ausiliari» dello Stato14.
Similmente il più giovane Sandulli, che sarà a sua volta, di lì a poco, una delle autorità riconosciute del diritto amministrativo, dirà che «per giungere al concetto di pubblica amministrazione occorre partire dalla nozione di Stato». Anche per lui come per Zanobini, la sequenza decisiva Stato-fini statali-funzioni porta a definire l’amministrazione, saldata entro il potere esecutivo all’attività pur concettualmente distinta di attività politica, come «funzione dello Stato». E a ribadire, anzi – a causa della sottolineatura, nelle edizioni più tarde del suo libro, della distinzione tra funzioni imparziali e funzioni di parte, tra Stato-comunità o Stato-ordinamento e Stato-soggetto o Stato-apparato –, a specificare per l’amministrazione, come un qualificativo della sua identità rispetto alle altre funzioni statali, la sua natura di espressione del soggetto statale (laddove le funzioni legislativa e giurisdizionale sono ricollegate allo Stato-ordinamento) ancora una volta identificando strettamente concetto oggettivo e concetto soggettivo di amministrazione15. Resta vero anche per quest’autore – malgrado il maggior rilievo accordato alle autonomie, a cui si riconosce il connotato di essere autonomie «politiche» o «di indirizzo» – che la plurisoggettività consiste in un complesso di enti «strettamente collegati con lo Stato», «ausiliari di esso», in qualche modo «inseriti nella sua organizzazione» e accomunati dalla nota dell’autarchia16.
Amministrazione funzione di Stato, dunque, strettamente connessa alla politica (e quindi ai partiti), come noterà criticamente Berti, e non funzione della società. E se anche lo Stato, il pubblico potere, si scioglie in più soggetti, soprattutto in virtù della presenza delle autonomie territoriali, il vincolo dell’amministrazione al potere e alla soggettività pubblica formali non muta: essa continua a essere espressione di soggetti pubblici. In questo modo, quelle autonomi...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Per una storia della legge fondamentale in Italia: dallo Statuto alla Costituzione
  3. I diritti fondamentali
  4. La forma di governo
  5. Il processo e la funzione giurisdizionale
  6. La pubblica amministrazione e il sistema delle autonomie
  7. La dimensione sovranazionale
  8. Gli autori