Dancing Days
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Dancing Days

1978-1979. I due anni che hanno cambiato l'Italia

  1. 336 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Dancing Days

1978-1979. I due anni che hanno cambiato l'Italia

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Un libro inconsueto, la storia microscopica di un periodo brevissimo, in cui l'autore accumula un intero patrimonio documentario, fra giornali, film, testimonianze personali, per metterlo in rapporto con un cambiamento d'epoca che rovescia in modo copernicano lo stile di vita dell'Italia di allora.

Edmondo Berselli, "la Repubblica"

A scavare dentro il biennio cruciale 1978-1979, scrutandone l'irruzione e la discontinuità, è questo libro scatenato e lucidissimo di Paolo Morando: una bellissima pagina nel giornalismo di inchiesta.

Giorgio Boatti, "Tuttolibri"

Una rilettura, molto documentata, del biennio 1978-1979. Dalle lettere d'amore sulla prima pagina del "Corriere" al boom degli stilisti milanesi, da Prova d'orchestra di Fellini al ritorno dei grandi concerti rock internazionali dopo il periodo del 'non si paga'. E sebbene Morando abbracci ogni settore espressivo, la musica diventa linea portante.

Ranieri Polese, "Corriere della Sera"

Dopo il '68, dopo il '77 delle P38, dopo il sequestro Moro, l'Italia è stanca delle piazze e sazia di politica. Tutto sta per cambiare e una singolare campagna giornalistica apre le danze della 'fuga nel privato'. Sentimenti e canzonette, nuove religioni e boom della moda: inizia la stagione del Riflusso che porterà agli anni '80.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858142530

1. L’amore in prima pagina

Chi si ricorda di Charles Boyer? Pochi cinefili forse, e in là con l’età. Bisogna fare un lungo salto all’indietro, tra gli anni ’30 e la Seconda guerra mondiale, quando fra i prototipi del grande amatore del cinema americano c’è anche lui. Attore francese di formazione teatrale adottato da Hollywood, composto, sempre elegante, ha un segno di riconoscimento inconfondibile: il pulsare di una vena alla tempia sinistra, che segnala infallibilmente i passaggi di maggiore tensione drammatica o erotica, mandando in deliquio le spettatrici. E nel suo curriculum di latin lover del grande schermo figurano anche Greta Garbo e Ingrid Bergman. Ma gli amori romantici e appassionati, travolgenti e tragici, per Boyer si fermano all’ingresso delle sale: fuori di lì è uno dei personaggi più tranquilli e riservati della storia del cinema. E nella sua vita non avrà mai nulla a che fare con scandali a base di sesso, alcol o droga. Fino al giorno della sua morte. Siamo a Phoenix, Arizona. È il 26 agosto del 1978, un sabato in cui le temperature sfiorano i 40 gradi. Ma non è per il caldo che Charles Boyer decide di farla finita. In una stanza d’albergo manda giù un flacone di Seconal, il barbiturico dei divi: ha già ucciso Judy Garland, Jimi Hendrix, la stessa Marilyn Monroe. La moglie di Boyer, la prima e l’unica, l’attrice inglese Pat Paterson incontrata nel 1934 a un party e da allora mai lasciata, due giorni prima lo ha abbandonato per sempre, stroncata dal cancro. Il Napoleone di Maria Walewska è ormai un vecchio signore pieno di acciacchi, la vena sulla tempia non pulsa più da molto tempo. Non resiste alla solitudine. Preferisce raggiungere l’amata Pat e il figlio Michael, pure lui morto suicida nel 1965, giocando alla roulette russa dopo essere stato lasciato dalla fidanzata. Da allora Charles Boyer riposa con loro nel cimitero di Culver City, California. Due giorni dopo avrebbe compiuto 79 anni.
La sua morte in Italia passa quasi inosservata: i giornali gli dedicano sì articoli di ricordo, ma il menu principale prevede ben altro. Perché proprio quel giorno il patriarca di Venezia Albino Luciani diventa il 263° papa della Chiesa cattolica, con il nome di Giovanni Paolo I, in omaggio ai due predecessori Roncalli e Montini. Dalla loggia centrale della basilica di San Pietro lo annuncia alle 19.27 il cardinale Pericle Felici, protodiacono, dopo un pasticcio di fumate bianche, grigie e nere. È raggiante, Felici: latinista famoso, può pronunciare la formula «nuntio vobis gaudium magnum, habemus papam». Su Luciani, si viene subito a sapere, alla quarta votazione c’è stato il convergere unanime del collegio cardinalizio. Dopo l’annuncio, sulla piazza viene fatto sgomberare un passaggio al centro, dove arriva marciando un plotone della guardia svizzera che si dispone sotto la loggia, sul sagrato, in segno di sottomissione al proprio nuovo sovrano. E arriva anche un reparto di carabinieri e dell’esercito, l’omaggio della Repubblica al nuovo capo del piccolo Stato confinante e al pontefice nuovamente italiano. Che regnerà solamente 33 giorni.
Di Charles Boyer e della sua triste fine però qualcuno si accorge. E se ne commuove. Ci pensa e ci ripensa, a quell’addio malinconico. Amore e morte, passione e disperazione: non sono poi gli ingredienti della vita di tutti noi? E finalmente quel qualcuno decide di prendere carta e penna, scrivere una lettera, chiuderla in busta e spedirla al fatidico indirizzo di via Solferino 28, Milano. È l’indirizzo del Corriere della Sera.
Caro direttore, non bisogna essere Charles Boyer per morire d’amore, come avete scritto sul Corriere recentemente. Sono un professionista di 50 anni, sposato, con due figli già adulti i quali, come tutti i ventenni, si sono praticamente già distaccati dalla famiglia. Da tre anni amo, riamato, una ragazza di 35 anni la quale con uno slogan affettuoso mi ripeteva sovente: «Quando mi vieni a prendere?». Da tre anni sono travagliato dal dilemma se restare con mia moglie alla quale sono ancora affettivamente legato, oppure farmi una nuova vita accanto alla ragazza che amo. Se fossi un acceso divorzista non avrei avuto dubbi ma, purtroppo, sono rimasto fedele a certi canoni che paiono oggi ormai superati, cercando di convincere la mia partner che non avrei mai potuto costruire la mia felicità sull’infelicità altrui. L’altro giorno la ragazza ha deciso, pur col cuore spezzato, di scegliere un uomo per accasarsi. Le chiedo, caro direttore, se in un mondo in cui i valori si stanno completamente dissolvendo sia giusto che un uomo come me sia condannato all’infelicità come all’ergastolo.
In pratica, per il rispetto di quei valori (ma sono valori o non valori?) si creeranno quattro infelici: mia moglie, che inevitabilmente ha già intuito il mio dramma, la ragazza, che si accasa senza amore, il suo futuro marito, che non sarà mai amato, e il sottoscritto. Quattro infelici per quali principi?
Ho pertanto deciso di uccidermi, ma non nella maniera tradizionale bensì simulando un incidente il quale, oltre tutto, potrà sortire benefici ai miei familiari. Procederò alla mia esecuzione, inevitabilmente, se uno dei vostri sensibilissimi scrittori non riuscirà a spiegarmi il motivo per il quale io non debba fare ciò.
L’onda papale si ritira, i giornali tornano alla routine quotidiana. Che mercoledì 13 settembre, sulla prima pagina del Corriere della Sera, è fatta di un incontro tra Giulio Andreotti e i sindacati sui problemi dell’economia: il presidente del Consiglio annuncia per dicembre un piano triennale 1979-81 su investimento, sviluppo e lotta alla disoccupazione. È il piano Pandolfi, dal nome del ministro del Tesoro, all’insegna dello stringere la cinghia. Poi il Medio Oriente, con una telefonata in vista del vertice di Camp David tra il leader egiziano Sadat e re Hussein di Giordania e le epurazioni dello scià Reza Pahlavi in Iran. E ancora nuove polemiche sul caso Moro riaperte dal diario di François Mitterrand, in cui lo statista francese attribuisce a Craxi una frase decisamente ambigua, non smentita: «A qualcuno occorre del sangue. Quello di Moro giustificherà l’emorragia». Per lo sport gli strascichi del Gran Premio d’Italia di Formula 1 di tre giorni prima a Monza, con la folle carambola alla prima curva appena dopo la partenza che costa la vita allo svedese Ronnie Peterson. Disoccupazione, crisi internazionali, terrorismo, tragedie sportive: routine appunto, sembra che trent’anni siano passati per niente. Ma l’ultima colonna della prima del Corriere della Sera di quel mercoledì 13 settembre è una cosa che non si è mai vista prima. Introdotto da un laconico «Abbiamo ricevuto questa lettera», viene infatti pubblicato il lamento del cinquantenne adultero. E, cosa che più conta, aspirante suicida. Con il titolo “Morire d’amore”, il sottotitolo tra parentesi “ma ne vale la pena?” e l’occhiello “Il caso Charles Boyer e la crisi a 50 anni”. È anonima, in fondo c’è solo il classico “Lettera firmata (Milano)”. E di seguito questa risposta, pure anonima. Dunque attribuibile allo stesso direttore Franco Di Bella.
La direzione di un giornale, quando arriva una lettera così, che cosa deve fare? Cestinarla? Rischiare di prendersi sulla coscienza un morto così, da Liala, per una risposta mancata? Avventurarsi nei sentieri mielosi della posta del cuore tipo settimanali rosa, pieni di consigli moralistico-sentimentali? Con la gente che muore sul serio, ancora, nel mondo, di guerre civili, di terrorismo, di infortuni sul lavoro, di fame, sì, ancora di fame, chi vuol morire d’amore, a cinquant’anni, quale diritto ha di rubare un po’ di spazio, un po’ di notizie, un po’ di informazione, un po’ di serenità a milioni di lettori abituati a distinguere con chiarezza il letto a due piazze dall’obitorio?
Eppure... In queste città brutte, in questo settembre brutto che già ha portato la prima nebbia, mentre il Piano Pandolfi annuncia sacrifici, mentre i partiti discutono di leninismo, le massaie di carovita, gli autonomi di scioperi, i brigatisti di nuovi attentati, qualche maturo cittadino vuole ancora morire d’amore per una “ragazza” di trentacinque anni. Con le parole dei baci Perugina promette e minaccia, e chiede chissà perché al giornale una briciola di quel coraggio che non ha saputo trovare scegliendo, scegliendo una cosa qualunque, il matrimonio, il divorzio, il dolore della solitudine.
Questa lettera, che pubblichiamo (dopo quella dei figli che intendono divorziare dai genitori separati) perché è esempio di una crisi che forse con situazioni diverse e molto meno rosa riguarda molti, dice che arrivato al binario della stagionata maturità l’uomo (o la donna) spesso non riesce più a parlare né con se stesso né con Dio né con una persona amata. Se sapesse parlare alla sua “ragazza” il signore di Milano “lettera firmata” potrebbe forse dirle: «Aspetta, ho sbagliato, ora arrivo, lascia quel tizio con cui ti stai accasando». Se sapesse parlare alla moglie, potrebbe dirle: «Perdonami, innamorarsi non è peccato. Lasciami andare». Oppure, al contrario: «Senti, non c’è soltanto l’amore, esiste anche l’amicizia, e in nome dell’amicizia restiamo insieme, facendoci possibilmente compagnia. E poi ci sono i figli, i soldi... Ma se puoi, senza troppa gelosia, lasciami, almeno, il diritto di amare quella ragazza e di sentirmi riamato senza dovermene vergognare».
Se sapesse parlare a Dio, potrebbe forse dirgli: «Senti, scelgo con te, con te che sei la tradizione, e mi sacrifico». Oppure, se ha un’altra idea di religione: «Scelgo con te, con te che sei il progresso, e divorzio; non dicono le tue canzoni: dov’è carità e amore, là c’è Dio?». Se sapesse parlare a se stesso, direbbe: «Senti, decido da solo, senza consigli dei giornali». E decidere vuol dire sempre vivere, mai fuggire nella viltà di un suicidio.
Ci sono molti modi di vivere, ma uno solo di amare: rispettando, al di là degli slogan dolci sulla felicità propria e su quella altrui, se stessi, chi si ama e la verità.

1. Il cronista direttore

Milanese di origini meridionali, classe 1927, cronista di razza, in quel settembre del ’78 Franco Di Bella è direttore del maggiore quotidiano italiano da neppure un anno: subentra a Piero Ottone il 30 ottobre 1977, ed è il culmine di una carriera trentennale tra le austere mura del palazzo di via Solferino. Al Corriere Di Bella entra nel 1952, grazie a uno scoop leggendario che due anni prima manda in fibrillazione la stampa di tutto il mondo: è lui a trovare la foto del fisico nucleare Bruno Pontecorvo, appena fuggito clandestinamente in Unione Sovietica. Lo fa in modo davvero rocambolesco: «A quell’epoca avevo cominciato a lavorare come “stringer”, cioè informatore, per il gruppo Time-Life – racconta nel suo libro Corriere segreto – per cui, leggendo i giornali inglesi, scoprii che Pontecorvo era prima passato in Italia e da qui aveva compiuto il suo balzo oltrecortina». Di Bella scopre pure che il fuggiasco, mesi prima, ha fatto parte di una ristretta delegazione guidata da Enrico Fermi in visita all’Olivetti, a Ivrea. Il giovane cronista piomba così da Vincenzo Carrese, dell’agenzia Publifoto di via Solferino 34, gli impone di aprire gli archivi in piena notte e rintracciare il fotografo che era stato a Ivrea. È Vittorio Baroni, che mette a disposizione i negativi delle immagini che ha scattato. Ma... chi è Pontecorvo? Che faccia ha? L’unica soluzione, sempre a notte fonda, è tirare giù dal letto alcune segretarie della Olivetti. Finalmente ecco quella giusta, che portata insonnolita alla Publifoto punta il dito su un signore sorridente alla destra di Fermi: «È lui». Gran finale: il Tempo di Milano esce l’indomani con l’istantanea che vende poi a migliaia di esemplari in tutto il mondo, attraverso l’Associated Press. Grazie al ventitreenne Di Bella.
Cronista, capocronista, inviato, caporedattore, vicedirettore: al Corriere Di Bella percorre tutti i gradini della professione. L’ultimo, la direzione, lo sale nel marzo ’77 a Bologna, al Resto del Carlino di Attilio Monti, il “cavaliere nero” (per il petrolio e le simpatie politiche), e Giuseppe De André, il padre del cantautore Fabrizio. Il tempo di appendere il soprabito, conoscere la redazione, prendere contatti con il sindaco Zangheri e i vari notabili, ed ecco gli scontri in cui muore Francesco Lorusso, i blindati nelle strade mandati dal ministro degli Interni Cossiga, le cariche della celere, gli indiani metropolitani, Bifo e Radio Alice, la torrida estate che porta al convegno sulla repressione di Guattari & C. in settembre. E proprio in quei giorni, ricorda Di Bella nelle sue memorie, riprendono le trattative per il cambio della direzione in via Solferino. Il suo nome compare in tutte le ipotesi dei Rizzoli (patron Andrea e i figli Angelo jr. e Alberto), variamente abbinato a quelli di Ronchey, Sensini, Afeltra e Bettiza per la condirezione. Ma Di Bella tentenna, l’idea di tornare negli uffici di via Solferino in cui spadroneggia il comitato di redazione guidato dal durissimo Raffaele Fiengo non lo attira. A convincerlo, e c’è da credergli visto il fascino da incantatore di serpenti che l’uomo sprigiona già allora, è nientemeno che Silvio Berlusconi. Che all’amico e di lì a poco compagno di loggia P2 fa più o meno questo discorso: guarda, da azionista del Giornale mi farebbe più comodo che tu rifiutassi, perché un Corriere spostato a sinistra lascerebbe ancora più spazio a Montanelli, ma se il Corriere fosse riportato su una linea meno radicale, beh, questo mi preme più dei miei personali interessi.
Detto, fatto. E Di Bella si decide al grande passo. Il primo giornale che firma è quello del 31 ottobre ’77, dopo un voto di gradimento in cui la redazione si spacca: 95 a favore, 63 astenuti, 20 contro. Con la conquista del “soglio” che fu di Albertini, l’amicizia tra i due si rafforza, con Di Bella stregato dalla «profonda cultura» del futuro fratello massone Silvio («un suo splendido prologo all’Utopia di Tommaso Moro dell’editore Neri Pozza fu per me una rivelazione»). E così del Corriere Berlusconi diventa addirittura editorialista. Debutta nei giorni del sequestro Moro, con un dotto fondo economico intitolato “Un piano per l’industria che darà pochi frutti”, piazzato in apertura di seconda pagina: non nella consueta forma della “tribuna aperta” utilizzata dal Corriere quando ospita interventi esterni, ma con i caratteri tipografici riservati agli editoriali particolarmente autorevoli. Ma altri articoli di Berlusconi escono nei mesi seguenti: “Pregiudizi e leggi inadatte frenano ancora l’edilizia” (25 giugno), “L’autarchia è un boomerang” (5 luglio), “Chi guida la politica creditizia?” (4 agosto). Nei mesi successivi il Cavaliere gode di un crescendo di considerazione, fino all’apoteosi del 14 settembre 1980, quando un altro fratello massone, Roberto Gervaso, lo intervista in terza pagina, un sublime faccia a faccia intitolato “Cosa farei se fossi senza casa... A colloquio con l’imprenditore Silvio Berlusconi”. Sempre quell’anno, già in marzo, la Domenica del Corriere pensa bene di aprire proprio con un ritratto del futuro tycoon una serie di articoli dedicati ai numeri uno dell’Italia del nuovo decennio. E a fine 1980 arriveranno i giorni caldi del Mundialito, il torneo di calcio tra le nazionali vincitrici della Coppa del mondo, organizzato dalla Fifa nell’Uruguay dei generali amici di Licio Gelli: quando Canale 5 a sorpresa ne acquisterà i diritti televisivi, Di Bella schiererà il suo giornale senza tentennamenti dalla parte dell’eversore del monopolio Rai.
L’amicizia, come l’amore, cresce se temprata dalle avversità comuni. Sentite questa dell’aprile dell’80, sempre dal libro di Di Bella:
Il mio amico Silvio Berlusconi con la sua mania di risparmiare sui minuti secondi ha voluto che salissi a Bologna non sulla mia auto ma sul suo jet. Sopra Linate al jet non è uscito bene il carrello, la ruota sinistra non scattava nella posizione giusta e rischiava di piegarsi all’atterraggio. Per tre ore abbiamo cercato invano un aeroporto che ci assicurasse trecento metri di schiumogeni per atterrare con qualche probabilità di non incendiarci. Ci hanno respinto Fiumicino, Ciampino, Linate e Malpensa. In centoventi minuti ho fatto in tempo a ricapitolare tutte le vicende della mia vita e a compiere qualche esame di coscienza. Berlusconi si è trasformato in hostess, assistente sociale, confessore e curatore d’anime. Inzuppa d’acqua i plaid di bordo per avvolgerli attorno al corpo al momento dell’impatto: rassicura passeggeri ed equipaggio, si rammarica solo che gli sta saltando tutto il programma serale di appuntamenti per Canale 5. Implacabile e sicuro com’è, se avesse gli occhi azzurri, sembrerebbe Gei Ar. Quando stiamo per far rotta su Ginevra, l’aeroporto militare di Cameri, impietosito da questi pellegrini del cielo, derelitti e abbandonati da tutti, ci offre una pista con gli schiumogeni e ci consente di atterrare. Va tutto bene e il comandante Pagani ci porta bravamente in salvo: davanti alla scaletta troviamo pompieri in tuta di amianto, ufficiali efficientissimi e il cappellano militare con la stola dell’officiante, già pronto per l’estrema unzione. Invidio Berlusconi per la sua glaciale imperturbabilità, anche se era piuttosto consistente il rischio di andare arrosto.
Se con Ottone il Corriere è ricco di voci laiche (da Pasolini a Moravia, da Parise alla Ginzburg) impegnate nella discussione razionale ad alto livello su temi di rilievo, Di Bella predilige le collaborazioni moderate, più accettabili dalla maggior parte del suo pubblico tradizionale. Che già da qualche tempo è appunto in libera uscita verso il Giornale del dissidente Montanelli, per la gioia di Berlusconi. È cospicua, la diaspora da via Solferino iniziata dopo il cambio di direttore: Giampaolo Pansa, Bernardo Valli, Lietta Tornabuoni, le prestigiose firme di Umberto Eco, Franco Fortini, la stessa Natalia Ginzburg. È così che uno dei principali editorialisti del Corriere diventa Giovanni Testori, vate del cattolicesimo controriformista, barocco, mortuario, fatto di appelli allo strazio della nascita e alla nullificazione della morte. Che si produce in editoriali contestatissimi, come “Le vacanze dedicate agli altri” dell’estate del ’79: in cui teorizza e glorifica «le donne della nostra terra quando rimangono fedeli alla loro nascita e dunque al loro destino sacro e sociale di figlie e di sorelle, di mogli e madri». L’idealtipo femminile, per Testori, è quello della donna non più giovane (dunque sessualmente cancellata), naturalmente sposa e madre al servizio di marito e figlio, che lavora come domestica e che parla ancora in dialetto. E le vacanze femminili ideali, sostiene lo scrittore lombardo, sono quelle trascorse assistendo malati o componendo salme: un articolo insomma così volutamente provocatorio da lasciare perplessi persino i lettori più reazionari.
Tra uno scontro sindacale e l’altro, Di Bella pensa da tempo a come dare una scossa al suo Corriere. Politica, terrorismo, crisi internazionali, il crack Sindona: la gente è stanca. All’inizio del 1978, appena prese le misure, butta lì un’inchiesta sulla nascente mania dello skateboard, che piace. Ma la cronaca incalza, il giornale è sempre stretto. E la tragedia incombe. Il 16 marzo via Fani, i 55 giorni in cui l’Italia sembra sull’orlo del baratro, quella R4 rossa. Poi i referendum per l’abrogazione della legge Reale sull’ordine pubblico e di quella sul finanziamento pubblico ai partiti: sconfitti entrambi, e senza bisogno di mancare il quorum. Subito dopo le dimissioni del capo dello Stato Giovanni Leone: travolto, più che dallo scandalo Lockheed, dal libro di Camilla Cederna Giovanni Leone. La carriera di un presidente. E quell’estate è anche l’ultima di papa Paolo VI. Poi, finalmente, si respira. Bisogna però inventare qualcosa di nuovo. Ma cosa? Con i suoi principali collaboratori, il vicedirettore vicario Gaspare Barbiellini Amidei e il caporedattore centrale Roberto Ciuni, Di Bella continua a discuterne, lo fa ormai da mesi: i tempi sono maturi, argomenti riguardanti il privato e i sentimenti dell’uomo possono essere trattati direttamente proprio in prima pagina, quella cioè fin lì riservata alla politica e ai grandi avvenimenti internazionali. Non l’ha fatto ancora nessuno, ma che importa? Ci vuole però un assist.
Il primo tentativo serio è domenica 10 settembre, appena tre giorni prima della lettera del cinquantenne. Con il titolo “Il diritto di divorziare dai genitori” appare in prima pagina una sterminata colonna, ancora l’ultima a destra. Luca Goldoni dà conto, con il suo stile semiserio, di una proposta di legge presentata in Svezia da tale Ulla Jacobsson, 52 anni, deputato e ...

Indice dei contenuti

  1. 1. L’amore in prima pagina
  2. 2. La febbre del sabato sera
  3. 3. Operazione riflusso
  4. 4. La ritirata
  5. Epilogo
  6. Ringraziamenti
  7. Fonti e bibliografia
  8. Testimonianze