La dottrina morale
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La dottrina morale

  1. 120 pagine
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Nella dottrina di Senaca "il problema morale è un 'problema di forza': costituire una forza intima e personale contro le forze naturali e sociali che ci premono e ci urtano da ogni parte e munire l'anima propria come una fortezza in cui si racchiuda la nostra vita e da cui muova il nostro amore per la vita degli altri".Dall'introduzione di Concetto Marchesi.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858142059

Il sommo bene

Il sommo bene è l’armonia dell’anima; le virtù saranno dove sarà l’accordo e l’unità: la discordanza è per il vizio58.
La ragione, mercé l’esperienza sensibile, giunge gradatamente alla conoscenza del bene: ma il bene è percepibile e goduto soltanto dalla ragione e non dai sensi. Il bene non è sensibile, ma intelligibile, vale a dire appartiene non ai sensi ma all’intelletto.
Se i sensi fossero giudici del bene, noi non respingeremmo alcun piacere, perché tutti ci dilettano; al contrario non subiremmo volentieri alcun dolore, perché tutti i dolori offendono i sensi. Evidentemente alla ragione, che comanda a tutto, appartiene il diritto di regolare la condotta della vita e di stabilire che sia la virtù, l’onestà, il bene e il male. I seguaci della voluttà vorrebbero che la parte più vile dovesse giudicare della parte più nobile e che il giudizio del bene spettasse al senso, ottuso ed ebete e nell’uomo più tardo che negli altri animali.
L’uomo appena nato riceve non il bene, ma il germe del bene. Chi concede all’infanzia la felicità fa che l’uomo appena nato incominci di là dove può pervenire solo l’uomo perfetto (consummatus); pone la cima dell’albero al posto della radice. Se alcuno dicesse che il feto nascosto nell’utero materno gode già di qualche bene sarebbe tacciato di manifesto errore. Lievissima è la differenza tra il bambino appena nato e ciò ch’è nascosto nelle viscere materne; quanto all’intelligenza del bene e del male hanno entrambi pari maturità; e il bambino che vagisce è altrettanto capace del bene, quanto l’albero e il bruto59. Nell’albero e nel bruto non si trova il bene, perché non si trova la ragione; e al bambino manca ancora la ragione: allora egli perverrà al bene, quando sarà pervenuto alla ragione. Si chiama precariamente bene negli alberi e nei bruti quello che è conforme alla natura di ciascun essere; ma il vero bene non può cadere nel bruto, perché appartiene ad una natura migliore e più felice. Dove non è luogo alla ragione, non è luogo al bene.
La natura diede a noi i germi della scienza del bene e del male, non la scienza. Alcuni dicono che questa nozione è venuta per caso; ma è assurdo ritenere che la virtù possa essersi rivelata per caso60.
Noi conoscevamo la sanità del corpo e ne argomentammo ce ne fosse anche una dell’anima; conoscevamo la forza del corpo, ne argomentammo che anche l’anima ha la sua forza. Alcune azioni di bontà, di umanità, di coraggio ci avevano colpito e cominciammo ad ammirarle come opera di perfezione; si insinuavano in mezzo a quelle molti vizi cui nascondeva la fulgida apparenza di qualche fatto cospicuo e dissimulammo quei vizi: perché la natura ci porta ad accrescere le cose degne di lode. Da questi fatti diversi ricavammo il tipo del massimo bene (ex his ergo speciem ingentis boni traximus)61.
La virtù, ragione perfetta e solo bene.
La ragione intera e retta forma la completa felicità dell’uomo. Se ogni cosa è lodevole quando ha compiuto il suo bene ed è pervenuta al fine della sua natura, giacché il bene proprio dell’uomo è la ragione, egli è lodevole quando ha reso perfetta la ragione ed ha toccato il fine della sua natura. Questa ragione perfetta si chiama la virtù, che è la stessa cosa dell’onestà.
La virtù è il solo bene dell’uomo, perché quegli che la possiede è da pregiare anche se abbia perduto tutte le altre cose: salute, ricchezza, nobiltà, autorità; e quegli che non la possiede, quantunque sia largamente provveduto di tutte queste cose, va condannato e respinto. Non importa sapere quanto l’uomo possegga di terre, di capitali, di popolarità, se giaccia su un letto prezioso o beva in tazze trasparenti: ma quanto egli sia buono. Ed è buono se la sua ragione è esplicita, retta e conformata alla volontà della sua natura. È questa la virtù, l’onestà: è questo l’unico bene dell’uomo.
Infatti, giacché la sola ragione fa l’uomo perfetto, la sola ragione perfetta fa l’uomo felice: e il solo bene dell’uomo è quello che può renderlo felice.
Una volta riconosciuto ogni bene nell’anima, tutto ciò che rafforza, inalza e ingrandisce l’anima è un bene. La virtù appunto fa l’anima più forte, più alta, più grande; al contrario, le cose che eccitano la nostra cupidità deprimono e scuotono l’anima e, mentre pare la inalzino, la gonfiano di folle vanità. Dunque il solo bene è quello che rende l’anima migliore. Perciò, l’uomo virtuoso, quello che reputerà di poter fare onestamente, farà anche a costo di molte fatiche, anche se dovrà sfidare il pericolo; e invece quello che sarà turpe non farà, anche se dovesse procurargli ricchezze, voluttà e potenza. Nessuna cosa lo distoglierà dall’onesto, nessuna speranza lo inviterà alla turpitudine. Se dunque egli ha per principio immutabile di seguire l’onesto e di evitare il turpe e in ogni atto della vita penserà che non c’è altro bene che l’onesto né altro male che la turpitudine, se è vero che la virtù sola è incorruttibile e inalterabile, ne risulta che unico bene è per lui la virtù, che non può per nessuna circostanza non essere un bene ed è fuori di ogni pericolo di mutamento. La pazzia (stultitia) può elevarsi fino alla saggezza; ma la saggezza non saprebbe volgersi in pazzia.
Alcuni uomini per un impulso irriflessivo hanno calpestato le cose che il volgo desidera e teme; si è visto chi ha cacciato le mani nelle fiamme, chi ha riso in mezzo alle torture, chi non ha versato una lagrima ai funerali dei propri figli, chi è andato incontro alla morte senza tremare; l’amore, l’ira, la cupidigia hanno invocato i pericoli. Se questo può una passeggera ostinazione dell’animo eccitato da qualche stimolo, molto più deve potere la virtù, che non ha impeti improvvisi, ma è sempre di una forza e di un perpetuo vigore62.
Tuttavia gli uomini, i rari uomini di eccezionale valore, per quanto si possano approssimare alla perfetta sapienza, non possono mai compiutamente conseguirla. Nessuno è quindi compiutamente beato.
Da una parte c’è la gran folla degli stolti; dall’altra sono coloro che profittano (proficientes), cioè coloro che sono in progresso, i quali, pur essendo ancora nel numero degli ignoranti (stulti), in quanto non hanno raggiunto il sommo bene, molto si distinguono da essi. Alcuni li dividono in tre classi63. I primi sono quelli che non posseggono ancora la sapienza, ma sono ad essa vicini: sono quelli che hanno lasciato le passioni e i vizi ed hanno appreso ciò che dovevano conoscere; ma in essi è ancora una fiducia senza esperienza e manca la pratica assoluta del bene; tuttavia non possono più ricadere nei vizi che hanno fuggito; essi sono oramai in luogo donde non è dato scivolare indietro, ma non sono ancora abbastanza convinti dei loro progressi, non sanno di sapere: godono del loro bene, ma non vi si abbandonano.
C’è differenza tra malattie dell’anima e affezioni dell’anima. Le malattie sono vizi inveterati e induriti, come l’avarizia e l’eccessiva ambizione; una volta presa l’anima, si allacciano ad essa e diventano il suo perpetuo male; la malattia è una opinione ostinata nel male (iudicium in pravo pertinax) che rivolge il nostro desiderio verso obietti indegni. Le affezioni sono movimenti dell’anima, biasimevoli, improvvisi e concitati: se tornano spesso e son trascurate diventano malattie. Quelli che hanno maggiormente profittato sono senza malattie, ma sentono ancora le affezioni, prossimi alla perfezione.
Nella seconda classe sono quelli che hanno deposto i massimi mali dell’anima, ma non sono compiutamente sicuri dalle ricadute. La terza classe comprende quelli che sono esenti da molti e grandi vizi, ma non da tutti. Hanno fuggito l’avarizia, ma sentono ancora l’ira; non sono più stimolati dalla libidine, lo sono dall’ambizione; non hanno più brame, hanno timori; e nello stesso timore esistono dei gradi: in certi casi si resiste, in altri si cede; si disprezza la morte, ma si teme il dolore. Noi potremo contentarci di entrare in questa terza classe.
La virtù basta, anzi sovrabbonda, alla felicità della vita. Nulla può mancare all’uomo posto oltre il desiderio di tutte le cose. Se noi abbiamo la forza di espellere tutti gli errori e di sollevarci da questo fango alle sublimi altezze della sapienza, la tranquillità dell’anima ci attende e l’assoluta libertà. La libertà è non temere né gli uomini né gli dèi, non volere le turpitudini e gli eccessi, avere su noi la massima potestà64.
La virtù procede ugualmente felice in mezzo ai piaceri e ai dolori. L’eroe della sapienza.
È preferibile essere lontani dai tormenti, ma se ci toccheranno, auguriamoci di sopportarli con forza, onore e coraggio. È naturale si scongiuri la guerra: ma se verrà sopportiamo bravamente le ferite, la fame e gli altri mali che la necessità della guerra a...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Indipendenza filosofica di Seneca
  3. Sapienza e filosofia
  4. La metafisica
  5. Dio
  6. La società umana
  7. La giustizia sociale
  8. Necessità del consorzio umano
  9. La vera salute dell’animaè nell’anima stessa
  10. Il dolore
  11. Il suicidio
  12. La morte
  13. Il sommo bene