Altruisti per natura
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Altruisti per natura

Alle radici della socialità positiva

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Altruisti per natura

Alle radici della socialità positiva

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Chi lha detto che gli esseri umani siano sostanzialmente egoisti? Molti ritengono che la tendenza a sopraffare sia comune e abbia addirittura sicure basi scientifiche.Non è così. In quanto essere biologicamente sociale lindividuo, pur dotato di una propria identità, fisica e psicologica, non può realizzare se stesso, e più banalmente nemmeno sopravvivere, in assenza di buone relazioni. Il rapporto con laltro non è spiegabile in termini di costi o benefici, o come secca alternativa tra perdita e guadagno: aiutare gli altri mettendo in secondo piano il proprio interesse è ciò che tutti noi, in misura maggiore o minore, facciamo quotidianamente.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858105986

1. Altruismo e socialità positiva

1.1. L’altruismo nella prospettiva biologica

I biologi evoluzionisti hanno affrontato il tema dell’altruismo in termini di fitness genetica, cioè di vantaggio biologico di un individuo nella sopravvivenza e nella trasmissione dei propri geni alle generazioni successive. In realtà il significato dell’espressione non è univoco, e varia a seconda che si consideri la selezione come una forza che opera a livello dell’individuo, della popolazione oppure dei geni. Il comportamento altruistico pone una sfida al concetto di fitness; infatti, favorire la probabilità di sopravvivenza e riproduzione di un altro individuo a danno di se stessi, fino al rischio di morte, contrasta con la tendenza “egoistica” dei geni a determinare strutture fisiche o comportamenti che aumentano la loro probabilità di replicazione e quindi la loro frequenza nella popolazione. Per superare questa contraddizione, l’altruismo è stato spiegato in diversi modi.
Una prima spiegazione fa riferimento alla selezione di gruppo: in particolari situazioni una popolazione, grazie al fatto di essere altruista al suo interno, sopravvive meglio di altre, che vengono soppiantate ed eliminate; di conseguenza i geni “altruisti” vengono trasmessi alla discendenza. Anche se già Charles Darwin aveva contemplato questa possibilità, che è condivisa da molti etologi, questa spiegazione è controversa. In specifico, essa è osteggiata da coloro che ritengono il gene, e non l’individuo e tanto meno il gruppo, l’unità fondamentale della selezione naturale.
Una seconda spiegazione fa ricorso alla selezione di parentela. Le azioni a favore dei parenti permettono infatti la riproduzione del patrimonio genetico, che è condiviso, attraverso la sopravvivenza dei soggetti cui esse sono rivolte: l’individuo muore, ma i geni dei parenti vengono trasmessi. Per questo l’altruismo dipende dalla porzione di eredità condivisa; a questo riguardo è stata formulata un’equazione, secondo la quale la frequenza di un gene associato all’altruismo è maggiore quando il coefficiente di parentela, cioè la possibilità di trasmissione genetica, supera il rapporto tra costi e benefici. Ne deriva che i comportamenti altruistici, in una determinata situazione, saranno maggiori verso i fratelli e minori verso i cugini. Questo modello riesce a spiegare i comportamenti d’aiu­to verso i parenti, ma si è rivelato insufficiente negli stessi animali, a mano a mano che si esaminavano specie dalla vita sociale più articolata, perché non è in grado di rendere ragione dei comportamenti d’aiuto verso gli estranei, con i quali un individuo non condivide il proprio patrimonio genetico.
Per ovviare a questi limiti, è stato elaborato il modello dell’altruismo reciproco, che spiega i comportamenti a favore degli altri con la reciprocità: l’animale riduce temporaneamente la propria probabilità di sopravvivenza o riproduzione, ma verrà ricambiato in futuro dal beneficiato. La reciprocità richiede una certa omogeneità di comportamento, in modo che prima o poi tutti nel gruppo abbiano un beneficio. L’altruismo reciproco chiama in causa la complessità della rete sociale che si stabilisce tra i diversi individui all’interno di un gruppo. In particolare, esso rimanda alla possibilità di distinguere i profittatori, che ricevono aiuto ma non sono disponibili a darlo: la capacità di riconoscerli permette di escluderli come beneficiati, riducendo il rischio di aiutare senza poi essere aiutati, anche se in realtà non esiste mai la certezza che il proprio comportamento d’aiuto venga in futuro ricambiato.
Negli stessi animali, quindi, il proseguire degli studi ha reso evidente che i comportamenti altruistici non sono spiegabili solo negli stretti termini del vantaggio genetico, ma rimandano alle relazioni sociali che si stabiliscono tra i componenti del gruppo e alle specifiche capacità sociali dei diversi individui. Ciò è particolarmente evidente quando si considerano i primati più vicini all’uomo. Gli studi sulle scimmie antropomorfe mostrano a questo riguardo che le varie specie attuano comportamenti altruistici e di conforto anche molto elaborati, all’interno di interazioni sociali di gruppo anch’esse assai evolute, nelle quali la reciprocità non è solo di tipo diretto o unicamente materiale. Queste constatazioni hanno portato gli etologi a concludere che vi sono chiare evidenze dell’esistenza di un primordiale ordine morale nei primati, volto ad armonizzare la vita sociale nel gruppo, in modo da migliorare la cooperazione e i comportamenti altruistici al suo interno, e di conseguenza anche la sopravvivenza. Una conferma in questo senso viene dall’esistenza in molti animali di precursori delle emozioni cosiddette morali, come vergogna e senso di colpa.

1.2. L’uomo come essere biologico e culturale

Se dagli animali passiamo agli esseri umani, il discorso si fa ancora più complesso, perché in essi non agiscono rigide determinazioni comportamentali, ma si può solo parlare di predisposizioni biologiche. L’essere umano, infatti, non dispone di programmi prefissati che stabiliscono in modo obbligato il suo comportamento, ma si caratterizza per plasticità di adattamento e per la possibilità di trasmissione culturale. La cultura è il frutto, a sua volta, delle specifiche capacità cognitive dell’uomo, in grado di andare oltre il dato percettivo immediato per rappresentarsi realtà non presenti, e costruire di conseguenza simboli e segni astratti, primi fra tutti quelli verbali (ne parleremo più diffusamente nel capitolo 3). Per tutte queste ragioni il concetto di istinto non è applicabile all’uomo ed è stato abbandonato, perché inadatto a spiegare la varietà e la complessità dei suoi comportamenti. Di conseguenza, la contrapposizione tra innato e appreso, tra patrimonio genetico da un lato e ambiente dall’altro – e in particolare ambiente culturale – è oggi del tutto superata, anche se purtroppo continua a essere presentata dai media (per esempio quando parlano, per accattivarsi l’attenzione del pubblico, di “gene del divorzio”). In realtà questo superamento è avvenuto da tempo, e solo una visione limitata e semplificata può continuare a far ritenere che il comportamento umano sia influenzato in modo univoco solo dalla biologia e dai geni, oppure al contrario solo dall’ambiente e dalla cultura.
La recente mappatura del genoma umano ha confermato la complessità dei rapporti tra patrimonio genetico e ambiente, deludendo le aspettative di coloro che si aspettavano una precisa corrispondenza tra geni e comportamento. Essa ha infatti mostrato che il numero di geni è molto più basso (circa 23.000) di quello atteso (100.000), e in proporzione di gran lunga inferiore a quello di organismi molto meno complessi. Inoltre esiste un’elevatissima quantità di DNA non codificante, che era stata definita in modo sbrigativo e piuttosto presuntuoso come “DNA spazzatura”, di cui si stanno cominciando a scoprire importanti funzioni di regolazione dell’espressione dei geni. La flessibilità del genoma, capace di formare numerose proteine partendo da un numero piuttosto ristretto di geni, e la complessità delle relazioni tra i vari elementi che costituiscono il patrimonio genetico richiamano in causa il ruolo dell’ambiente, sia fisico che sociale, nel corso dello sviluppo di ciascun individuo, dal concepimento fino alla morte.

1.3. L’altruismo e la socialità positiva umana

La ricchezza e complessità della vita sociale umana e l’assenza di rigide determinazioni comportamentali obbligano a considerare l’altruismo nel più vasto contesto della socialità umana; senza questa collocazione più ampia, che non limita l’analisi al vantaggio genetico, esso non può essere compreso. In specifico, l’altruismo va considerato nell’ambito della socialità positiva, cioè della capacità umana di stabilire rapporti costruttivi, e non solo oppositivi oppure strumentali, con i propri simili. Questo perché l’altruismo non è che un aspetto della più generale attitudine degli esseri umani a stabilire legami con gli altri, occuparsi di essi, comprendere che cosa essi provano, entrare in sintonia, costruire qualcosa di importante insieme agli altri. Aiutare gli altri mettendo in secondo piano il proprio interesse è quello che tutti noi, in misura maggiore o minore, facciamo quotidianamente nei rapporti d’amore e d’amicizia, che non esisterebbero senza la disponibilità a rinunciare a qualcosa di sé a vantaggio degli altri. Crescere i figli, mantenere un legame d’amore o d’amicizia, lavorare insieme per un ­risultato importante: sono tutti obiettivi che non possono essere raggiunti senza la capacità di andare verso gli altri e dare loro qualcosa di noi, della nostra disponibilità e del nostro tempo, sapendo che noi stessi non possiamo vivere al di fuori di questi rapporti. Ma anche nei confronti delle persone estranee siamo legati da fili molto stretti, benché meno visibili e più impersonali. Per esempio, quando prendiamo il treno o entriamo come pazienti in un ospedale, ci affidiamo a persone sconosciute, che talvolta non vedremo mai, dalle cui azioni responsabili e dal cui impegno professionale a nostro favore dipendono la nostra sicurezza e spesso la nostra stessa vita.
Per questo, nel parlare di altruismo, occorre ­sempre tenere conto della complessità delle relazioni che si stabiliscono sia all’interno della famiglia e del piccolo gruppo, sia della società più allargata. In queste relazioni l’altrui­smo non è spiegabile solo in termini di reciprocità diretta, riassumibile nella formula “io aiuto te e tu aiuterai me”. L’altruismo umano, nella grande maggioranza dei casi, chiama in causa la reciprocità indiretta: “io aiuto te e qualcun altro aiuterà me”. In realtà si tratta di una scommessa, sulla quale non vi è mai certezza. Essa è resa possibile sia dalle specifiche capacità cognitive umane, che permettono di andare oltre il presente e l’interazione faccia a faccia, grazie all’uso del linguaggio e dei simboli, sia dalla straordinaria ricchezza della vita sociale. Ne deriva che la relazione con l’altro non è spiegabile in termini di costi o benefici presenti o futuri, e tanto meno come secca alternativa tra perdita e guadagno, ma rimanda a un ricco intreccio di rappresentazioni e aspettative, sia individuali che sociali, all’interno di una cultura. Di conseguenza, l’azione altruistica può anche essere del tutto gratuita e priva di alcuna possibilità di reciprocità, come avviene in chi consapevolmente dà la propria vita a favore di un altro.
È dunque alla complessità della socialità umana che occorre fare riferimento per comprendere l’altruismo, che si realizza nell’incontro tra due persone, tra un sé e un altro, con la loro storia e le loro attese. Il limite insuperabile di modelli teorici – che hanno avuto peraltro molta fortuna, come la teoria dei giochi e il “dilemma del prigioniero” – nel considerare l’altruismo e la cooperazione risiede sia nel restringere l’analisi a interazioni molto semplificate e del tutto innaturali, sia in un presupposto teorico di razionalità economica e utilitaristica, avulsa dalla realtà della vita emotiva e sociale degli esseri umani. Come è noto, la teoria dei giochi analizza attraverso modelli matematici le decisioni razionali che consentono di ottenere il massimo beneficio, tenuto conto del comportamento dell’avversario, in una situazione di conflitto in cui agiscono due o più attori, definiti giocatori. Queste situazioni possono configurare giochi cooperativi, in cui i partecipanti possono accordarsi per programmare strategie congiunte, oppure giochi non cooperativi, in cui non è possibile un accordo preventivo per adottare la strategia più vantaggiosa per entrambi. Il dilemma del prigioniero è il più conosciuto esempio di teoria dei giochi; in esso due prigionieri, entrambi sospettati di un crimine, devono decidere se confessare o non confessare, senza conoscere la scelta fatta dall’altro e correndo il rischio di diversi anni di detenzione (per esempio, se uno confessa e l’altro non confessa, chi non ha confessato sconterà 10 anni mentre l’altro sarà libero; se entrambi non confessano, saranno condannati a un solo anno; se invece confessano entrambi, la pena da scontare sarà di 5 anni di carcere).
Nonostante la loro popolarità, l’analisi di queste situazioni artificiali e semplificate non è nemmeno lontanamente capace di rendere ragione dell’altruismo e della socialità positiva negli esseri umani. È quindi alla concreta realtà delle relazioni sociali, al loro intreccio di emozione e cognizione nelle specifiche situazioni di vita, lungo tutto il ciclo della vita stessa, che bisogna fare riferimento. Se si assume questa prospettiva, con il concorso necessario di discipline diverse, ci si rende conto che la scommessa dell’altruismo, per quanto rischiosa perché non sempre ricompensata, è a tal punto necessaria nella vita sociale che gli esseri umani sono dotati di specifiche predisposizioni biologiche che la favoriscono, di cui parleremo diffusamente nei capitoli 3 e 4.

1.4. I diversi volti della socialità positiva

I comportamenti che vengono comunemente raggruppati sotto questa etichetta sono moltissimi e molto articolati: dalla capacità di stabilire legami di affetto duraturi al saper condividere le emozioni degli altri, dall’attenzione per la loro sofferenza all’aiuto nei loro confronti, dall’agire altruistico al cooperare per un fine comune. Sono comportamenti diversi tra loro ma per molti aspetti intrecciati, e queste caratteristiche fanno allo stesso tempo la ricchezza e il limite di questa definizione. Infatti sotto un’etichetta così ampia rischia di affastellarsi una grande massa di conoscenze differenti, provenienti da svariate discipline e che riguardano comportamenti diversi, i quali a loro volta chiamano in causa processi molto differenziati. Il risultato può essere la dispersione dell’analisi in una miriade di specificazioni molto minuziose. Se queste ultime interessano lo studioso che ha la necessità di meglio comprendere i fenomeni e di definirli con precisione, esse appassionano assai meno la persona comune. Quest’ultima è interessata a comprendere le articolazioni principali e le connessioni tra le conoscenze, in modo da avere un quadro unitario che risulti chiaro sul piano teorico e utile su quello pratico, vista la rilevanza del tema nella vita di ciascuno.
Ad aumentare la difficoltà, per il lettore comune, contribuisce l’uso di definizioni espresse con un linguaggio lontano da quello quotidiano, spesso derivato dall’inglese, che è diventato ormai la lingua universale per i ricercatori, non solo nel campo delle scienze biologiche ma anche in quello delle scienze umane. Per esempio, il termine prosocialità, così usato in letteratura per designare comportamenti diversi attuati a favore degli altri, non è presente nel vocabolario italiano e non si ritrova nemmeno nei dizionari più aggiornati. A fronte di questa frammentazione e scarsa comprensibilità, la socialità negativa si presenta invece in modo molto chiaro e ben identificabile: termini come aggressione o violenza sono ben noti a tutti ed è chiaro a che cosa si riferiscono. Gli aspetti più negativi della socialità umana rischiano così di apparire più veri e reali, a scapito di quelli positivi, che sembrano erroneamente più oscuri e fumosi.
È quindi necessario chiarire anzitutto, a grandi linee, quali sono i principali comportamenti che cadono sotto la definizione di socialità positiva. Anche se non tutti saranno presi in esame in questo libro, che altrimenti diventerebbe un tomo ponderoso, è necessario averne una panoramica generale.

I legami di attaccamento, affetto, amore, amicizia

Un primo importante ambito della socialità positiva riguarda le relazioni di affetto e attaccamento che gli esseri umani stabiliscono con i propri simili. Come vedremo, l’essere umano è capace di legami profondi con gli altri, che non sono motivati dalla sessualità e non derivano da essa. Non ci occuperemo in modo specifico dei legami d’affetto o di amicizia, ma vi faremo riferimento frequente, per diversi motivi. In primo luogo perché è stata proprio la scoperta dell’esistenza di una socialità primaria nel legame di attaccamento tra madre e figlio, indipendente dalla sessualità, a mettere al centro della teo­rizzazione e della ricerca la capacità umana di stabilire con gli altri legami profondi, individualizzati, duraturi e “gratuiti”. In secondo luogo, moltissimi dei comportamenti che favo­riscono rapporti positivi e d’aiuto con i nostri simili sono derivati proprio dalla relazione con le figure di attaccamen­to e dai legami parentali; questa trasformazione è avvenuta lungo l’evoluzione filogenetica, cioè lungo quel processo evolutivo che ha portato allo sviluppo delle diverse specie, uomo compreso. Inoltre, le persone cui siamo affettivamente legati sono i destinatari privilegiati dei comportamenti d’aiuto, che risultano nei loro confronti più facili e più frequenti.

La condivisione di emozioni, sentimenti, pensieri, intenzioni

Un secondo importante ambito della socialità umana riguarda quella che si può genericamente definire come la capacità di entrare in relazione con la soggettività altrui, fatta di emozioni, sensazioni, affetti, intenzioni, pensieri. Si tratta in particolare della capacità di fare proprie le emozioni degli altri, di condividerne gli stati d’animo, le preoccupazioni e anche le sofferenze. Tratteremo in modo approfondito nei capitoli seguenti questi aspetti, che sono chiamati in causa in modo specifico nel comportamento d’aiuto, così come nella cooperazione. Si tratta in realtà di modalità assai differenziate, che vanno dalla tendenza imitativa innata e dal contagio fino all’empatia più evoluta e alla rappresentazione di ciò che gli altri pensano. Queste capacità si accompagnano a compassione, pietà, preoccupazione per gli altri, ma anche a disagio personale e a vera e propria sofferenza: tutte risposte che sono coinvolte nel comportamento d’aiuto così come nell’indifferenza.

Comportamento prosociale, aiuto, altruismo

Un terzo ambito della socialità positiva riguarda le azioni che hanno lo scopo di arrecare agli altri volontariamente, e quindi senza alcuna costrizione, un beneficio. Mentre nella letteratura esse sono designate sia come comportamenti prosociali che come altruismo, nella lingua comune si parla piuttosto di aiuto e altruismo.
In realtà nella stessa letteratura psicologica la definizio­ne di altruismo non è univoca. Secondo alcuni non sarebbe corretto parlare di comportamento altruistico, perché l’altruismo sarebbe una motivazione: in specifico, la motivazione ad accrescere il benessere di un’altra persona, contrapposta a quella egoistica, volta ad accrescere il proprio benessere. Le motivazioni di un’azione sono però difficilissime da individuare e distinguere, anche perché spesso non sono chiare nemmeno a chi la attua; di conseguenza valutare la motivazione altruistica di un comportamento può rivelarsi impossibile. C’è poi un’altra ragione che consiglia di centrare l’analisi non sulla motivazione bensì sull’azione: è quest’ultima a essere significativa per chi riceve aiuto, e non le ragioni che le stanno dietro. In altri termini, conta che chi aiuta lo faccia in modo tale da arrecare un reale beneficio alla persona bisognosa, indipendentemente dai mille motivi che possono averlo portato a intervenire. Com...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Perché scrivere di altruismo
  2. 1. Altruismo e socialità positiva
  3. 2. “Homo homini lupus”?
  4. 3. I geni altruisti
  5. 4. Provo ciò che provi e so ciò che pensi
  6. 5. Rispecchiamento, condivisione e socialità positiva
  7. 6. Le condizioni che favoriscono l’altruismo
  8. 7. Piccoli altruisti crescono
  9. 8. Altruismo e felicità
  10. 9. In conclusione
  11. Bibliografia