La Commedia dell'Arte
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La Commedia dell'Arte

Genesi d'una società dello spettacolo

  1. 272 pagine
  2. Italian
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La Commedia dell'Arte

Genesi d'una società dello spettacolo

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La Commedia dell'Arte è la forma di spettacolo più prestigiosa e più duratura che la storia del teatro italiano possa vantare. A ricostruirne con chiarezza nascita, caratteri, sviluppi e diffusione è, in questo libro, uno dei massimi esperti a livello mondiale. Al lettore viene così offerta l'opportunità di confrontarsi con un patrimonio di testimonianze e di documenti che, accompagnandone le diverse fasi e i molteplici esiti performativi, permettono di ricostruire i tratti distintivi del fenomeno: la nascita del professionismo scenico, la comparsa della donna-attrice, il sorgere del divismo, le maschere, l'improvvisazione. Ne scaturisce un'inedita interpretazione che, attraverso l'analisi delle reazioni del pubblico, vede nella Commedia dell'Arte la manifestazione in cui affiorano i primi segni evidenti della civiltà dello spettacolo e dell'immagine entro cui noi viviamo immersi.

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Informazioni

VI. Segreti di uno spettacolo in bilico tra arte e mestiere

1. Due immagini riflesse della messinscena: re-citazione e improvvisazione

Giovanni Ambrosio Marini, autore di uno dei più fortunati romanzi del Seicento – Il Calloandro fedele – decide, nel 1655, di ricavarne una sorta di adattamento teatrale, il cui testo verrà pubblicato a Genova l’anno successivo con il titolo Il Calloandro fedele, tragicomedia, e sarà introdotto da una premessa A chi legge; dove l’autore racconta che la versione drammatica, appena composta, era stata affidata a una compagnia di comici professionisti in tournée a Genova perché la recitassero:
Per sapere com’ella riuscisse, basti sapere che in scena talun de’ comici, col pretesto d’aver poca memoria, componeva da sé d’improviso, procurando di ritenere alla meglio, per non dire alla peggio, il senso e la sostanza, e altri avea trasportata la parte toscana in bergamasco, o in altra sua lingua più adatta a muover negli uditori il riso, che altri più serii affetti. Or pensa tu, o lettore, se la dicitura dovea riuscir limata, e se i pensieri potean mantenere la loro gaiezza e forza [...]. Ciò osservando alcuni miei amici [...] mi consigliarono a lasciarla venir alle stampe, dicendo che, essendo già la copia in mano de’ comici prezzolati, i quali per l’Italia di mano in mano come opera nuova l’anderebbono recitando, ne seguirebbe che ogni compagnia di comici avrebbe accomodate le parti al suo dosso, e mezza sconvolta, tramandandola ad altri, e questi, anche maggiormente svisandola, l’avrebbon ridotta in poco tempo ad una tale defformità che mai potrebbe più ravvisarsi la sua effigie primiera239.
Marini, dunque, dichiara di aver dovuto dare alle stampe la versione originale della sua “tragicomedia” sia per reagire allo scempio da essa subito alla prima rappresentazione sia per impedire che continuasse a cadere vittima d’un (a quanto sembra) inveterato malvezzo di molti mestieranti della scena nei confronti del cosiddetto “bel disteso”: trasformarlo radicalmente, vuoi adattandolo alla comicità e alle scelte linguistico-espressive più abituali per quanti dovrebbero recitarlo, vuoi sconciandolo con un tipo di improvvisazione che si limita a riproporne in termini molto approssimativi, se non addirittura fuorvianti, “il senso e la sostanza”.
Si farebbe fatica a pensare che compagini come quelle dei Gelosi o dei Fedeli, nei non frequentissimi casi in cui affrontavano scelti exempla di drammaturgia scritta, potessero mai abbandonarsi a simili eccessi. Però, come afferma il Capitano di Andreini già nel 1607, “di quelle compagnie non se ne trovano più”. E, comunque, la disavventura toccata in sorte al Calloandro fedele potrebbe essere ricondotta a quell’aspetto double face dell’improvvisazione su cui si sofferma, attorno al 1730, l’attenzione di Luigi Riccoboni:
Non vi fu mai chi più di me avesse in odio la stravagante usanza di recitar comedie a l’improvviso e chi forse più di me si sia servito di questo comodo. Per un comico diligente, morigerato e non affatto ignorante, confesso che l’invenzione non è pericolosa servendogli anzi di stimolo per ben parlare e per erudirsi. Ma io l’ho sempre abborrita poiché per esperienza ho conosciuto che al comico ignorante e scostumato [...] l’uso di recitare a l’improvviso gli serve di facilità per studiar solamente come inserire ne’ suoi discorsi qualche oscenità240.
Se esiste un impiego formativo e virtuosistico del “recitare a l’improviso”, che appartiene al comico savio e artisticamente impegnato, esiste anche un suo utilizzo che serve in misura affatto strumentale o per eludere le fatiche dello “studiar” seriamente una parte (studio mnemonico d’un testo, oppure studio creativo d’una drammaturgia che si compone solo sulla scena: a seconda dei casi) o per soddisfare la comoda pretesa di introdurre a piacimento entro qualsiasi contesto drammaturgico soluzioni tanto corrive quanto di facile effetto. L’esito cui andò incontro la prima del Calloandro fedele, e che minacciava di ripetersi nel caso di sue eventuali repliche da parte di altre compagnie, sarebbe dipeso appunto da questo secondo aspetto dell’improvvisazione. E andrebbe attribuito al generale status d’un mondo dello spettacolo dove – all’altezza di metà Seicento, ma forse anche in altre epoche – non era certo raro imbattersi in troupe composte da comici “ignoranti” e “scostumati”.
Già Domenico Ottonelli, del resto, aveva sottolineato con forza che “col dire improvisamente”, se da un lato risulta possibile attingere alle vette d’un “recitare libero, naturale e grazioso”, dall’altro “si fugge molto la fatica da’ negligenti” e “si fomenta molto la natura viziosa di que’ comici che sono poco inclinati a voler dilettare con l’onesto della virtù”241. Sulla scorta di simili testimonianze, dunque, ci sembra più che ovvio concludere che, durante tutta la storia bicentenaria del mercato dello spettacolo inaugurato dalle fraternali compagnie, siano sempre esistite due grandi tipologie dell’improvvisazione: quella che, esercitandosi su testi scritti, mirava soprattutto a sopperire a più o meno colpevoli défaillances di memoria dovute al caso o a vera e propria “negligenza”; e quella che, lavorando vuoi su di un copione di drammaturgia regolare vuoi sulla traccia schematica del soggetto, traduceva scenicamente le indicazioni dell’uno o dell’altra nei termini propri d’un modello riproducibile strutturato sulla compresenza di maschere, di parti fisse, di polifonia fondata su stilizzazioni di vari codici linguistici, di trovate comiche d’un repertorio vocale e gestuale i cui esiti spaziavano (per dirla in termini secenteschi) tra il “grazioso” e l’“osceno”.
Si può ben immaginare – e il caso del Calloandro fedele sembrerebbe confermarlo esemplarmente – che in moltissimi casi una simile traduzione risultasse mero effetto d’una sorta di forza d’inerzia cui gli attori si abbandonavano per routine e per comodità, riducendo il modello a semplice stereotipo che o si sovrappone al testo o funge da scontato riempitivo della trama disegnata su di un canovaccio. Ma sarebbe davvero pretestuoso spingersi a negare che essa abbia generato, nei suoi esiti migliori, un particolarissimo modus operandi drammaturgico, dove la creazione teatrale si attua sulla scena senza manifestarsi come re-citazione d’un testo organico scritto parola per parola. Qui, il pre-meditato non consiste in esternazione interpretativa di catene di dati appresi a memoria, bensì in un’arte della memoria capace di ricomporre certi suoi scelti contenuti in una sintesi “all’improvviso”.
Riferendosi solo a quest’ultima accezione di un termine quantomai ambiguo e sfuggente, un addetto ai lavori del calibro di Luigi Riccoboni – attraverso le pagine della Histoire du Théâtre Italien (1728) – ci offre una tarda ma efficace sintesi delle motivazioni pratiche, della specifica valenza espressiva e delle difficoltà che caratterizzano una tecnica performativa da lui definita come tipica delle generazioni di attori succedutesi dopo il 1545:
L’improvvisazione permette una variazione nel recitare, di modo che, anche se si vede più volte lo stesso canovaccio, si può vedere ogni sera una diversa rappresentazione. L’attore che recita all’improvviso recita in maniera più vivace e più naturale di quello che recita una parte imparata a memoria: è più facile sentire e quindi si dice meglio quel che si è composto da sé, che non quel che si prende dagli altri con l’aiuto della memoria. Ma questi vantaggi della commedia recitata all’improvviso sono pagati da molti inconvenienti: essa richiede attori ingegnosi e più o meno ugualmente bravi, perché lo svantaggio dell’improvvisazione consiste nel fatto che la recitazione del miglior attore dipende assolutamente da colui con cui dialoga: se si trova con un attore che non sa cogliere con precisione il momento della replica, e che l’interrompe a sproposito, il suo discorso langue e la vivacità dei suoi pensieri viene soffocata242.
Fare teatro in una prospettiva dominata dal principio di improvvisazione significa dunque, se si interpreta questo principio non quale mero espediente di comodo, partire dall’imprescindibile presupposto di far compagnia seguendo un ideale di organico fondato tanto sul buon livello paritetico degli attori componenti quanto sul loro affiatamento. Significa, ancora, pretendere che ogni comico sappia sempre coltivare la viva consapevolezza d’essere lui a comporre in termini creativi la figura della cui vita scenica si è fatto carico, rendendosi in tal modo co-autore responsabile dell’intero spettacolo. Si tratta di due premesse irrinunciabili, che, se da un lato schiudono l’alta possibilità di un recitare diversamente vibrato (carico di maggior energia: perché avvertito nell’intimo come un qualcosa di proprio), dall’altro vanno pur sempre considerate – con schietta aderenza al reale – soluzioni utili anche sul piano di una sana economia di gestione attenta alle specificità del mercato: se non servirà certamente a far sembrare ogni sera nuovo l’identico canovaccio, l’improvviso permetterà comunque di presentare quali prime assolute tutte le ben studiate varianti d’un certo schema-modello di scenario. Non a caso Ottonelli, dopo aver lodato il “recitare libero, naturale e grazioso” dei professionisti scenici, si premura di postillare, con una punta di malizia: “Certo, se i mercenari attori imparassero a mente il testo come imparano per lo più gli Accademici recitanti, e dicessero ex scripto, secondo lo scritto, [...] non potrebbero recitare ogni giorno diverse azioni”243.
È proprio l’accostamento in parallelo del fare teatro tipico dei dilettanti accademici e di quello abituale ai comici di mestiere la scelta compositiva cui si affida il virtuosistico gioco di mises en abyme realizzato – a livello di “bel disteso” – dalle Due comedie in comedia di Giovan Battista Andreini. Recitata per la prima volta a Venezia nel 1623 in prossimità della Festa della Sensa, ed edita nello stesso anno, l’opera prevede che la seconda performance da rappresentare entro lo sviluppo della fabula venga allestita da una compagnia i cui membri sono evidenti ritratti di veri attori dei Fedeli. Tra di essi, che nella finzione si definiscono comici Appassionati, compare addirittura – sostenendo il ruolo d’un Pasticcere francese impegnatissimo a storpiare comicamente vocaboli italiani – Flaminio Scala, che si svela da ultimo al pubblico per dichiararsi pronto a trarre, dalle vicende della finzione cui ha partecipato e da quelle ‘vissute’ dai protagonisti del lavoro andreiniano, uno scenario di rara bellezza:
Io, che ho fatto stampar molte Comedie (non son più Pasticciero, son Flaminio Scala) con titolo di Theatro delle favole rapresentative prometto, per questo nobil caso, tessere intrico così raro, e pellegrino ch’a tutti gli altri torrà il vanto, e per tutto il mondo celebre splenderà come il sole244.
D’altro canto, il drammaturgo responsabile del testo su cui si fonda la messinscena allestita dai dilettanti accademici – Mirindo – agisce sotto le mentite spoglie di Lelio (nome d’arte di Giovan Battista Andreini). Ed è ancora lo stesso Mirindo-Lelio a rendersi, sia pure in piccola parte, co-autore della trama allestita dagli attori professionisti, proponendo loro di inserire nel suo sviluppo “un certo scherzo che sarà di gusto indicibile”245.
Il “bel disteso” che verrà recitato dai membri della veneziana Accademia dell’Incerta Speranza possiede (a differenza del canovaccio senza nome proposto dai mestieranti) l’eloquente titolo di Commedia di fine incerto246. Attorno al genere di teatro cui esso dovrebbe appartenere, si apre un breve battibecco tra attori e spettatori mascherati, allorché la protagonista femminile sembra infrangere la finzione rivelando al pubblico autentici segreti di suo padre Rovenio:
rovenio Signori con licenza io sono in casa mia. Ah sfacciata presuntuosa, e così tieni segrete le cose del Padre? Ti voglio ammazzare.
lidia O poverina me.
maschera 1 Olà che voleu far Rovenio? Fermeve la.
maschera 2 A sto muodo voleu de Comedia ridicolosa, far Tragedia pianzosa; moia, moia.
lelio Eh Signore che questa è Commedia d’Incerto...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. È esistita la Commedia dell’Arte?
  2. I. In principio erat verbum (davanti a notaio)
  3. II. Un’etichetta ambigua, molte fenomenologie chiare
  4. III. Tre sguardi su spettacoli di magia e prostituzione
  5. IV. Messinscene a stampa d’un pensiero di attore
  6. V. Contrabbandi e provocazioni: tracce di repertorio
  7. VI. Segreti di uno spettacolo in bilico tra arte e mestiere
  8. VII. Lo spettro della Commedia dell’Arte: mitologie, restauri e re-invenzioni