Il cinema americano classico
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Il cinema americano classico

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Il cinema americano classico

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Il cinema americano classico, la cosiddetta 'età dell'oro di Hollywood', ha avuto un impatto enorme sulla vita sociale e culturale del Novecento. Dalle star americane intere generazioni hanno imparato come pettinarsi, come baciare, come fumare. Questo libro offre un'introduzione alla storia di quella stagione irripetibile e ne studia i nodi di fondo, dall'assetto industriale al sistema dei generi, dal modello linguistico-formale al divismo. Un percorso affascinante che si snoda attraverso l'analisi in profondità di alcuni film particolarmente significativi.

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VII.
Autori a Hollywood.
Orson Welles e «Quarto potere»

1. Il contesto. Norma ed eccezione: un iconoclasta a Hollywood

Il contesto produttivo che si è descritto nelle pagine precedenti e in generale l’intera organizzazione dello studio system del periodo classico si fondano dunque sull’idea di film come prodotto di uno sforzo collettivo, all’interno di una logica di catena di montaggio in cui a emergere come ruolo dominante è la figura del produttore, piuttosto che quella del regista. Seppure singole personalità registiche riescano a esprimere, di film in film, una poetica e uno stile coerenti e riconoscibili, il periodo che va dall’inizio degli anni Trenta, con l’avvento del sonoro, alla metà degli anni Cinquanta, vede il regista come «ingranaggio nella macchina» (sono parole di Selznick), esecutore di un progetto che viene deciso da altri, e artefice di un prodotto che in fase di montaggio può essere ulteriormente ridefinito dalla produzione. All’interno e sulla base di questo sistema, ogni studio, come si è visto, definisce una propria house aesthetic, vale a dire una propria cifra estetica, che si fonda su una specifica combinatoria di ingredienti che sostanzialmente confermano la coerenza e la compattezza della logica dei generi a livello narrativo, del meccanismo divistico e, a livello stilistico, della relativa stabilità ed equilibrio del découpage fondato sulla continuità. Eccezioni e differenze muovono più sul meccanismo delle variazioni sul tema che non su effettive devianze dalla norma. Il sistema produttivo e rappresentativo hollywoodiano di questi anni è quindi, in generale, piuttosto omogeneo e tendente alla standardizzazione sul piano narrativo-tematico, come su quello tecnico-stilistico.
Se nel 1936 nasce la Screen Directors Guild (sdg), come associazione di categoria il cui obiettivo è di rivendicare una maggiore autonomia dei registi a fronte dello strapotere dei produttori1, il regista Frank Capra, presidente dell’associazione, tre anni più tardi pubblica, in una lettera aperta al «New York Times», il seguente bilancio:
Per tre anni abbiamo cercato di avere due settimane di preparazione per i film di serie A, una per quelli di serie B, e la supervisione almeno della prima fase di montaggio. [...] Abbiamo solo chiesto che al regista sia consentito leggere il copione del film che dovrà dirigere, e montare il film, sia pure in forma non definitiva. [...] Per questo ci sono voluti tre anni di lotta. Direi che oggi l’ottanta per cento dei registi gira le scene esattamente come viene detto loro di girarle, senza alcuna variazione, e che il novanta per cento non ha voce in capitolo né sul soggetto, né sul montaggio2.
E, del resto, se da un lato lo stesso Capra, forte del prestigio e della fama assicuratigli innanzitutto dai ben cinque Oscar guadagnati dal suo Accadde una notte (It Happened One Night, 1934) qualche anno prima, muoveva queste rivendicazioni ‘autoriali’ per il ruolo del regista, dall’altro condivideva appieno i principi stilistici e narrativi del sistema hollywoodiano. Come dimostra la sua regia e come attestano precise dichiarazioni in merito («Il pubblico non deve mai rendersi conto che ci sia una macchina da presa nel giro di mille miglia»)3, l’esigenza di una, peraltro relativa, autonomia espressa ufficialmente come presidente della sdg non si poneva in alcun modo come ipotesi alternativa o sovversiva dell’estetica classica, ma semmai come ipotesi di discussione tutta interna al regime produttivo. Sono molti i registi che, in questo periodo, si identificano e amano identificarsi perfettamente con lo stile della trasparenza e della invisibilità espresso dalla macchina produttiva hollywoodiana. George Cukor, per esempio, come ricorda Gandini, dichiarava esplicitamente: «Nel mio caso lo stile di regia deve perlopiù coincidere con un’assenza di stile»4.
È precisamente in questo contesto che ogni diversa accezione di ‘autorialità’, irrispettosa della logica complessiva di un sistema che ne rifiuta la dimensione singolare e individuale, non poteva che apparire, ed essere, esplicitamente e violentemente iconoclasta. Ed è, infatti, proprio in termini di iconoclastia che Martin Scorsese, nel suo Viaggio personale nel cinema americano, definisce l’esperienza hollywoodiana di Orson Welles, iniziata prepotentemente proprio nel 1939 e inevitabilmente destinata a interrompersi molto presto5. «L’enorme personalità di Orson Welles non poteva adattarsi per lungo tempo alla disciplina di Hollywood», dirà il regista francese René Clair6. La sua esigenza di ‘autorialità’ e di individualità artistica e creativa si poneva in effetti in antitesi assoluta con la serializzazione produttiva e la standardizzazione di Hollywood, come il giovane regista («il più giovane degli iconoclasti», con le parole di Scorsese) ebbe a dichiarare in un articolo del 1941, poco dopo la fine delle riprese del suo primo film, Quarto potere (Citizen Kane):
Per favore, cercate di capirmi, io credo che un film abbia bisogno di un capo. Si può dire che non esista un film di rilievo che non sia stato fatto [...] da un uomo. Quest’uomo è stato il produttore, poteva essere lo scrittore, è stato il regista, come dovrebbe essere sempre [...]. Questa personalità dominante è, nell’arte cinematografica, essenziale. Quando è assente, il film è semplicemente il prodotto di vari dipartimenti dello studio, dal costruttore del set all’artefice dei dialoghi, ed è insignificante come qualsiasi merce prodotta in serie7.
L’autonomia e la responsabilità creativa di cui parla Welles fanno esplicito riferimento a un’idea di ‘autore’ individuale e singolare che non poteva che entrare in forte frizione con la macchina hollywoodiana dopo che, nel 1939, per una serie di circostanze straordinarie, la rko gli aveva concesso un contratto del tutto eccezionale che doveva garantire al ventiquattrenne Welles proprio quell’autonomia che gli consentirà di realizzare, tra polemiche, battaglie e scandali, un film del tutto eversivo rispetto ai canoni hollywoodiani. Un film destinato a risultare eccessivo ed eccedente da tutti i punti di vista, produttivo, narrativo, stilistico ecc., ma anche a porsi, tra querelles e celebrazioni che proseguiranno nel tempo, come film wellesiano, cioè come film d’autore’ a pieno titolo: un fim capace di interessare fortemente la riflessione sul cinema e la pratica stilistica della modernità, a partire dalla centralità che Quarto potere assumerà all’interno della politique des auteurs e dell’idea di cinema proposta dalla generazione di critici e registi da cui avrà origine, alla fine degli anni Cinquanta, la Nouvelle Vague francese e più in generale una buona parte dell’estetica cinematografica postclassica. Insieme al riferimento al cinema di Jean Renoir, di Roberto Rossellini e del neorealismo italiano, a uno studio attento dei film di registi hollywoodiani come Howard Hawks, Nicholas Ray, Alfred Hitchcock e altri, considerati a pieno titolo autori, l’opera di Welles, a partire da Quarto potere, viene a nutrire una nuova concezione di cinema che vede nella scrittura filmica, nell’uso della macchina da presa paragonata alla penna di uno scrittore e quindi di un autore, la possibilità di esprimere una poetica coerente e personale, oltre l’invisibilità e l’appiattimento che, sulle pagine di una rivista militante come i «Cahiers du cinéma», vengono imputate non solo al cinema hollywoodiano di serie, ma anche al cosiddetto cinéma de papa francese, cioè il cinema della generazione precedente. La visibilità e l’‘eccessività’ della scrittura e della poetica wellesiana diventano, per critici e registi come André Bazin, François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol e altri, manifesto di un cinema in cui, come sottolinea Bazin riferendosi a Welles, innanzitutto «lo stile crea il senso»8.

La nozione di «autore» al cinema

Il termine designa una nozione complessa e ambigua, suscettibile di acquistare significati e pertinenze diverse a seconda della prospettiva storica e metodologica che si assume, e che interessa inoltre a diversi livelli, fra loro intrecciati, problemi di ordine istituzionale, critico-teorico e legati all’asse realizzazione-consumo.
Nel caso del cinema, la stessa accezione più immediata e intuitiva di «autore» appare problematica, prestandosi a possibili equivoci e fraintendimenti. Posto, infatti, che la realizzazione di un film si basa, in generale, su un processo di produzione molteplice, in cui diversi apporti e contributi concorrono al risultato finale (dal soggetto alla sceneggiatura; dall’allestimento del set, della scena, alle riprese; dal montaggio al missaggio ecc.), è legittimo considerare il solo regista come l’«autore» del film? Oppure, piuttosto, il titolo spetta allo sceneggiatore? Senza contare il ruolo degli interpreti (spesso identificati dal pubblico come il marchio distintivo del film: «un film di Marilyn», «un film di Marlon Brando») o, in determinati contesti storici e produttivi, quello del produttore. Inoltre, le stesse maestranze tecniche forniscono un contributo spesso decisivo alla qualità del film. Tuttavia, se il titolo di autore si riferisce a un progetto espressivo riconoscibile, a una comunicazione di idee e alla proposta di una peculiare visione del mondo attraverso un film, non è senza ragioni che la pratica corrente lo assegna al regista. Piuttosto, si può distinguere un «cinema d’autore», in cui autore e regista tendono in questo senso a coincidere, da generi, correnti, momenti della storia del cinema in cui si impone una strategia produttiva che fa del regista l’esecutore più o meno personale e inventivo di un progetto che decide ad altro livello il suo senso, la sua logica, il suo funzionamento, e l’accento viene posto via via sul divo, sul genere ecc. In questa prospettiva, il problema dell’autore, dunque, coinvolge innanzitutto il lato istituzionale, per riflettersi immediatamente su quello realizzativo e sulla pratica del consumo. In linea generale si può affermare che fino agli anni Cinquanta realizzazione e consumo si appoggiano principalmente sullo star-system e, più o meno esplicitamente, sulla strategia dei generi, mentre solo a partire dagli anni Sessanta si produce e si consuma un cinema propriamente «d’autore». Tuttavia, dal punto di vista critico-teorico, la nozione di autore, insieme a quella complementare di «opera», in riferimento alla personalità stilistica, espressiva, tematica del regista, si è imposta nella storiografia del cinema tradizionale e, più o meno sotterraneamente, percorre...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. I. L’apparato produttivo. «Il mago di Oz»
  3. II. Lo stile classico. «Casablanca»
  4. III. Ideologia e storia nazionale. «Sentieri selvaggi»
  5. IV. I generi e l’universo narrativo: la commedia. «La signora del venerdì»
  6. V. I generi e l’universo narrativo: il noir. «Vertigine»
  7. VI. Lo «star system». «Quando la moglie è in vacanza»
  8. VII. Autori a Hollywood. Orson Welles e «Quarto potere»
  9. VIII. Il cinema d’animazione. Walt Disney e «Biancaneve e i sette nani»
  10. Cronologia Cinema, società e cultura in America 1927-1969
  11. Bibliografia essenziale