Anni spietati
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Anni spietati

Torino racconta violenza e terrorismo

  1. 208 pagine
  2. Italian
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Anni spietati

Torino racconta violenza e terrorismo

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Non c'eravamo e ce lo siamo fatto raccontare. Dai testimoni e dai protagonisti, ma soprattutto dal narratore più sincero, l'unico a possedere una memoria a tre dimensioni: la città, Torino, che c'era e quelle storie le ha conservate, nascoste tra i muri e l'asfalto. Un viaggio immaginario visivo e tattile, alla ricerca dei segni sulla pietra, di fronte alla vetrina sfavillante di un bar o nell'androne di un condominio. Chiudi gli occhi, li riapri di scatto e la città si ripresenta sotto le sembianze perdute degli anni Settanta, fino a che, a una a una, riemergono le storie di chi subì la più grande delle ingiustizie: non poter invecchiare.Torino, quartiere San Paolo. Via Francesco Millio è una strada anonima, attorniata da brutti condomini in stile anni Cinquanta. Non ci sarebbe molto da dire su via Millio, se non fosse per quella ammaccatura circolare al centro della saracinesca metallica di un negozio: l'impronta di un proiettile. È lì, immobile, dal 9 marzo 1979, il giorno in cui morì Emanuele Iurilli, studente, 18 anni. Per caso, senza un perché. Quella di Emanuele è solo una delle tante cicatrici incise nei muri di Torino. Anni spietati è un viaggio nella memoria nascosta per le strade di Torino, un racconto per luoghi della serie inattesa di mutamenti che possono toccare una città: austera 'company town' nel 1967, in lotta nell'autunno 1969, indifferente o distratta di fronte alle prime azioni di guerriglia urbana nella prima metà dei Settanta, atterrita e militarizzata tra il 1977 e il 1979 e – infine – artefice di una coraggiosa reazione. A Torino si celebra il 'processone' ai capi storici delle Brigate Rosse, a Torino si elabora la vittoria nazionale contro il terrorismo. In fondo, è una storia a lieto fine.Anni spietati booktrailer

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858117828
Argomento
Economics

Per un’indecifrata perfezione del caso

Torino, venerdì 9 marzo 1979, ore 13.30 circa. Un uomo chiama il 113 da un bar bottiglieria di Borgo San Paolo:
– Sì, Pronto?
– Buongiorno.
– Buongiorno.
– Senta, io qui ho preso un ragazzino di 17 anni che stava prendendomi l’autoradio...
– Sì.
– Eh, ce l’ho qui nel bar...
– Dove?
– Eh, in via Millio...
– Via?
– Francesco Millio.
– Millio?
– Sì, al 64/A.
– 64/A... va bene lo tenga e lo mandiamo subito a prendere.
– Sì, qui alla bottiglieria eh?
– Sì.
– Grazie.
– Prego...
L’ingiustizia più grande è non poter invecchiare. Se poi muori giovane, l’affronto è intollerabile. Non ci pensa, e perché dovrebbe, Emanuele, la mattina del 9 marzo 1979. Ha 18 anni, frequenta il quinto anno dell’Istituto tecnico aeronautico Carlo Grassi in via Paolo Veronese 305, a due passi da piazza Stampalia, periferia nord, brutta, ma brutta davvero – se non ci vivi e ci sei affezionato – di Torino.
La campanella suona alla fine delle lezioni. Forse gli studenti del Grassi non ne parlano più, ma di sicuro lo avranno fatto, a lungo. Pochi giorni prima, proprio nel bar di fronte alla scuola – quello dei cornetti, caffè e cappuccini prima, dopo e magari anche durante le lezioni – c’è stata una sparatoria, alle 11 del mattino, il 28 febbraio 1979, appena dieci giorni prima. Tra i banchi si sarà sentito nitidamente, le lezioni si saranno interrotte per il boato di spari e sirene. Chissà, forse Emanuele si sarà perfino sporto dalla finestra e all’uscita da scuola si sarà fermato dall’altra parte della strada per guardare le saracinesche abbassate del bar dell’Angelo, con tutta la polizia di fronte impegnata ad allontanare i curiosi con quelle parole, un po’ insensate, di circostanza: «Circolare, non c’è niente da vedere». Ma quella del bar trattoria dell’Angelo è una storia che arriverà. Tra un po’. Adesso interessa la mattina del 9 marzo, dieci giorni dopo.
Prima di tornare a casa, Emanuele si ferma a chiacchierare per qualche minuto con il preside dell’Istituto, il professor Antonio Maurella; poi, intorno alle 13.45 esce da scuola. Abita dall’altra parte della città, in Borgo San Paolo, e per arrivare a casa da piazza Stampalia deve prendere almeno due pullman. Non può sapere che, pochi minuti prima, è arrivata una telefonata al 113:
– Sì, Pronto?
– Buongiorno.
– Buongiorno.
– Senta, io qui ho preso un ragazzino di 17 anni che stava prendendomi l’autoradio...
Fa piuttosto freddo – la temperatura massima non supera i 10 gradi – e, dietro la condensa dei finestrini dell’autobus arancione, Emanuele può vedere la città scorrere sotto i suoi occhi durante quella mezz’ora che gli ci vuole per tornare a casa. È un giovane mite, taciturno, con quell’ironia meditabonda tipica di chi appartiene alle Langhe – i nonni materni abitano a Neive, vicino ad Alba – anche se ha sempre vissuto in città; proprio per questo ha scelto Beppe Fenoglio, uomo di Langa, come autore da portare all’esame di maturità. Pochi mesi e potrà festeggiare il diploma con il viaggio in Francia e in Belgio di cui da tempo parla con gli amici, e che forse occupa i suoi pensieri anche durante il tragitto in pullman; o forse, mentre l’autobus imbocca l’ultimo tratto di strada, pensa semplicemente al pasto che lo aspetta in tavola di lì a poco. Intorno alle 14.10, scende alla fermata di via Braccini. Pochi passi lungo via Lurisia e poi la svolta, a sinistra, per via Millio.
È un attimo.
Un inferno di colpi.
Qualcuno gli urla: «Buttati a terra». Emanuele cerca riparo tra una Fulvia Coupé e una Fiat 850 parcheggiate all’angolo, ma un proiettile di kalashnikov gli ha già trapassato il torace. Dal palazzo di fronte, un operatore amatoriale prende la cinepresa e filma gli ultimi secondi della sparatoria: un uomo – giubbotto di pelle e pistola alla mano – corre lungo via Millio. Poi il cineoperatore scende in strada e volge l’obiettivo ai primi soccorsi: Emanuele è riverso a terra tra il marciapiede e la strada, il volto schiacciato sull’asfalto. È ancora vivo quando i medici della Croce Verde lo caricano sull’ambulanza, ma non farà in tempo ad arrivare all’ospedale Molinette. Muore tra le braccia della madre Elvira, che dal balcone di via Millio 64/A, proprio sopra la bottiglieria, ha visto e sentito tutto. Sull’asfalto di via Millio rimane anche un agente di polizia gravemente ferito, l’appuntato Gaetano D’Angiullo, 31 anni. E poi vetri infranti e almeno settanta bossoli. Non è stata una rapina finita male, né una sparatoria improvvisa. È stata una vendetta fallita. Sul pavimento del bar bottiglieria di via Millio rimane un plico di volantini autoadesivi: «Che mille mani impugnino le armi dei compagni Carla e Charlie, caduti combattendo per il comunismo», due volti ciclostilati su sfondo bianco e una scritta, nera e maiuscola: PRIMA LINEA.
Il suono lancinante delle sirene squarcia la quiete della pausa pranzo del borgo. A pochi isolati di distanza da via Millio abita Diego Novelli, dal 1975 sindaco di Torino: «È successo proprio qui – ricorda Novelli, seduto nello stesso salotto di allora – a poche centinaia di metri da casa mia, in Borgo San Paolo. Il ragazzo che tornava da scuola, tra l’altro, era compagno di mio figlio. Stavo mangiando con mia moglie e mio figlio e ho sentito un mare di sirene; ho telefonato subito alla centrale dei vigili urbani e mi hanno detto: ‘C’è stato uno scontro a fuoco tra la polizia e un gruppo di terroristi’. ‘Dove?’. ‘In via Millio.’ Accidenti, ma è dietro a casa mia. Mi sono precipitato e avevano già portato via questo ragazzo che si era trovato in mezzo al fuoco tra la polizia e quelli di Prima Linea. Avevano organizzato un agguato, attirando gli agenti nel locale con un inganno. Come arriva la polizia a vele spiegate loro, dall’interno del bar, incominciano a sparare, la polizia risponde, questo ragazzo arrivava da scuola, svolta l’angolo, viene preso, colpito... Si chiamava Emanuele Iurilli e aveva 18 anni. Vado subito all’ospedale Molinette e lì, un ricordo terribile, drammatico: la mamma di questo ragazzo mi viene incontro e mi dice: ‘Adesso lei, signor sindaco, mi deve dare una ragione perché io possa continuare a vivere’».
Il professor Maurella – forse l’ultimo ad avere parlato con Emanuele – riceve una telefonata nel suo ufficio di presidenza. È la moglie, anche lei insegnante all’Istituto Grassi, a dargli la notizia: «Ha chiamato la madre di Iurilli: dice che il figlio è morto». «Impossibile, è stato con me fino a mezz’ora fa, abbiamo parlato a lungo...» Per il preside Maurella, il 9 marzo del 1979 è ancora un dolore intimo e profondissimo: «Quel giorno Emanuele è arrivato a casa con mezz’ora di ritardo rispetto al solito, e la colpa di quel ritardo è mia, in un certo senso. Questa è una cosa che mi ha creato dei problemi psicologici enormi, mi sono sentito quasi colpevole nei suoi confronti, perché dopo essere uscito dalla classe Emanuele era venuto in presidenza. La mia stanza era famosa per essere sempre aperta agli studenti. Lui era in quinta e all’epoca si faceva una tesina per la maturità; e così quel giorno viene da me e mi dice: ‘Io vorrei fare una tesi su Fenoglio perché mia madre è di Alba, è una maestra e ha anche conosciuto la famiglia di Fenoglio e quindi mi piacerebbe molto. Però in biblioteca non ho trovato nulla, in particolare vorrei Il partigiano Johnny. E io gli dico, va bene, te lo procuro, non ci sono problemi, anzi dato che io sono amico di Elisabetta Soletti, che è la più grande studiosa di Fenoglio, te la faccio conoscere e così magari ti può aiutare. E così abbiamo chiacchierato un po’ di questa passione comune per la letteratura. Lui tecnico e io pure, a parlare di Fenoglio per quasi mezz’ora». Una mezz’ora di ritardo che sarà fatale a Emanuele.
Che cosa è successo quella mattina in via Millio? Per capirlo bisogna fare un passo all’indietro di dieci giorni, al 28 febbraio 1979, in via Paolo Veronese, Madonna di Campagna, proprio di fronte all’Itis Carlo Grassi frequentato da Emanuele Iurilli. In Italia l’emergenza terrorismo è all’apice. Alcuni mesi prima a Roma è stato assassinato Aldo Moro; a Torino è ancora forte l’emozione per la morte dello studente Roberto Crescenzio, arso vivo nell’assalto a colpi di molotov in un bar di via Po 46. Nell’ex caserma Lamarmora di fronte alle Carceri Nuove – dove ancora è provvisoria la lapide che ricorda l’omicidio di Salvatore Lanza e Salvatore Porceddu, militari di leva assassinati dalle Br sotto la torretta del penitenziario – è da poco terminato il processo ai capi storici delle Brigate rosse.
Torino è una città militarizzata, scossa da violenze inedite e diffuse che nei primi mesi del 1979, tra il 6 gennaio e il fatidico 28 febbraio della sparatoria al bar trattoria dell’Angelo, raggiungono un’intensità senza precedenti: 36 attentati in meno di sessanta giorni. A scorrere l’elenco si trova di tutto: assalti alle agenzie immobiliari, alle scuole, ai circoli di partito, irruzioni armate nelle sedi dei giornali, incendi, rapine e pestaggi politici, bombe contro le caserme dei carabinieri di Piossasco, di Orbassano e di via Balme a Torino. La mattina del 19 gennaio, non ha ancora fatto giorno, Prima Linea uccide la guardia carceraria Giuseppe Lorusso, nel piccolo slargo dove via Biella incrocia via Brindisi. Il giorno dopo, una pattuglia intercetta un gruppo di terroristi intenti a bruciare pile di documenti in un prato e nel conflitto a fuoco che segue restano feriti due agenti. Sempre in quei primi mesi di un 1979 fuori controllo non mancano gli azzoppamenti, che colpiscono il medico Grazio Romano, ferito dalle «Squadre armate proletarie di combattimento» e la vigilatrice delle Carceri Nuove Raffaella Napolitano, una delle due donne «gambizzate» a Torino. Per tutti è l’orrore e l’attesa d’accendere la radio al mattino, per conoscere a chi mai sia toccato stavolta.
Il Pci, partito che governa la città, tenta di correre ai ripari. Su idea del presidente del Consiglio regionale del Piemonte, Dino Sanlorenzo, in accordo con il responsabile fabbriche del partito Giuliano Ferrara, si pensa di distribuire un «questionario antiterrorismo» nel quale i cittadini sono chiamati a rispondere, in forma anonima, a 6 domande:
1. Quali sono a vostro giudizio le cause del terrorismo?
2. Quali sono gli ostacoli da rimuovere e le cose da fare per ottenere non solo l’isolamento morale, ma la scomparsa del terrorismo?
3. Cosa dovrebbero fare le istituzioni (governo centrale, Comuni, Province, Regioni)?
4. Potete segnalare fatti accaduti a voi personalmente o ad altri nel quartiere che rientrino nella criminalità politica (aggressioni, minacce, intimidazioni, attentati, incendi di auto e di sedi)?
5. Avete da segnalare fatti concreti che possono aiutare gli organi della magistratura e le forze dell’ordine a individuare coloro che commettono attentati, furti, aggressioni?
6. Avete delle concrete proposte da fare per migliorare la situazione del vostro quartiere?
In città il dibattito infuoca. A dividere è soprattutto il quesito numero 5: «Avete da segnalare fatti concreti che possono aiutare gli organi della magistratura e le forze dell’ordine a individuare coloro che commettono attentati, furti, aggressioni?». È legittimo – ci si interroga – spingere la gente a segnalare persone o situazioni sospette? Non si rischia in questo modo di dare un’impressione di impotenza istituzionale di fronte agli attacchi? E poi, a che cosa potrà mai condurre una denuncia anonima, se non alla segnalazione di qualche vicino sgradito, magari una rivalsa condominiale mascherata di senso civico? Per molti il quesito numero 5 è un puro invito alla delazione. I favorevoli parlano invece di precedenti importanti, come la «bocca del leone» nella quale i veneziani della Serenissima inserivano, con garanzia d’anonimato, i nomi dei responsabili di delitti e congiure.
Ricorda Dino Sanlorenzo: «Non ci fu nessuna caccia alle streghe. Anzi, le risposte furono molte, oltre 12.000 e qualcuna finì anche in mano ai magistrati. Ma l’obiettivo non era quello di scovare terroristi. Per quello le vie erano altre. L’obiettivo era isolarli, i terroristi. Che infatti da allora in poi non troveranno più un covo». «Nei quartieri dove i terroristi avrebbero dovuto trovare il brodo dove sguazzare – ricorda Diego Novelli – hanno invece trovato l’isolamento. Grazie a quel questionario, credo, furono scoperti anche dei covi, delle basi. L’ho saputo dopo, quando negli anni Ottanta ho fatto un seminario con un gruppo di ex terroristi alle Carceri Nuove. Volevo capire le ragioni che avevano spinto dei giovani nella mia città, dove io ero sindaco, a fare questa scelta. E loro, tra le altre cose, mi dissero, con molta sincerità, che quel questionario e quella reazione che c’era stata, quell’azione politica, culturale e civile portata avanti dalle istituzioni, li aveva profondamente isolati. Anche quando avevano bisogno di un pernottamento improvviso, trovavano sempre le porte sbarrate».
I questionari vengono distribuiti alla popolazione dai comitati di quartiere. Particolarmente attivi quelli di Borgo San Paolo e Madonna di Campagna, il cui presidente è Michele Zaffino, 27 anni, iscritto al Pci. In quei giorni di febbraio Zaffino s’accorge che qualcuno lo sta seguendo: «Dopo la pubblicazione del questionario – ricorda Zaffino – per circa quindici giorni notai che sotto casa mia, ogni mattina, c’era una persona che passeggiava sul marciapiede di fronte. Una mattina, mi pare fosse il 25 febbraio, una 850 con a bordo quattro ragazzi, si ferma di fronte a me mentre aspetto il pullman per andare in circoscrizione e riparte non appena salgo. Alla fermata successiva, poi, sale una ragazza. Si siede accanto a me finché non scendiamo insieme alla fermata di piazza Stampalia. Quindi vado in circoscrizione e lì rimango a lavorare fino alle 19.30». Il giovane presidente di circoscrizione pensa forse che la vicenda sia chiusa lì, ma purtroppo il peggio deve ancora arrivare.
È la mattina del 28 febbraio, tre ragazzi entrano in una tabaccheria. Chiedono di provare delle maschere di carnevale. Torino ha i nervi a fior di pelle, il tabaccaio si insospettisce: pensa che vogliano rapinare l’agenzia del Banco di Roma di piazza Stampalia e avverte la polizia. Intanto i tre ragazzi si spostano nel vicino bar trattoria dell’Angelo. Non hanno tempo di bere un cappuccino che una pattuglia di polizia irrompe nel locale; l’appuntato Angelo Nocito chiede i documenti, ma i ragazzi non rispondono, sparano. Sparano tutti. Nocito, colpito alla coscia, cade a terra per primo e i colleghi intervengono in suo soccorso. Tutto dura pochi istanti di esplosioni e grida. Alla fine, stesi tra il flipper e il bancone del bar, rimangono i corpi di due giovani. Lei ha addosso un paio di jeans verdi e un loden beige, sotto il quale si cela il gonfiore di un giubbotto antiproiettili che non è bastato a salvarla; lui – maglione, jeans blu e giubbotto – è morto impugnando la calibro 38 a tamburo con cui ha sparato gli ultimi 4 colpi. Il terzo componente del gruppo è riuscito invece a fuggire, forse da una porta sul retro. In tasca ai due giovani senza vita la polizia trova una fotografia di Michele Zaffino e un foglietto con un numero di targa: TOL54679, una Fiat 128 color granata, intestata alla signora Laura Romeo, insegnante, moglie del giudice istruttore Gian Carlo Caselli.
«Il mattino del 28 febbraio passo in Federazione del Pci a prendere la posta – ancora Zaffino – e incontro Giuliano Ferrara che mi dice di correre in quartiere perché ci sono due morti. Così scopro che il giorno dopo essere stato seguito, l’auto si era poi fermata davanti al tabaccaio di piazza Stampalia; dei ragazzi erano andati a comperare delle maschere di carnevale e il tabaccaio si era insospettito perché eravamo ormai in Quaresima e aveva avvisato la polizia, forse temeva che le maschere servissero per una rapina in banca. Gli...

Indice dei contenuti

  1. Prologo. Segni sulla pietra
  2. Per un’indecifrata perfezione del caso
  3. Questo luogo del cielo chiamato Torino
  4. Torino a cinque punte
  5. Il sindaco della Falchera
  6. L’ultimo degli scudetti
  7. Nella primavera del 1977
  8. «In una giornata vittoriosa di lotta»
  9. «Il direttore si preoccupa troppo»
  10. Il processo deve ricominciare
  11. Torino che non è New York
  12. Anni spietati
  13. Ultima corsa
  14. Epilogo
  15. Ringraziamenti