Pensare la sinistra
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Pensare la sinistra

Tra equità e libertà

  1. 288 pagine
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Pensare la sinistra

Tra equità e libertà

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Troppe volte si sente dire, a sinistra, che bisogna difendere i diritti acquisiti e le istituzioni che abbiamo ereditato dal passato. Vorremmo che si dicesse invece come dobbiamo cambiarle, anche a costo di scontentare qualcuno.«Oggi più che nel passato, solidarietà, uguaglianza, lavoro sono obiettivi dai significati incerti, non conciliabili con la prassi e lazione politica. Limmigrazione, la concorrenza internazionale, la necessità di accrescere il capitale umano e di migliorare la qualità delle istituzioni mettono quotidianamente i governi, i sindacati e i partiti di fronte a scelte difficili, spesso scambiate come compromessi necessari, ma in contraddizione con lideale 'vero della sinistra, uno Stato ideale in cui esiste allo stesso tempo il massimo di equità e il massimo di benessere sociale. Le idee di giustizia e di equità devono rimanere le motivazioni fondamentali delle proposte e dei programmi della sinistra, pur sapendo che saremo sempre di fronte a scelte difficili e rinunce necessarie. Lo scopo di una sinistra moderna dovrebbe essere quello di uscire dalla perenne frustrazione di chi aspira a governare sulla base di obiettivi irrealizzabili per poi trovarsi, nel governo, a dover realizzare obiettivi pratici, senza riuscire a spiegare il nesso tra i primi e i secondi.»Interventi di Marco Revelli, Michele Salvati, Geminello Preterossi, Laura Pennacchi, Luigi Ferrajoli, Ingrid Salvatore, Stefano Fassina, Piero Bevilacqua, Innocenzo Cipolletta, Claudio Petruccioli, Marcello Messori, Stefano Cingolani, Walter Tocci, Stefano Sylos Labini, Salvatore Biasco, Giacinto della Cananea, Laura Bazzicalupo, Carlo Bernardini, Alessandro Ferrara, Alessandro Leogrande, Stefano Lepri, Franco Debenedetti, Marco Politi, Silvana Sciarra, Jolanda Bufalini, Melina Decaro, Andrea Ripa di Meana, Claudia Mancina, Lorenzo DAgostino, Corrado Ocone, Pietro Rescigno, Alfredo Ferrara, Oreste Massari.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858106020

Il dibattito

Marco Revelli: I costi della disuguaglianza

Mi fa davvero molto piacere essere chiamato a discutere di un tema che mi pare centrale, quello delle “idee per una sinistra” che negli ultimi anni sembra scontare proprio un preoccupante deficit di idee. Voglio dire subito che ho molto apprezzato il lavoro di Reichlin e Rustichini. L’ho apprezzato per lo sforzo che è stato fatto nell’articolazione e nella selezione dei temi: un po’ come se avessero deciso di scegliere sistematicamente, con una certa dose di sadismo, tutti i punti di frizione che si possono determinare con un simpatizzante di sinistra, diciamo così; e avessero selezionato, con cura, tutte le opzioni che possono disturbarne il “comune sentire” e in qualche passaggio anche il “buon senso”. Questo che ci hanno sottoposto è uno straordinario testo di provocazione del dibattito che è bene accogliere, perché è esattamente quello che ci serve oggi: qualcosa su cui discutere, su cui dividerci e magari anche scontrarci, ma fuori dalla palude degli equilibri inconcludenti.
Detto questo, devo aggiungere che io dissento su quasi tutto quello che qui è contenuto. Tranne che per il punto di partenza, in cui gli autori affermano che i problemi dell’Italia non nascono con le turbolenze dei mercati finanziari di questi ultimi tre anni ma si sono generati in un arco di tempo molto più ampio, almeno negli ultimi trent’anni. È verissimo. Io credo che proprio di qui si debba partire, per un giudizio e per un bilancio. Subito dopo però aggiungono che una delle ragioni delle difficoltà e della profondità che la crisi ha raggiunto nel nostro paese sta nel fatto che molte riforme innovative proposte o sperimentate nel mondo (e particolarmente necessarie per l’Italia) sono state fortemente avversate dalla sinistra italiana. Come se, in qualche misura, si volesse individuare una responsabilità per le difficoltà attuali (per usare un eufemismo) nelle resistenze, nelle arretratezze, nel conservatorismo e nella ritrosia della sinistra italiana ad accettare le ragioni del proprio tempo. Ad allinearsi con un “resto del mondo” – in particolare anglosassone – in sé “virtuoso”.
Insomma – per riprendere in forma di domanda alcuni dei punti più espliciti della premessa di Reichlin e Rustichini – davvero noi oggi paghiamo “una redistribuzione dei redditi eccessivamente egualitaria e incondizionata”? Un’ingiustificata “generosità” nella riallocazione delle risorse che avrebbe avuto effetti perversi sui comportamenti individuali? Davvero scontiamo la colpa di un eccesso di resistenza egualitaria? Davvero siamo condizionati da una sproporzionata diffidenza verso l’iniziativa privata che avrebbe caratterizzato questo trentennio? Davvero il costo dei diritti sociali è quello che ci ha tirati a fondo o che ci ha tenuti fermi? Pensioni sanità istruzione lavoro accoglienza? Diritti sociali che vengono “ricodificati” in questo testo come costi. Come costi! E la cosa personalmente un po’ mi turba perché i diritti non sono solo dei costi: è giusto, certo, calcolarne i costi, ma i diritti – in quanto tali, soprattutto quando sono “diritti costituzionali” – hanno un valore intrinseco, in sé.
Il problema, direi il fulcro, del testo – e a questo vorrei dedicare la pars destruens di questo mio intervento – è il nesso “equità-efficienza”. Osservazione di per sé condivisibile. Ma mi pare che poi la tesi di fondo sostenuta dagli autori sia che un eccesso di equità o una cattiva ricodificazione del concetto di equità su un versante eccessivamente egualitario entri in conflitto con l’efficienza. Ora, io sono totalmente d’accordo sul fatto che l’inefficienza è in contrasto con l’equità, che essa è un ostacolo all’equità. È una questione di rapporto mezzi-fini: senza un sistema efficiente nei suoi meccanismi di funzionamento essenziali (mezzo), è difficile per non dire impossibile realizzare una distribuzione delle risorse rispondente a un qualche criterio di equità (fine). Ma vorrei ragionare sul rapporto inverso: in quale misura l’equità retroagisce sull’efficienza, in modo positivo o in modo negativo?
Proverei ad articolare questo discorso in due blocchi: distinguerò una parte “storica”, chiamiamola così, e una parte “sui principi”, perché sono i due registri su cui lavora il testo. La parte storica riguarda naturalmente la crisi: la natura della crisi, l’origine della crisi, il rapporto tra la crisi e ciò che è avvenuto nei trent’anni che ci stanno alle spalle a partire dalla rivoluzione neoliberista anglosassone, dall’asse Thatcher-Reagan su cui mi pare insistano gli autori alludendo al fatto che noi, la nostra sinistra, non avrebbe accolto appieno la lezione di quella rivoluzione. Non si sarebbe adattata sufficientemente come invece è accaduto ad altre sinistre come il New Labour di Tony Blair, da una parte, e il Partito Democratico di Clinton dall’altra, che invece sono stati dentro il quadro definito da quella rivoluzione.
Ecco, io credo all’opposto che col senno di poi – cioè a partire dalla profondità della crisi attuale – si possa dire che a quella “rivoluzione” stiamo pagando un prezzo altissimo. Credo che buona parte della gravità della crisi che noi oggi attraversiamo sia determinata dalle caratteristiche che ha assunto il sistema economico internazionale dopo quella svolta (e a causa di quella svolta), dopo la svolta cioè degli anni Ottanta, quando prese forma e si affermò appunto l’ondata neoliberista che ha mutato nel profondo teoria e pratica economica in tutto l’Occidente. In particolare dopo la decisione dell’allora governatore della Federal Reserve, Paul Volcker, nell’estate-autunno del 1979 di imprimere un mutamento radicale alla consolidata politica economica dell’Occidente dichiarando guerra all’inflazione (e dunque, contemporaneamente, ai salari); e mettendo in conto, in questa guerra, un profondo ridimensionamento del potere d’acquisto e della forza contrattuale del lavoro. Lo disse chiaro, in quell’estate, il presidente della fed, in un celebre discorso: disse che il lungo ciclo inaugurato dalla grande depressione del 1929 e dominato dall’obbiettivo prioritario della piena occupazione era finito (così come era finita la grande paura indotta dall’immagine delle lunghe file di disoccupati davanti agli uffici di collocamento in quegli hard times). Che ora il nemico pubblico numero uno era l’altro, l’inflazione (che in quegli anni aveva raggiunto livelli a due cifre), e che per combatterla c’era un solo modo: accettare anche un elevato tasso di disoccupazione. Lasciare la briglia sciolta ai tassi di interesse, rassegnandosi a un certo grado, anche elevato, di deflazione. Intaccare la forza strutturale del lavoro nel modo più efficace, favorendo estesi processi di deindustrializzazione nelle aree di maggiore concentrazione operaia e di maggior forza sindacale.
Ce lo ricordiamo quel decennio, all’insegna di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher: l’afl-cio che perde verticalmente i propri associati, dopo la sconfitta sul campo dei controllori di volo americani; gli “uomini neri” di Arthur Scargill che escono in corteo dalle miniere dello Yorkshire con le bandiere del National Union of Mineworkers abbrunate in segno di sconfitta. Il Nord-Ovest americano colpito a morte nei propri tradizionali insediamenti industriali, mentre le nuove fabbriche migrano al Sud, verso la sun belt e si fanno maquilladoras, con salari competitivi con quelli messicani e condizioni di lavoro da America Latina. Fu quello il sostrato “strutturale” che fece da base alla “rivoluzione conservatrice” neoliberista. E alla transizione silenziosa dalla centralità del produttore a quella del consumatore come nuovo “eroe sociale”.
Oggi noi sappiamo che all’origine della crisi attuale, esplosa tra il 2007 e il 2008, c’è quella che viene definita l’“esplosione del debito” – del debito delle famiglie, in primo luogo, quello che ha fatto scoppiare la prima bolla, dei subprime, poi del debito delle banche avventuriere con i “derivati tossici”, infine degli Stati con i loro “debiti sovrani”. Ebbene, possiamo in tutta onestà sostenere che l’esplosione di quel debito è dovuta a un eccesso di risorse destinate al lavoro e alle politiche sociali? Cioè che la crisi che noi oggi scontiamo è determinata dal fatto che in questo trentennio è avvenuta una redistribuzione a favore del lavoro? I numeri ci dicono di no. L’evidenza empirica (se l’evidenza empirica ha ancora un senso) parla di uno scenario esattamente opposto. Cito uno studio di due intelligenti ricercatrici (una del Fondo Monetario Internazionale, Kathryn Smith, l’altra della Bank for International Settlements, Luci Ellis) che hanno misurato nel quarto di secolo che va dall’inizio degli anni Ottanta fino alla metà dello scorso decennio la composizione del pil nella sua ripartizione tra salari e profitti (quanta parte, cioè, della ricchezza nazionale prodotta annualmente è andata, di volta in volta, al monte salari e quanta parte al monte profitti). Il risultato è impressionante: ci dimostra che nell’insieme dei paesi dell’ocse lo spostamento a sfavore dei salari e a favore dei profitti e delle rendite si aggira tra gli otto e i nove punti percentuali di pil. Una cifra enorme (per l’Italia corrisponde a circa 120 miliardi di euro annui, l’equivalente di tre o quattro imponenti manovre finanziarie) che da una parte testimonia di un indebolimento endemico e strutturale del mondo del lavoro (non certo di una sua eccessiva resistenza egualitaria). E dall’altra contribuisce a spiegare la dimensione abnorme assunta dalla ricchezza astratta – dalla massa di capitale finanziario – e dal debito generatosi all’interno dei suoi circuiti.
Credo sia abbastanza evidente che se un’origine quella massa debitoria sembra possedere, questa stia piuttosto sul versante della sottrazione di risorse destinate a remunerare il lavoro, più che su quello di una loro eccedenza. Che affondi le proprie radici nell’escamotage con cui, all’origine della “rivoluzione conservatrice” degli anni Ottanta, si è pensato di poter quadrare il cerchio dell’attacco al salario e del sostegno al consumo. Della liquidazione della figura novecentesca del “produttore” in nome dell’emergere della figura postmoderna del consumatore: con la sostituzione, cioè, di reddito con credito. Di salario (ridimensionato) con denaro (prestato). In tutti questi anni abbiamo assistito a una prolungata compressione del reddito delle famiglie di una massa consistente di lavoratori a cui ha corrisposto una esplosione del credito a sostegno del consumo: una sostituzione, appunto, di reddito prodotto dal lavoro con denaro virtuale offerto dal circuito bancario-finanziario. In buona misura la bolla si è costruita dentro questa forbice tra la compressione delle retribuzioni e l’esplosione dei prodotti finanziari, tra il ridimensionamento della produzione e l’esasperazione del circuito finanziario.
Credo che lì stiano i problemi in cui dobbiamo affondare il bisturi anche per quanto riguarda l’Italia, su cui il testo di Reichlin e Rustichini si sofferma particolarmente. Credo anzi che per il nostro paese le cose siano persino più chiare. Oggi piangiamo uno dei debiti più pesanti del mondo nel suo rapporto con il pil. Ma chiediamoci: “Quando abbiamo fatto il pasticcio?”. Quando abbiamo fatto esplodere il nostro debito pubblico e l’abbiamo portato fuori misura rispetto agli altri nostri partner a cominciare da quelli europei? Vorrei far riferimento a uno studio di Maura Francese e Angelo Pace della Banca d’Italia intitolato Il debito pubblico italiano dall’Unità a oggi28, interessantissimo perché vi si ricostruisce in serie storica la percentuale del nostro debito pubblico sul pil tra il 1861 e il 2011.
Da questa serie storica, considerata nel suo intero sviluppo, risulta – a parte i due grandi picchi in corrispondenza delle due guerre mondiali – una fase dalla dinamica molto bassa, nel secondo dopoguerra, con percentuali intorno al 20-30% nello stesso periodo della “ricostruzione” e per tutti gli anni Cinquanta. La curva è relativamente piatta tra il 1946 e il 1961, poi registra una prima impennata tra il ’62 e il ’76-’77, legata indubbiamente alle politiche keynesiane: alle politiche sociali indotte dalla massiccia ondata di lotte sociali e sindacali di quel periodo, alle grandi riforme realizzate soprattutto tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta (la riforma pensionistica, la riforma sanitaria, la nascita delle regioni ecc.). E tuttavia in questo periodo, pur crescendo, la nostra spesa pubblica – in particolare quella sociale – si mantiene sostanzialmente allineata con quella dei principali paesi europei e si attesta intorno al 60% del pil (che è il livello attuale dei paesi virtuosi). Esploderà dopo, tra l’81 e l’inizio degli anni Novanta, con una successiva, accentuata impennata tra il 1991 e il 1994.
Tra l’81 e il ’91 il rapporto debito/pil passa dal 60% al 100%; e non sono le politiche sociali che determinano questo: è l’effetto a mio avviso di un altro fenomeno, attinente più agli atteggiamenti del ceto politico che al sistema delle relazioni sociali e in particolare del rapporto tra capitale e lavoro. E cioè a quello che definirei il “doppio patto” che la classe politica di allora – è l’epoca del caf, l’“età craxiana”, quella dell’asse Craxi-Andreot­ti-Forlani – stipulò con il proprio elettorato, costituito da un ampio ceto medio, con una massa relativamente indistinta di piccoli, medi e grandi risparmiatori, al fine di riacquisire una legittimazione estenuata e volatile: un “patto fiscale”, per così dire, e un “patto finanziario”. Alti tassi di interesse sul debito pubblico, sui bot (in tutto il periodo gli interessi sui nostri buoni del Tesoro si mantengono ampiamente al di sopra del tasso annuo di inflazione), da una parte; e dall’altra un basso livello di entrate fiscali (dieci punti percentuali circa delle entrate al di sotto della spesa). Il che ha significato finanziare una platea di risparmiatori relativamente affluenti consentendone nel contempo un buon margine di evasione fiscale. Si spiega così, almeno in parte (io credo in buona parte), l’arcano del debito pubblico italiano che d’improvviso s’impenna fino a diventare ingovernabile: sono questi strumenti “pattizi” i due elementi attraverso i quali il nostro debito pubblico è esploso.
Poi, certo, all’inizio degli anni Novanta la spesa sociale incomincia a premere su questa massiccia dimensione del debito gravato da alti tassi di interesse e allora occorre rimediare e diventano necessarie le riforme: viene fatta la riforma pensionistica, viene in qualche misura riallineato il debito pubblico su parametri più “europei” (dal momento che l’ingresso nell’area dell’euro incalza): da allora la spesa corrente rimane sotto controllo e il debito cresce solo per effetto degli interessi. C’è, quindi – è questo che mi preme sottolineare – un peso della rendita finanziaria sul nostro debito pubblico più che non un costo eccessivo “dell’uguaglianza” e degli eccessi di politiche sociali. E di questo credo si debba tener conto, sia dal punto di vista socio-politico – per tentare cioè di leggere i mutamenti della società e della politica italiana nell’ultimo ventennio –, sia da quello economico-programmatico, per elaborare una qualche via di uscita dall’impasse attuale.
Sulla prima questione, credo sia abbastanza evidente che è in buona misura da quel meccanismo perverso (da quella massiccia mobilitazione di “debito pubblico” attraverso cui si drenava ricchezza dal basso per ridistribuirla “alla pancia” del paese, alle fasce di reddito intermedie e alte) che è stata generata la base sociale del berlusconismo: è dal progressivo impoverimento “del lavoro” a favore di quel corpo relativamente informe ma ampio – di redditieri, risparmiatori ed evasori –, poco produttivo ma altamente orientato al consumo e in grado di intercettare robusti flussi di ricchezza finanziaria, che si è costituito l’elettorato (tutt’altro che moderato ma rapace e incolto, privatisticamente votato alla difesa a oltranza dei propri privilegi, indifferente alla dignità della politica ma sensibilissimo alla tutela dei propri interessi) del partito-impresa di Silvio Berlusconi.
Sulla seconda questione, io credo che se un punto dovrebbe comparire al vertice dell’agenda di una sinistra che voglia mantenere questo nome, esso dovrebbe riguardare la necessità, improcrastinabile, di riassorbire, rapidamente, la massa di ricchezza astratta che in questo ventennio si è andata accumulando nello spazio extraterritoriale del circuito finanziario. Di fare “atterrare” quella porzione maggioritaria di capitale che si è sollevata dal suolo, che sfugge, alla velocità della luce, agli investimenti produttiv...

Indice dei contenuti

  1. Nota dell’Editore
  2. Equità ed efficienza: i dilemmi e l’identità della sinistra nel XXI secolo
  3. Il dibattito
  4. Riflessioni conclusive
  5. Gli autori