Notturno italiano
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Notturno italiano

L'esordio inquieto del Novecento

  1. 224 pagine
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L'esordio inquieto del Novecento

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È un'intera parabola storica quella che si respira in Notturno italiano, centrato sugli anni di trapasso tra Ottocento e Novecento. Lucio Villari avvicina il lettore a un 'tempo drammatico' per l'Italia e l'Europa, a un''atmosfera di attesa e profezia'. La sua trama parte dall'ultimo quarantennio dell'Ottocento, che segnò l'epilogo degli ideali patriottici, con la 'prosa' che seguiva alla 'poesia' dell'Unità. Poi la narrazione si tinge volta per volta di entusiasmo o di incubo. Nello Ajello, "L'Espresso"Era un secolo fa, ma le similitudini si sprecano: forse perché così accade in tutte le epoche di transizione. Il famoso storico Lucio Villari racconta il ventennio di passaggio tra XIX e XX secolo, e l'Italia che si modernizza, tra decadentismo, socialismo rivoluzionario, capitalismo acerbo e aggressivo, le cannonate di Bava Beccaris, Giolitti, il futurismo e la nascita della radio. Massimiliano Panarari, "il Venerdì di Repubblica"Con il gusto intelligente dello storico, Lucio Villari mescola sapientemente la vita e la grande cultura europea del primo Novecento alle irrequietudini di casa nostra. Luigi Mascilli Migliorini, "Il Mattino"

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858113967
Argomento
History

I. La materia ha un’anima?

1. Congedo da un secolo

Gli ultimi anni dell’Ottocento sono stati in Italia un lungo addio ai sentimenti di un secolo che si era svegliato con l’avanguardia romantica e con l’energia della giovinezza conquistatrice. Decise passioni avevano sostenuto e arricchito la trasformazione della politica, dell’economia, della cultura, fino alle rivoluzioni e alle guerre di libertà. Il culmine del cambiamento fu raggiunto con la forza. Così era stato anche con la poesia, la musica e la letteratura – racconti, romanzi, opere liriche, canti risorgimentali ai quali siamo ancora legati – sostenute dalla potenza delle armi. L’invenzione aveva dato voci e volti a emozioni intense, tra loro intrecciate: amori, lotte civili, ideologie, sacrifici personali senza languori e struggimenti. E tutto questo aveva creato qualcosa di grande: una nazione antica e nuova, un popolo felice di ritrovarsi, uno Stato sorto da un deciso impegno politico, culturale ed etico.
Declinando il secolo, ecco il momento degli addii. In Italia, unico paese d’Europa – e va una volta per tutte ribadita questa unicità – ad essersi rinnovato spiritualmente e politicamente lungo decenni di battaglie per la libertà, l’abbandono dell’Ottocento non era però semplice perché per molti era stato il momento della verità. Non poteva essere proclamato questo abbandono, pena la perdita delle ragioni del rinnovamento e del «risorgimento», né poteva essere lasciato gestire a forze sociali e politiche che erano state vinte e che guardavano con protervia al passato. Bisognava guardare avanti evitando il rischio di fare di questa nazione una conseguenza senza premesse. L’abbandono andava perciò dissimulato con attenzione, non come la «fine delle reliquie» che chiude polverosamente Il Gattopardo o come la perdita della fede da parte di patrioti delusi. Tenterà di farlo Luigi Pirandello ai primi del Novecento con I vecchi e i giovani, racchiudendo nella follia collettiva e nel degrado morale dell’Italia di pochi anni prima – il tempo degli scandali bancari e del grido di giustizia dei Fasci siciliani – parti e rappresentanze di una Italia che nella lunga lotta per l’unità e la libertà avevano dato il meglio di sé e che gli scandali non potevano in alcun modo demolire. La fine del vecchio garibaldino, colpito a caso dal fuoco dei soldati durante una manifestazione di protesta dei Fasci, chiude il romanzo con la domanda stupita e sgomenta di coloro che avevano sparato: «Chi avevano ucciso?». Troppo tardi per chiederselo, e molti italiani moriranno per strada durante tumulti, proteste, scioperi. Ma la domanda dei soldati è malinconica e fa pensare alla difficile fase politica e sociale e al senso di sgomento e di impotenza che colse anche molti uomini di cultura. E per uno scrittore che vedeva terminare un secolo così importante e così allusivo ai bilanci da fare e ai conti da chiudere, la musa di questa transizione non poteva essere che la malinconia.
Per uscire dall’Ottocento occorrevano altri pensieri e forse sentimenti più cinici. Nell’anno di pubblicazione di I vecchi e i giovani, il 1909, ci penserà Filippo Tommaso Marinetti con il Manifesto del futurismo, con ironia e determinazione antiborghese e con spirito di universale dissacrazione analogo a quello dell’altro e diverso Manifesto – quello comunista del 1847-48 –, a uccidere le luci della vecchia Italia e a spegnere il chiaro di luna, chiudendo così la traiet­toria simbolista-decadente iniziata dalla struggente e per nulla distruttiva La mort de la Lune del 1899 («Debout, vers les étoiles, / Elle a chanté éperdument dans le silence.../... Et les étoiles ont palpité d’angoisse et de désir...»), una tra le più belle poesie del Marinetti francese. Tra le quali tutta la vitalità erotica e «naturale» era poeticamente riservata, secondo lo spirito degli anni Novanta, soltanto al Sole ­(«...Vul­ve chantante, au frais glouglou de source vive, / Oh! la joie frétillante de reposer en toi, / dans ton humidité chaude et fraiche à la fois!»). Dieci anni dopo, volendolo o no, il futurismo entra in sintonia ideologica con l’altro manifesto. E questo spiega l’innamoramento per Marinetti dei poeti comunisti russi prima e dopo la rivoluzione del 1917.
A loro modo, Marx e Engels, più o meno trentenni come Marinetti, con un piglio da avanguardisti avevano previsto una sorta di futurismo. Nell’era borghese «di incertezza e di movimento continuo», dicevano, «...tutti i rapporti appena formatisi invecchiano prima di potersi consolidare. Tutto ciò che c’era di stabile svapora, ogni cosa sacra viene profanata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare la loro vita e le loro relazioni reciproche con occhio disincantato». A leggerle bene non sembrerebbero parole severe e risentite e anzi hanno un tono altoborghese. Il futuro – reale, non poetico – evidentemente sarebbe stato un altro, ma le parole erano rivoluzionarie.
Una spiegazione però deve pur esserci del perché la critica antiborghese avrà contemporaneamente e pericolosamente – anche in Italia – una gestazione di destra e di sinistra. Sarà l’aggrovigliato filo rosso di quegli anni: non in tutti i paesi c’era una borghesia meritevole della critica antiborghese (e in qualche paese non c’era nemmeno una vera e propria borghesia), specialmente quando la critica proveniva, come si vedrà nel primo Novecento, da una destra reazionaria travestita di modernità, se non di nazionalismo o di «nazionalsocialismo». Per questo il dissenso era almeno più ragionevole e aveva più verità morale se ad esempio era manifestato più che dai politici da scrittori come Oscar Wilde o da un artista veramente particolare quale era William Morris.
Questa singolare figura di uomo di cultura, di socialista, di creatore autentico di forme e di contenuti di arte raffintta e popolare, resta il punto fermo di qualunque analisi storica di questo problema. Nel 1883, parlando in una conferenza a Manchester della borghesia affaristica, Morris la accusava di aver sostituito il benessere, cioè «un modo decoroso di vivere», con la ricchezza, cioè con un «mezzo per esercitare il dominio sugli altri». La contraddizione era appunto nell’incrociarsi di eleganze borghesi e della volgarità del denaro dei capitalisti; e «ditemi se il mio inelegante atteggiamento di protesta non sia giustificato». Lo era certamente, e lo è ancora, perché «in nessun linguaggio il benessere e la ricchez-za sono sinonimi, a meno che non si usino impropriamente». La sua scomparsa nel 1896 priverà la cultura europea di un innovatore democratico dei linguaggi dell’arte e della sua riproducibilità.
Il mondo culturale italiano era tuttavia più attento alla Francia che alle contemporanee sperimentazioni della cultura inglese o tedesca. Al «revisionismo» delle radici rivoluzionarie del 1789 – era questo il termine usato da Maurice Barrès, autore del Culto dell’Io, e da Charles Maurras, fondatore della cattolico-monarchica Action Française – l’Italia di fine Ottocento e del primo Novecento deve tra l’altro le prime ventate di nazionalismo aggressivo e di orgogliosa autoesaltazione.
All’incanto, comunque, continuavano a credere i poe­ti crepuscolari, attenti a riannodare memorie, a rivivere emozioni del passato («...L’ora ch’io dissi del Risorgimento – scriveva Guido Gozzano – / l’ora in cui penso a Massimo d’Azeglio / adolescente, a I miei ricordi, e sento / d’esser nato troppo tardi...». Oppure «...rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!» di L’amica di nonna Speranza) in una chiave forse diversa dalla carducciana poesia evocativa e rigorosamente storica del Risorgimento, ma sempre con autentica adesione risorgimentale. Nel rianimarne il ricordo riuscirà meglio D’Annunzio, travestendo però (è l’influenza francese cui si è accennato) di nazionalismo il patriottismo liberale e democratico di coloro che avevano fatto l’Italia. Ma, alla fine, i tre misteriosi versi del Congedo di Carducci composti il 30 maggio 1895 riporteranno tutto al silenzio: «Fior tricolore, / Tramontano le stelle in mezzo al mare / E si spengono i canti entro il mio cuore».
I sentimenti dell’Ottocento, anche i più segreti, quelli che si usa chiamare romantici, erano molto elaborati e conflittuali, mai ingenui e sempre perentori nel mostrarsi come idee, ansie e desideri profondi. L’implacabile Manifesto del 1848 aveva esplicitamente indicato i responsabili della critica dei sentimenti: «La borghesia ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia...».
Ecco, ancora la malinconia. Gran parte della letteratura europea testimoniava la perdita dei sentimenti o non riusciva a trovare cosa potesse sostituirli. E, certo per colpa dell’acqua gelida, anche nella narrativa italiana i sentimenti erotici, ad esempio, erano lasciati – e lo saranno a lungo – in penombra o nella allusività morbosa di un Fogazzaro o di Oriani. Forse più sensualità si insinuava nella poesia, nei versi del Canto di Igea o in Incantesimo di Giovanni Prati e in Digitale purpurea di Pascoli, prima di giungere a D’Annunzio. Dirà Alberto Moravia: «Il romanzo dell’Ottocento era pudico sulle cose del sesso fino al silenzio più totale, e impudico fino all’inverecondia sulle cose del sentimento». Inverecondia sta qui per esagerazione, per esasperazione, ma tra le «cose del sentimento» della nostra letteratura, lette da Moravia con indifferenza e con voluto distacco, vi erano il patriottismo e la voglia di libertà in coloro che avevano fatto risorgere l’Italia, e in tutta la letteratura europea di fine secolo era sempre forte il richiamo della realtà e della contemporaneità politica e sociale.
Tra i «sentimentali» italiani c’erano anche – perché ignorarli? – spiriti diversi e avversi: i condottieri dell’economia, i capitani d’industria e i banchieri del capitalismo, gli ultimi grandi proprietari di terra, i nobili gattopardi del latifondismo meridionale, la volontà di dominio in quanti gestivano il potere politico e volevano piegarlo a forme reazionarie. Grazie però ai più consapevoli tra questi conservatori, i primi trent’anni dell’Italia unita avevano visto uno sforzo titanico – non saprei definirlo altrimenti – nell’opera di costruzione e di sperimentazione di una nazione per la prima volta ricomposta e unita. Ma nell’ultimo decennio delle grandi metamorfosi, i sentimenti costruttivi traslocarono rapidamente in metodi più riluttanti allo svolgersi delle libertà politiche e, nello stesso tempo, in forme più aperte dello spirito.
Tra queste, l’attivarsi della filosofia, le scoperte della scienza, la percezione di una storia fatta di problemi e non solo di fonti d’archivio e di documenti, il denudamento della femminilità attraverso la poesia e le arti figurative, nelle sculture – persino cimiteriali – e nella pittura (in quest’ultima, le solari, nude bagnanti sulle spiagge marine di Pierre-Auguste Renoir del 1887 si privatizzavano negli anni Novanta nelle intimità femminili di maliziosi bagni di casa dei quadri di Edgar Degas e Pierre Bonnard), la liberazione della religione dai suoi stanchi riti e dalle sue servitù, il socialismo, inteso nella gamma più ampia di nuovi diritti e di un nuovo umanesimo, compreso un «socialismo cristiano» germinato dal Modernismo e stroncato dalla Chiesa. Un decennio comunque faticoso, la cui forza trascinante di concrete scoperte e di immagini di bellezza preannuncia il tempo drammatico del primo Novecento. E in questa crisi – il termine, con duplice significato, negativo e positivo, si è affermato proprio allora – che attraversava l’Europa, l’Italia e la Francia si somigliavano sempre più.

2. Filosofia dello spirito e volontà dell’azione

Del lungo crepuscolo di quegli anni non tutto però è un congedo triste. Vi sono state anche polveri di stelle. Scegliamo un punto luminoso qualunque, il meno complicato e discusso. Pensiamo a quanto siano vive e attuali le ragioni della nascita delle Olimpiadi moderne. E pensiamo alle loro fonti di ispirazione. Il riferimento più scontato è la Grecia classica, mito tra i più forti della cultura occidentale ottocentesca, da Foscolo a D’Annunzio, da Canova a Hölderlin, da Byron a Flaxman, a Alma-Tadema. In realtà, non è stata la nostalgia struggente per la classicità che le ha ispirate, ma un dinamico, moderno spirito filosofico. Uno spirito che soffiava proprio sulla patria del barone Pierre de Coubertin. Una Francia agitata nella vita politica e sociale quanto vivace in filosofia, nelle arti, negli spettacoli – basti ricordare l’apparizione nel 1895 a Parigi del cinema –, nelle scienze, nella tecnologia e infine nello sport.
Fu, in un tempo brevissimo, una fioritura straordinaria, improvvisa di macchine e di idee, una renaissance analoga a quelle dei due precedenti finali di secolo: la secentesca querelle tra gli antichi e i moderni (sull’onda del razionalismo e della rivoluzione scientifica) e – nell’ingovernabile Settecento illuminista e borghese – la rivoluzione del 1789. E dei tanti modi in cui sarebbe finito l’Ottocento la filosofia è stata, come nel Seicento e nel Settecento, anticipatrice, partecipe, testimone. Lo è stata ovviamente anche in altri territori d’Europa, ma nel caso della Francia e dell’Italia è necessario spostare le luci dal nichilismo di Nietzsche e dalle compatte elaborazioni della filosofia tedesca, cui generalmente si fa più spesso riferimento, al risveglio di un metodo di analisi che, anche se in forme idealistiche e spiritualistiche, scaturiva dalla storia del presente; ne era in un certo senso la proiezione.
La filosofia francese entrò così, senza dirlo, nel sogno olimpico che implicava accoglienza, tolleranza, partecipazione a confronti, gare, sfide senza distinzioni se non tecniche e senza separazioni culturali e interdizioni morali. Nelle sfide atletiche si trasferiva l’Arte della guerra: la guerra come arte di vincere nella pace. O anche perdere, ma con la nobiltà della sconfitta. Una inedita equivalenza del vivere nelle espressioni più alte: vitalità, bellezza, azione. Una vita di pure forme in un presente colmo di eventi nuovissimi da abitare liberamente.
Non sono coincidenze casuali che de Coubertin cominciasse a meditare sulla rinascita delle Olimpiadi nel 1894, l’anno in cui il capitano Alfred Dreyfus è condannato per spionaggio alla deportazione a vita all’Isola del Diavolo (sarà pubblicamente degradato il 5 gennaio 1895), e proprio mentre nella Francia brillante e colorata si infiltravano malattie infettive: crisi politiche e parlamentari al limite del colpo di Stato (l’ultimo lo aveva tentato il generale Boulanger; sconfitto, si suiciderà teatralmente nel 1891 sulla tomba dell’amante), sentimenti bassi e reazionari della borghesia, sciovinismi incontrollati e dure lotte di classe. Appena nobilitate, queste ultime, dal pensiero democratico, socialista, marxista, ma degradate dal variegato catalogo dei regicidi anarchici e dal razzismo povero e proletario.
Sempre il 1894 è infatti l’anno in cui il presidente della repubblica François-Sadi Carnot è assassinato a Lione da un anarchico italiano. È il solito assassino-vendicatore italiano che si erge a giustiziere dell’umanità. Un altro italiano ucciderà nel 1897 un leader conservatore spagnolo, Antonio Cánovas del Castillo, un altro pugnalerà nel 1898 la tormentata e innocente Elisabetta d’Austria, e altri uccideranno ancora in un assurdo crescendo di violenza inutile. O forse utile a svelare l’inconsistenza e la sofferenza di una certa opposizione minoritaria che, in Francia o in altri luoghi d’Europa, era, come si è detto, opposizione alla borghesia, e in Italia, in mancanza di una borghesia sviluppata e non sempre consapevole dei suoi doveri e obblighi di classe dirigente, era reazione elementare alle difficoltà della politica liberale. Difficoltà nel realizzare progetti di governo e ottenerne consensi al di fuori delle alchimie, dei trasformismi e del «cretinismo parlamentare» di eletti senza una disciplina di partito e senza un adeguato controllo delle loro reali capacità che non fossero quelle prevalenti della facondia avvocatesca e dell’estremismo parolaio e inconsistente, contro cui lanciava i suoi strali pungenti Antonio Labriola.
Il 19 agosto 1893 a Aigues-Mortes, in Provenza, cinquanta operai italiani impegnati nelle saline erano stati linciati e centocinquanta feriti dai loro compagni di lavoro francesi perché avevano accettato salari più bassi. Lo stesso accadrà l’anno successivo a Lione (con devastazione di case, negozi, ritrovi di italiani) e manifestazioni continue di violenza vi saranno in tutta la Francia contro i nostri emigrati (ben 380.000), paragonati agli zulù e ai beduini. Contemporaneamente venivano promulgate dai governi di destra leggi eccezionali che mettevano a rischio i diritti civili dei francesi; «scellerate», le definivano i socialisti. E per ritorsione, in Italia scoppiavano rivolte antifrancesi: a Roma, a Milano e soprattutto a Napoli, con barricate, morti, feriti e migliaia di arrestati.
Ma Parigi era sempre Parigi. E nell’atmosfera di allegria del Ballo Excelsior, dei cafés chantants, dei vaudevilles (quando, nell’autunno del 1896, Edmondo De Amicis incontrò ad Amiens, accompagnato dai suoi due giovani figli, Jules Verne e a Parigi Victorien Sardou per intervistarli per la «Nuova Antologia», assistette alla trecentottantesima rappresentazione di Madame Sans-Gêne di Sardou, «messa in scena con uno sfarzo non mai veduto»), dilagavano senza veli...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. I. La materia ha un’anima?
  3. II. Tempi moderni
  4. III. Audaci imprese e piccoli affari
  5. IV. Un pianeta, due ellissi
  6. V. Natura ribelle e estetica della libertà