Scenari del mondo contemporaneo dal 1815 a oggi
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Scenari del mondo contemporaneo dal 1815 a oggi

  1. 306 pagine
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Scenari del mondo contemporaneo dal 1815 a oggi

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Il manuale ripercorre le vicende della storia mondiale lungo un arco di tempo bisecolare che dal congresso di Vienna arriva fino ai nostri giorni. Dopo aver delineato vicende demografiche, evoluzioni ambientali, trasformazioni di sistemi produttivi e forme di organizzazione del lavoro industriale negli ultimi due secoli, il volume adotta un scansione cronologica definita da avvenimenti considerati particolarmente periodizzanti: congresso di Vienna (1814-1815), nascita dell'Impero tedesco (1871), prima guerra mondiale (1914- 1918), invasione dell'Ungheria (1956), crollo del sistema sovietico (1991). L'ultimo capitolo segue le più recenti vicende mondiali fino al 2004.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858116821
Argomento
Storia

1. Formazione degli stati-nazione e grandi imperi (1815-1870)

1.1. Dopo Napoleone

1.1.1. Nascita dell’industria moderna

Con l’espressione «rivoluzione industriale» si è soliti indicare lo sviluppo manifatturiero della Gran Bretagna, a cavallo tra il ’700 e i primi decenni del secolo successivo. Tale espressione, però, contiene delle forti ambiguità e può rappresentare un paradigma interpretativo assai fuorviante. Il termine «rivoluzione» rievoca l’immagine di un cambiamento improvviso. La trasformazione dei modelli di produzione, di vita e di consumo, che riguarda la Gran Bretagna tra gli ultimi decenni del XVIII secolo e i primi del secolo successivo, fu invece profonda ma graduale. L’impresa protagonista di questo periodo di trasformazione era di piccole dimensioni, praticamente artigianale, senza capitali, se non quelli provenienti dall’autofinanziamento. Gli imprenditori non erano uomini nuovi, ma figure, come gli artigiani, i contadini o i commercianti, disposte a rischiare un piccolo capitale.
Questo progresso industriale interessò per prima la Gran Bretagna non tanto per l’organizzazione del settore manifatturiero che, come in altri paesi europei, aveva carattere disperso, artigianale e spesso familiare, ma per alcuni elementi di contesto che le attribuivano un certo vantaggio. La crescita demografica, comune ad altre aree europee, in Gran Bretagna fu prepotente. Una spinta demografica del genere non si sarebbe stabilizzata senza un corrispondente progresso agricolo. La piena privatizzazione della terra, libera da tutte le servitù e promiscuità tipiche dell’antico regime, si realizzò qui in grande anticipo rispetto agli altri paesi europei. L’agricoltura era organizzata secondo un modello sociale fondato sull’esistenza di una grande, spesso grandissima, proprietà senza limitazioni di tipo feudale e senza contadini. Dominava una conduzione fondata sull’affitto a locatari provvisti di un certo capitale che impiegavano lavoratori salariati. Su queste basi, la Gran Bretagna riuscì a rinnovare la produzione agricola con l’introduzione delle foraggiere nella rotazione delle colture che si succedevano sullo stesso terreno. Questo progresso agricolo consentì, da un lato, di sostenere il forte aumento della popolazione nel cinquantennio a cavallo tra ’700 e ’800 e, dall’altro, permise a una quota degli addetti di lasciare la campagna per dedicarsi al lavoro industriale. Un’altra condizione favorevole allo sviluppo industriale era data dall’esistenza in Gran Bretagna, prima degli anni ’30, di un sistema politico e istituzionale stabile, con forme di rappresentanza socialmente assai limitate, ma regolari e per questo capaci di sostenere, correggere, contraddire il governo. Quelli indicati sono tutti elementi che confermano i vantaggi di cui godevano gli imprenditori inglesi e dimostrano come sia impossibile ridurre il formidabile progresso industriale della Gran Bretagna al possesso di risorse e di tecnologie. L’innovazione era legata essenzialmente a saperi e abilità artigianali che cercavano di risolvere i problemi sorti dall’applicazione di strumenti o processi spesso già noti. Uno dei fattori fondamentali per lo sviluppo dell’industria tessile, la navetta (elemento mobile del telaio che velocizzava il passaggio del filo della trama attraverso l’ordito), era stata inventata già nel 1733. L’altra importante innovazione, a cui va ascritto il grande balzo compiuto dall’industria, fu l’introduzione della macchina a vapore; anche questa nata da una invenzione precedente di James Watt brevettata nel 1769.
Il punto di forza di questa fase di sviluppo dell’industria britannica era costituito dalla produzione dei tessuti in cotone. Fu la lavorazione del cotone che per prima sperimentò importanti innovazioni tecnologiche e forme di organizzazione sempre meno caratterizzate dalla polverizzazione delle attività a domicilio e sempre più dall’accentramento in fabbrica, specie quando le macchine a vapore cominciarono concretamente ad affermarsi. L’elemento più importante fu la capacità dell’industria di imporre il cotone, di dare autonomia e dignità a una fibra quasi sempre adoperata in panni misti, per una produzione povera, adatta solo a muoversi in un circuito commerciale molto ristretto. Il processo, però, non fu veloce e ancora meno rapido fu il riconoscimento della «rispettabilità» dell’imprenditore industriale. Anche in Gran Bretagna, forse qui più che altrove, il valore dell’imprenditore sarebbe stato misurato – ancora assai a lungo – in base al numero di acri di terra posseduti.
La dimensione modesta e relativamente poco costosa degli impianti, il facile reperimento della forza lavoro, risultato combinato della crescita demografica e del progresso agricolo, assicurarono slancio all’industria cotoniera. Decisivi per il suo progresso successivo furono la stabilità del rifornimento di materia prima proveniente dalle ex colonie americane e l’esperienza commerciale del paese. La nascente industria tessile, inoltre, diede grande impulso agli altri settori produttivi. Le industrie di cotone stimolarono le attività di estrazione del carbone che sostituiva l’uso della legna come combustibile. L’industria e una agricoltura sempre più meccanizzata richiedevano ferro per la fabbricazione di attrezzi e di macchinari; da qui una ulteriore spinta verso l’estrazione di materiale ferroso e carbone, in particolare di litantrace per la produzione di coke per gli altiforni.
Col passare del tempo, lo sviluppo industriale aumentò i consumi e diffuse benessere anche tra i gruppi più deboli della società britannica. Nella fase iniziale di consolidamento, tuttavia, esso originò tensioni, conflitti, forme di sradicamento e malattie legate alle cattive condizioni igieniche dei centri industriali cresciuti troppo velocemente. L’impatto sociale di questa fase fu notevole. La fabbrica operò una semplificazione dei processi lavorativi e rese sempre meno artigianali le attività, favorendo così l’impiego di schiere di donne e bambini, più facilmente controllabili e molto meno costosi. Le condizioni di lavoro faticose e logoranti alimentarono forme di opposizione che assunsero caratteri distruttivi e irrazionali (il luddismo), o più politicizzati (movimento cartista), di cui si dirà più avanti. La prima legge (1842) che provò a disciplinare il lavoro di fabbrica, con particolare attenzione per le donne e i bambini, non ebbe grande impatto, ma ruppe per la prima volta con l’idea che il lavoro dovesse essere regolato dalla libera contrattazione delle parti e restare al di fuori degli interventi del governo. Le vecchie corporazioni, e con esse un intero sistema di trasmissione dei saperi tecnici, si sfaldarono; ma l’artigiano non sparì, come non sparirono la piccola e la piccolissima impresa che per lungo tempo fecero da contraltare alla fabbrica. Il mercato del lavoro rimase, nonostante tutto, ancora assai limitato, irrigidito dalle forme di tutela previste dalla vecchia legge che concedeva il sussidio solo ai poveri della parrocchia. Il carattere assai protettivo di esse – si pensi allo Speenhamland (sistema che assicurava ai disoccupati un sussidio proporzionato al prezzo del pane, al numero dei figli e al livello del loro precedente salario) – spesso non stimolava i disoccupati a ricercare un nuovo lavoro.
Il resto dell’Europa era più indietro. Deboli segnali di sviluppo venivano da poche zone (Belgio, Francia, Slesia, Boemia, Sassonia, Renania, qualche piccola area dell’Italia). Qualche elemento di rinnovamento veniva dalle colonie di imprenditori e mercanti stranieri che diffondevano – in zone in cui il terreno era fertile – un patrimonio di relazioni, saperi specifici, nuovi atteggiamenti gestionali. In buona parte dell’Europa, inoltre, il periodo napoleonico portò una ventata di rinnovamento nelle amministrazioni pubbliche, nelle burocrazie dello stato, nei sistemi legislativi; cancellò gli istituti più tradizionali della feudalità e, in certi casi, lo stesso sistema feudale. Da queste premesse sarebbero nate le tensioni e le novità degli anni ’30 e ’40, i primi studi di Liebig sulla chimica organica e la fisiologia delle piante, la diffusione della nave a vapore, le costruzioni ferroviarie e molto altro ancora.

1.1.2. Il Congresso di Vienna e l’eredità napoleonica

Il Congresso di Vienna (novembre 1814-giugno 1815) fu organizzato dalle potenze europee che avevano avuto ragione delle armate napoleoniche (Gran Bretagna, Austria, Prussia e Russia) al fine di ridisegnare i confini degli stati e creare le condizioni di una pace duratura, sia pure armata, dell’Europa. In altri termini, il Congresso mirava a ripristinare la legittimità della monarchia e a ricercare il «concerto europeo». Il progetto, tuttavia, era allo stesso tempo fragile e ambiguo. Il principio di legittimità venne applicato secondo convenienza; non venne infatti esteso a numerosi principi spodestati da Napoleone. Dietro la formula del «concerto europeo», inoltre, si nascondeva la preoccupazione per futuri rafforzamenti di alcuni stati a spese di altri. Questi timori, particolarmente forti nei rappresentanti britannici, suggerirono delle soluzioni che – almeno nelle intenzioni – appianassero tutti i motivi di contrasto e permettessero di controllare le rivendicazioni di nazioni totalmente ignorate.
Gli elementi centrali del nuovo assetto europeo furono le misure per frenare, attraverso il rafforzamento dei paesi confinanti, le tentazioni espansionistiche di alcuni stati. Agli occhi degli inglesi i pericoli maggiori venivano dalla Francia, già colpevole di aver esportato su tutto il continente i suoi furori rivoluzionari, e dalla Russia con la sua smania espansionistica. Le altre due potenze europee, Austria e Prussia, sembravano in profonda crisi: troppo debole la prima e piccola la seconda. La Francia venne dunque stretta tra un nuovo stato, il Regno dei Paesi Bassi (comprendente Belgio, Olanda e Lussemburgo), mentre il Regno di Sardegna fu rafforzato con l’acquisizione della ex repubblica genovese; alla Prussia furono attribuiti parte della Sassonia e alcuni territori sul Reno, tra cui Colonia, Treviri e il bacino della Ruhr. L’Austria, privata dell’Olanda, ma compensata con il possesso del Veneto, venne restituita al suo ruolo di gendarme delle regioni italiane: i principi imparentati con la famiglia imperiale e l’accordo militare con Ferdinando IV di Napoli, poi Ferdinando I del Regno delle due Sicilie, assicurarono il controllo diretto dei piccoli regni dell’Italia centrale (Granducato di Toscana, ducati di Parma e Piacenza e di Modena e Reggio). La Russia venne accontentata con l’annessione di gran parte della Polonia, della Bessarabia a spese dell’Impero ottomano e della Finlandia sottratta alla Svezia, a sua volta risarcita con la Norvegia.
Il carattere conservatore del progetto di riordino dell’Europa è evidente: lo si può desumere – più che dalle ripartizioni territoriali – dal reciso rifiuto della sovranità popolare, dallo spazio concesso alla chiesa, dal ritorno all’alleanza tra il trono e l’altare, ben rappresentato dalla Santa Alleanza. Quest’ultima costituiva, infatti, lo strumento creato da Russia, Prussia e Austria per assicurare il mantenimento degli equilibri sanciti dal Congresso. Il testo dell’accordo, pieno di riferimenti religiosi, alludeva esplicitamente alla origine divina della monarchia e ne legittimava l’autorità contro le pretese dei sostenitori della sovranità popolare. Inoltre, il duraturo equilibrio dell’Europa auspicato dalla Quadruplice Alleanza – il trattato promosso dal ministro degli Esteri britannico Castlereagh per legare gli altri tre paesi dell’alleanza antinapoleonica alla politica del «concerto d’Europa» – si rivelò presto illusorio di fronte alle richieste di indipendenza di nazioni senza stato, alla progressiva rovina dell’Impero ottomano, ai ripetuti scoppi rivoluzionari del 1820-21, del 1830-31 e del 1848.
Gli sforzi messi in atto dalle grandi potenze per «denapoleonizzare» l’Europa non diedero i risultati sperati. I 25 anni appena trascorsi avevano notevolmente cambiato gli equilibri istituzionali, ma più ancora i «sentimenti» delle popolazioni di tutta l’Europa a ovest della Russia. Sul piano generale, la divisione in ceti propria della società di antico regime, colpita dai rivolgimenti del periodo rivoluzionario e napoleonico, era definitivamente scomparsa. In particolare, se prima degli anni rivoluzionari e napoleonici il «cittadino» entrava in contatto con il potere statale solo in quanto membro di una corporazione, di un ceto, di un comune, successivamente aveva imparato a pretendere un rapporto individuale con esso, senza mediazioni. Ovunque, inoltre, tanto nei paesi che furono occupati dalle armate napoleoniche quanto in quelli che le combatterono, la minaccia francese contribuì a creare un diffuso senso di identità nazionale che sollecitava cambiamenti istituzionali e forme di rappresentanza politica in forte contrasto con i princìpi sanciti nella Santa o nella Quadruplice Alleanza.
In gran parte delle regioni europee conquistate da Napoleone le riforme istituzionali e la riorganizzazione delle burocrazie statali realizzate dai nuovi regimi non poterono essere completamente abolite: i gruppi sociali, che il nuovo sistema aveva tratto fuori dall’anonimato e a cui aveva dato un nuovo ruolo, avrebbero opposto senz’altro resistenza a qualsiasi tentativo di restaurazione dell’ordine sociale preesistente. Si pensi a questo proposito a tutte le figure che nel Regno di Napoli avevano reso possibile l’organizzazione delle amministrazioni provinciali create dai governi di Giuseppe Bonaparte, prima, e di Gioacchino Murat, dopo. In particolare nei paesi che conobbero direttamente l’occupazione francese l’attività di ammodernamento delle istituzioni, la rimozione di molti istituti feudali, dei privilegi della nobiltà e del clero, la completa privatizzazione della terra e la vendita dei beni della chiesa, la riappropriazione da parte dello stato di molte prerogative concesse a privati (l’esazione delle imposte, ad esempio) lasciarono segni profondi che impedirono qualsiasi tentativo di ritorno al passato.
Figura descritta in didascalia.
L’Europa dopo il 1815
Non era più possibile ignorare le istanze di partecipazione politica – provenienti un po’ da tutta Europa – e la richiesta di strumenti capaci di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali da parte della corona. In Francia, Luigi XVIII – già nel giugno del 1814, dopo la prima caduta di Napoleone – concedeva una costituzione sul modello britannico, anche se gli organismi da essa previsti non ottenevano grandi competenze. In generale, durante la Restaurazione la Francia non ristabilì i privilegi sociali aboliti e non cancellò i diritti civili sanciti dalla Carta del 1814. E quando Carlo X tentò un ritorno al passato la rivolta non tardò ad arrivare. Anche in Italia, il dominio napoleonico produsse effetti duraturi: da una parte, infatti, contribuì a creare nuovi assetti istituzionali e a ridisegnare le relazioni tra i vari organi del sistema di governo; dall’altra, favorì un generale risveglio politico che rese centrale la questione nazionale in ambiti sociali non eccessivamente ristretti. La fine del Sacro Romano Impero, la creazione napoleonica della Confederazione del Reno, che si allungava dalla Svizzera al mar Baltico, furono certamente elementi decisivi per la creazione della Confederazione germanica voluta dal Congresso di Vienna attraverso la riunione delle trentanove statualità tedesche sotto l’egemonia austriaca. In conclusione, è assai significativo che carte costituzionali furono concesse nel Regno dei Paesi Bassi, nel Ducato di Nassau, nel Granducato di Sassonia-Weimar, e qualche anno dopo nel Baden e in Baviera, nel Württemberg e da ultimo in Assia-Darmstadt. In alcuni stati dopo il 1815 entrarono in vigore codici sul modello di quelli francesi: Paesi Bassi, Prussia Renana, Ducato di Parma, Regno delle due Sicilie. Perfino la Prussia, dove la costituzione non venne realizzata, pur non diventando uno stato di diritto assunse la natura di uno stato legale, dove gli apparati pubblici persero il potere di limitare libertà e proprietà individuali.

1.2. Rivoluzioni, agitazioni, movimenti di protesta

1.2.1. Il contesto rivoluzionario

Il Congresso di Vienna aveva cercato di raggiungere obiettivi impossibili; impossibili perché l’Europa dopo il 1815 era troppo mutata rispetto a quella degli anni precedenti alla rivoluzione francese. L’espansione delle attività industriali, per quanto arretrate, avevano dato un carattere più articolato a buona parte delle società europee. In Inghilterra, accanto a una aristocrazia e a un mondo legato all’«interesse agrario» orgogliosi del loro sistema istituzionale, era cresciuta una nuova realtà che riteneva quello stesso sistema istituzionale troppo esclusivo, incapace di rappresentare le domande dell’intera società. Negli anni successivi alla rivoluzione francese, una opposizione crescente alla «costituzione inglese» attraversava tutti i gruppi sociali legati al commercio e all’impresa: non solo banchieri, industriali, nuovi ceti medi, ma anche consistenti nuclei di artigiani, lavoratori di fabbrica, bottegai, piccoli commercianti. Contro le posizioni ideologiche di whigs e tories (le due principali forze politiche), questi gruppi diedero origine a una cultura radicale. Il radicalismo britannico non fu un progetto politico in senso stretto, ma si articolò in numerosi programmi differenti. Nel primo trentennio del XIX secolo, radicali plebei – come i seguaci di Thomas Spence o quelli che si rivedevano nel libro di Thomas Paine, The Rights of Man – e radicali della middle-class – che avrebbero avuto poi in John Bright l’interprete più ascoltato – trovarono il loro terreno comune nella riforma del sistema elettorale. In questa coincidenza di intenti non mancavano però le ambiguità. Da una parte, la middle-class invocava la riforma parlamentare per affermare l’ideale del libero mercato, caro ai gruppi commerciali e imprenditoriali; dall’altra, la working-class mirava a togliere all’«interesse fondiario» il monopolio della funzione legislativa per proteggere il proprio standard di vita contro la deregolamentazione economica e il laissez-faire.
I fermenti politici non erano limitati alla sola Gran Bretagna, ma erano diffusi in buona parte dell’Europa, Russia compresa. Esponenti del mondo finanziario, commerciale, nuovi ceti medi, studenti, militari ambivano a un allargamento delle istituzioni politiche e alla costruzione di diverse forme di rappresentanza. Questo movimento e le sue finalità si intrecciavano, secondo gradazioni diverse, con il crescente nazionalismo che dominava buona parte dell’Europa, alimentato anche dalla diffusione della cultura romantica. Il movimento decabrista in Russia, per quanto intriso di motivi patriottici e nazionali, fu nutrito di aspirazioni democratiche e di libertà politica. Scoppiato il 14 dicembre 1825, giorno dell’incoronazione dello zar Nicola I, il tentativo insurrezionale organizzato dagli ufficiali della guardia imperiale venne rapidamente soffocato. Al contrario, in Grecia si combatté esclusivamente per ottenere l’indipendenza dall’Impero ottomano. Tra questi due estremi, negli anni compresi tra il 1815 e la metà del secolo, si ebbero situazioni intermedie molto diverse. Tra i motivi di insoddisfazione non vi erano solo quelli di carattere politico, ma anche le difficoltà subite dai gruppi popolari a causa della prima industrializzazione: la discontinuità del lavoro manifatturiero e la privatizzazione della terra garantivano sempre meno quelle forme di integrazioni economiche che in passato avevano reso possibile la sopravvivenza dei ceti rurali. I motivi politici e culturali dell’opposizione alle istituzioni dei vari stati europei vanno ricercati negli schieramenti politici e culturali che si erano combattuti e avvicendati negli anni della rivoluzione francese. Militanti liberali moderati, radicali democratici, socialisti tra il 1815 e la metà del secolo si allearono e si scontrarono ripetutamente, ma solo raramente si separarono perché legati nella lotta contro lo stesso nemico: l’unione dei principi assolutisti.
In tutta la prima metà dell’800, i moti rivoluzionari si svilupparono in un paese e nell’altro con numerosi caratteri in comune; troppi per non pensare che vi fossero delle relazioni dirette tra un avvenimento e l’altro. A questo proposito, è stato notato come gli intellettuali che guidavano i movimenti rivoluzionari fortemente collegati con le realtà sociali regionali appar...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Formazione degli stati-nazione e grandi imperi (1815-1870)
  3. 2. Imperialismo e nazionalismi (1870-1918)
  4. 3. Dalla guerra alla pace armata (1917-1956)
  5. 4. Il mondo bipolare (1957-1991)
  6. 5. Il presente come storia