Cose viste
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Cose viste

Storie di uomini e altri animali

  1. 256 pagine
  2. Italian
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Cose viste

Storie di uomini e altri animali

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Uomini e animali. Storie di amore e di ferocia, di compassione e crudeltà, fuori dai sentieri più battuti del nostro immaginario.

Dai cani randagi crudelmente soppressi in Romania alle bambine cambogiane vendute per una notte ai nuovi ricchi cinesi, dal massacro degli yazidi in Siria a quello degli elefanti in Africa, questo libro racconta in presa diretta molti degli orrori che funestano il nostro pianeta. Le 'cose viste' da Pietro Del Re, da anni inviato di guerra, sono lo sterminio tra popoli e nazioni rivali e la violenza sull'ambiente e le sue creature più fragili, uccelli equatoriali o balene della Norvegia. Sono cronache, queste, che spaziano su più continenti, e senza distinzione di specie, con la convinzione che l'avvicinarsi il più possibile al dramma per ascoltare vittime e aguzzini, dannati e salvati, sia l'unico modo per smontare i meccanismi del Male, svelandone a volte gli ingranaggi meno visibili.Nel buio di tanto orrore brilla talvolta una scintilla di speranza nella tenacia, nel sorriso o nel coraggio di coloro che non si piegano davanti al crimine e all'ingiustizia. Sono loro che possono riscattare il mondo dall'abominio.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858126240
Argomento
Economia

A nord

«Kwal!», la balena! Eccola, finalmente. La vedo spuntare tra due iceberg inamidati, fugace come un’ombra, prima d’inabissarsi nuovamente nelle acque azzurro cupo del mar di Norvegia. «Kwal!», continua a gridare l’uomo in cima all’albero maestro. Nessuno sa dove si sia nascosta, ma adesso sono tutti sul ponte, per assistere alla sua cattura. A prora, il ramponiere ha il dito sul grilletto del cannoncino, e con lo sguardo scandaglia l’orizzonte in attesa che l’animale riemerga. «Kwal!», urla ancora la vedetta, indicando un punto in mezzo all’oceano. Ed eccola di nuovo. Ora si distingue meglio: oblunga, lucida, color canna di fucile. Ma che cosa fa, perché non scappa? Ignara della sorte che l’aspetta, punta verso di noi. Forse incuriosita dalla panciuta baleniera, creatura a lei sconosciuta, l’animale s’avvicina fiducioso. Nuota con disinvoltura, confidente e inconsapevole, a un centinaio di metri dalla bocca del cannoncino. Continua ad avvicinarsi, e ora è a soli cinquanta metri, a quaranta, trenta. Ho voglia di mettermi a urlare, per farla allontanare, ma tira un tale vento che a poco servirebbe. Il ramponiere non ha fretta. Aspetta fino all’ultimo, prima di sparare l’arpione con la carica esplosiva. Sento prima il rumore sordo della granata che esplodendo lacera le carni del cetaceo, poi quello della cima che scorre sul verricello. Gli estremi sussulti della balena durano qualche minuto, il mare si tinge di rosso. Quell’organismo di straordinaria potenza è ora una grossa massa inanimata, un pezzo di carne e grasso, subito issato a bordo della Beffengut.
Il vascello appartiene ai fratelli Jensen, cacciatori di balene da tre generazioni. Un’ombrosa categoria nel resto del pianeta ma che qui in Norvegia può rivendicare con fierezza il proprio mestiere. È composta da non più di duecento uomini: una piccola, irriducibile falange di predatori di cetacei che non si nasconde dietro l’alibi della ricerca scientifica, come da anni fanno invece i giapponesi e adesso anche gli islandesi. «No, la nostra è caccia commerciale. Per noi è una preda come un’altra. In autunno le aringhe, d’inverno i merluzzi e d’estate le balene», dice il più anziano dei fratelli, Bjørn, un uomo alto, con gli occhiali da miope e in testa, nonostante il freddo pungente, uno scolorito cappello da baseball. Certo, lo spettacolo è cruento, ma in fin dei conti non meno di quello offerto dalla nostra caccia al cinghiale o alla beccaccia. A sentire i norvegesi, la granata accorcia gli spasmi della sofferenza, rendendola meno barbarica, o «più umana». Una volta arpionata, è difficile che la balena riesca a scappare, mentre accade spesso che un cinghiale ferito da una doppietta muoia dopo ore di agonia, dietro al cespuglio dove è riuscito a nascondersi. Chiedo conferma all’ispettore sanitario che il governo norvegese impone a bordo di ogni baleniera, mansione che sulla Beffengut è ricoperta dalla giovane veterinaria Siri Knudsen. «è vero: otto balene su dieci muoiono istantanea­mente, come fulminate. Le altre sono stordite dall’impatto dell’esplosivo. È come se la granata le anestetizzasse prima di ucciderle», dice la donna.
Per fortuna, però, per la maggioranza di noi umani ammazzare una balena è un inviolabile tabù, come se i massacri di cetacei del passato avessero impresso a quest’attività il suggello della maledizione. Forse perché sebbene negli ultimi secoli ne abbiamo catturati milioni, loro continuano a guardarci senza odio. L’abominio fu raggiunto nel 1937, quando solo nell’Artico ne furono uccisi quasi cinquantamila. Oggi, la balena è anche il simbolo archetipale della salvaguardia degli oceani. Il panda dei mari. «Stupidaggini», insorge Bjørn. «Mi stanno bene i diritti degli animali. Ma allora bisogna riconoscerli a tutti gli esseri viventi. Vuole sapere che differenza c’è tra una balena o un maiale? Che la balena nuota liberamente fino alla sua morte, mentre prima di essere sgozzato il maiale soffre in una porcilaia».
Nonostante le sue sei tonnellate, il piccolo leviatano issato sul ponte della Beffengut ricorda un cucciolo di foca. La forma e l’indole sono in fondo le stesse. Ma per i fratelli Jensen è soltanto un gigantesco salvadanaio di quarti di carne. «D’accordo, è il totem dei protezionisti, ma per me non è più sacra di una mucca o di un tacchino», dice l’impenitente cacciatore. Il cetaceo ucciso appartiene alla specie della balenottera comune, o Balaenoptera acutorostata, l’unica che i norvegesi hanno ricominciato a cacciare nel 1993, in barba alla moratoria indetta sette anni prima dalla Commissione baleniera internazionale. Dal 2004, sfidando la comunità internazionale e i gruppi animalisti, hanno aperto la caccia anche nel Mare di Barents, sostenendo che fosse l’unico modo per combattere la diminuzione dei banchi di pesce, di cui appunto si nutrono le balene. È molto curioso che i più accaniti predatori di questi mansueti giganti del mare siano due tra i Paesi più ricchi e progrediti del pianeta, la Norvegia e il Giappone. È anche molto desolante però che entrambi giustifichino questa caccia sostenendo che essa sia radicata nella loro storia più antica. Nella Roma dei Cesari era ben radicata la schiavitù.
Ogni anno il governo di Oslo stabilisce la quota di balene cacciabili, che s’aggira adesso attorno agli ottocento esemplari e che viene spartita fra la trentina di piccole baleniere norvegesi. «A noi ne spettano venti, e con questa siamo a diciannove», dice Bjørn. «Del resto, anche i comitati scientifici dei proibizionisti riconoscono che nelle acque dove pratichiamo la caccia vi sono oltre centomila balenottere comuni. Il prelievo che operiamo è dunque minimo: meno dell’1 per cento. I nostri ‘crimini’, come li chiamano quelli di Greenpeace, non hanno nessun impatto sulla popolazione delle balenottere».
Intanto, la Beffengut si è trasformata in mattatoio. Vedo il coltello affondare facilmente nel tenero ventre dell’animale, che una volta eviscerato sarà macellato in grossi quarti sanguinolenti. Questi vengono calati nella stiva, il resto – coda, ossa, stomaco e testa – è gettato in mare. Delle sei tonnellate iniziali ne restano due di una carne che ricorda quella di cavallo, rosso scuro, e che sul mercato può raggiungere i 30 euro al chilo. Più del manzo. «è interamente assorbita dal mercato interno, anche perché non può essere esportata: i norvegesi la cucinano sulla griglia o la preparano a spezzatino. Da qualche anno, i ristoranti la servono anche cruda, tagliata come il sashimi di tonno o di spigola».
Siamo salpati dal porticciolo di Reine, nelle Lofoten, isolette norvegesi che si trovano alle stesse latitudini dell’Alaska e della Siberia, ma dove gli inverni sono meno rigidi per via della corrente del Golfo. Da allora, facciamo rotta verso nord, per incrociare le balene che migrano nella direzione opposta. Il pasto è servito una volta al giorno, ed è sempre lo stesso: merluzzo bollito con patate al burro. In compenso si beve caffè, tanto, tantissimo caffè, per rimanere svegli e sempre all’erta. C’è una sola cabina sul peschereccio, e spetta di diritto alla veterinaria Knudsen. Gli altri, me compreso, ovviamente, tutti sul ponte o nel pozzetto di poppa a fissare l’oceano. E a prenderci tutto il freddo e il vento del mondo.
Un’ora dopo la prima cattura, l’equipaggio è pronto a ghermire la prossima preda. Ma s’è alzato il mare. Adesso è più difficile avvistare balenottere, e con la barca in balia dei flutti sarebbe ancora più difficile centrarle con l’arpione. «Di solito hai solo un paio di secondi per mirare e sparare. Un colpo a vuoto costa caro perché per una granata ci vogliono più di 400 euro». I cacciatori sono buoni biologi marini. Per indovinare le rotte delle balenottere osservano la posizione dei ghiacci, misurano la temperatura dell’acqua o studiano gli spostamenti dei banchi di aringhe e di sgombri. «Sin dai tempi dei vichinghi, i ‘pascoli’ delle balene erano usati come punto di riferimento in mare dai navigatori dell’Artico. Ma negli anni Trenta e Quaranta le stragi operate dalle baleniere industriali hanno distrutto per sempre queste coordinate», sbuffa Bjørn, nel tentativo di nobilitare la caccia più ‘artigianale’ della sua modesta Beffengut, che è lunga appena 20 metri e ricorda la nave di Braccio di Ferro.
Ecco che in lontananza appare il capoccione squadrato di un capodoglio. Un bottino succulento, ma pescarlo è un divieto sacrale perfino per i norvegesi. Nessuna traccia di altri cetacei: stavolta la perizia dei cacciatori non basta. Bjørn decide quindi di rientrare. Ma a poche ore da casa, la vedetta scorge un’altra lucida gobba. Sarebbe la ventesima balenottera, l’ultima della stagione per l’equipaggio di Beffengut. Questa però è decisamente più scaltra e schiva della precedente. Non s’azzarda ad avvicinarsi, e sembra volersi fare beffa dell’equipaggio. Riemerge dove meno te l’aspetti, costringendo la baleniera a improvvise virate. Poi, stufa di giocare a nascondino, svanisce per sempre. «Stavolta ha vinto la balena», dice il cacciatore. «Ma la partita è rinviata all’anno prossimo. E lei non la dimentico davvero».
Il libro sta andando in stampa, e apprendo che i giapponesi hanno reso note le catture effettuate in Antartide dal 1° dicembre 2015 a fine marzo. Ebbene, nella stagione che s’è appena conclusa le loro baleniere hanno massacrato 333 cetacei. Non sapremo mai di quali specie.

La sfida

Ovviamente, preferisco chi le balene le protegge, come gli ecoguerrieri di Greenpeace, dei quali seguo l’allenamento nelle acque del Baltico, nel Nord della Germania, a pochi chilometri con il confine danese. Per fortuna ha smesso di nevicare, ma il termometro segna 7 gradi sotto lo zero. Sono da poco passate le 4 del mattino e un vento diaccio increspa di schiuma biancastra la superficie del mare: le previsioni meteo lasciano presagire il peggio. «Si parte, ragazzi, che Dio ce la mandi buona!», urla la vichinga Regine. Pochi minuti dopo, una piccola flotta di quattro gommoni lascia il porticciolo di Flensburg diretta verso Copenaghen. A bordo sono tutti infagottati nelle ingombranti floating suits, le tute di galleggiamento che li fanno somigliare a tanti Bibendum, l’omino Michelin. Li aspettano 170 miglia di navigazione, con onde alte anche due metri: quindici ore al gelo, fradici come pulcini dopo i primi minuti in mare aperto. È la cosiddetta «sfida»: l’ultima prova del corso degli ecoguerrieri. La più dura.
Ci sono volute due settimane di preparazione per poterla affrontare. Come spiega la decana del gruppo, Regine Frerichs, che di queste traversate ne ha già guidate una quindicina, una volta che hai superato la «sfida» sei pronto a fronteggiare le situazioni più difficili, come scalare una piattaforma petrolifera troppo inquinante nel Mare del Nord, sbarrare la rotta a un grosso cargo pieno di legname illegale proveniente dall’Amazzonia o inseguire una baleniera giapponese in Antartide.
Ma l’addestramento serve anche a selezionare i più idonei e a sviluppare in ognuno lo spirito di squadra. «Con una mano ti reggi alla cima, con l’altra al tuo compagno», dice Regine. Già, ma se cadi in mare? «A marzo, la temperatura del Baltico non supera i 5 gradi: hai una decina di minuti di sopravvivenza». Non stupisce quindi che nessuna compagnia abbia accettato di assicurarli per queste due settimane, come se si trattasse di uno sport estremo.
Una delle prime prove del boat training consiste nel ribaltare il proprio gommone in un canale di Amburgo. Ma devi farlo senza muta, per sentire quant’è fredda l’acqua e ficcarti in testa una regola d’oro: in mare non si deve finire, mai. «è stato uno shock termico, che m’ha tagliato il fiato», racconta Simona Fausto, torinese, studentessa di Scienze naturali. Agli apprendisti ecoguerrieri viene anche insegnato a navigare la notte a bordo di un guscio di noce nel porto della città tedesca, che è uno dei più grandi del pianeta.
Dopo una settimana, i ragazzi sono trasferiti sul Ryvar, un vecchio due alberi di legno, classe 1916, ancorato a Flensburg. E qui le difficoltà degli esercizi aumentano: dal recupero di un uomo a mare (con indosso stavolta una muta stagna), sempre controvento per avere la migliore governabilità del gommone, al trasbordo, da un’imbarcazione all’altra, di persone o taniche piene di benzina, con il motore a manetta. «Durante la traversata può accadere di tutto, dobbiamo quindi essere pronti al peggio», racconta Pierdavide Pasotti, l’altro italiano a bordo del Ryvar, ma, a differenza di Simona, è un cosiddetto master, un insegnante. Nato e cresciuto a Peschiera del Garda, Pierdavide è di quelli che si sentono più a loro agio in barca che sulla terraferma.
Dal 1971, quando organizzarono una crociera in Alaska per denunciare gli esperimenti nucleari, le azioni di protesta degli attivisti di Greenpeace sono sì spericolate ma sempre pacifiche, come se il loro modello fosse a metà tra un funambolo e il Mahatma Gandhi. «Non possiamo partecipare a una missione senza aver prima seguito un corso di non violenza, dove ci insegnano a non reagire alle provocazioni», mi spiega Pierdavide.
Durante gli ultimi giorni, che piova, grandini o nevichi, le uscite in gommone si intensificano. Ogni tre ore, si torna a bordo del Ryvar, per riscaldarsi sottocoperta con una tazza di tè bollente. Il veliero somiglia allora a un rifugio d’alta montagna, tutti con le guance rosse e i capelli in burrasca, che pestano i piedi e si sfregano le mani intirizzite dal freddo. Che si tratti di sequestrare le micidiali reti spadare nel Mediterraneo o di occupare la ciminiera di una centrale che sta per essere riconvertita a carbone, le operazioni di Greenpeace sono sempre spettacolari, perciò rischiose. «Non possiamo quindi improvvisarle», dice ancora Pierdavide. «Organizzare l’addestramento a marzo nel Nord della Germania è un modo per simulare le condizioni che alcuni di noi potranno trovare un giorno in Antartide, dove con un gommone devi correre dietro a una baleniera, superarla e piazzarti tra la balena e l’arpione. E da lì, mentre l’equipaggio nemico t’innaffia dal ponte con potenti idranti, non ti devi muovere. Perché appena gli lasci libero il campo visivo, il ramponiere spara al cetaceo. In quelle condizioni, non puoi permetterti di sbagliare».
La «sfida» è durata quattordici ore e mezzo, senza contare la fermata di venti minuti, in un porto danese, per il rifornimento di benzina. Come previsto, appena usciti da Flensburg, i gommoni hanno trovato il mare in tempesta, e tra quei cavalloni hanno navigato fin quasi a Copenaghen. Nessuno è caduto in acqua, ma si sono sentiti male in tre. Lo spirito di squadra ha funzionato. Alla vigilia della partenza Simona aveva 38,5 di febbre. Ha preso due aspirine, ma invano, perché alle 4 del mattino la febbre non era scesa. Lei s’è imbarcata lo stesso. Regine m’ha poi confidato che la studentessa torinese ha brillantemente superato la prova. Meglio della maggior parte dei lupi di mare che tra quelle gelide onde navigavano assieme a lei.

Allevatori artici

Le renne trotterellano compatte, con un sincronismo stupefacente, quando da un boschetto di betulle nane s’alza in volo una coppia di cigni selvatici. Il sole è tramontato da più di un’ora ma il cielo dell’Artico norvegese è ancora rosa acquarello. «Quest’anno la primavera è in anticipo», m’informa Isak Mathis Triunf, insaccato nel suo pesk, la pelliccia dei popoli del Nord. Isak ha il viso cotto dal freddo e gli occhi chiarissimi. Da ore, a cavallo di una motoslitta, sta cercando di contenere la mandria, tagliandole la strada quando questa punta nella direzione sbagliata. In poche settimane la temperatura è salita da 50 a 20 gradi sotto lo zero e le renne scalpitano: vorrebbero migrare verso la costa, dove i pascoli sono più abbondanti e dove tra un paio di mesi i venti marini le proteggeranno da zanzare grosse come polli. Ma la transumanza, così ha stabilito il Parlamento lappone, comincerà soltanto a metà maggio. Intanto, l’inarrestabile scioglimento dei ghiacci del Polo Nord apre nuove rotte per le superpetroliere russe e presto consentirà lo sfruttamento degli enormi giacimenti nascosti sotto il pack. Isak già teme il peggio: «Per colpa di lupi, aquile, ghiottoni e linci perdiamo tre cuccioli di renna su dieci. Se adesso ci si mettono anche i petrolieri, il nostro avvenire di allevatori è davvero compromesso».
Nel terzo millennio, i lapponi o, meglio, i sami, come preferiscono chiamarsi, sono entrati prepotentemente nella modernità: controllano le renne solo con le motoslitte e, anche tra i blizzard che spazzano la tundra, tengono sempre il cellulare incollato all’orecchio. D’estate guidano potenti 4x4 e per radunare le mandrie capita perfino che usino l’elicottero. Il loro passaggio da una vita seminomade alla cultura dell’informatica è stato fulmineo. «Ma sotto questa patina tecnologica c’è uno stile di vita ancestrale, senza il quale gli allevatori di renne non saprebbero fronteggiare né i capricci di animali addomesticati solo per metà, come sono le renne, né le bizze di un clima feroce», spiega il linguista Ole Henrik Magga, che è stato dal 1989 al 1997 il primo presidente del Parlamento sami in Norvegia.
Nei secoli, per sopravvivere in un ambiente così impietoso, i sami hanno sviluppato un forte senso di adattabilità. Più recentemente, da una democrazia ricca e illuminata come quella norvegese, sono riusciti a ottenere leggi con cui oggi possono far valere i loro diritti. Eppure, tra il 1850 e il 1970, la loro ‘norvegizzazione’ è stata brutale. Ai sami era proibito parlare la loro lingua, i loro bambini venivano strappati alle famiglie e mandati nei collegi della Corona, e gli adulti erano assimilati a forza alla vita occidentale. I pochi ai quali fu consentito di continuare a lavorare con le renne, divennero i custodi della cultura sami. «Quando ero bambino, i norvegesi ci consideravano come gente ignorante, stupida e accattona», ricorda Magga.
Ma le cose sono cambiate. A Kautokeino, nell’estremo Nord della Norvegia, è stato, per esempio, inaugurato il nuovo edificio dell’università sami, che ospita ca...

Indice dei contenuti

  1. La via dei cani
  2. Memoria da elefante
  3. A nord
  4. La strega e l’orco
  5. L’Eden rinato
  6. Il più primitivo degli uomini
  7. Into the wild
  8. La tigre dagli occhi a mandorla
  9. Il destino dell’orsa
  10. La foresta delle tre domeniche
  11. Economia contemplativa