La cura di sé come processo formativo
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La cura di sé come processo formativo

Tra adultità e scuola

  1. 224 pagine
  2. Italian
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La cura di sé come processo formativo

Tra adultità e scuola

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Cosa significa prendersi cura di sé e quale influenza ha questa pratica nel percorso di crescita di un individuo: Franco Cambi esplora un tema complesso, intrecciando il piano pedagogico con la categoria della ‘cura' in generale, concetto chiave della vita sociale e individuale. Un manuale che prefigura un iter formativo perché l'individuo si faccia guida di se stesso, coltivi la propria interiorità e riesca a divenire sempre più ‘persona'.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115794

1. Aver cura della «cura»

1. La «cura» nella cultura contemporanea

La cultura già del secondo Novecento ha messo sempre più al centro la nozione di cura. Partendo proprio dal ruolo assunto in tale stagione culturale dalle scienze umane, ormai pienamente legittimate; anche viste come «fondative» di tutta la cultura: si pensi al ruolo dell’antropologia culturale per definire una «civiltà» e a quello della pedagogia per fissare la riproduzione di questa e la sua stessa tradizione. Scienze in costante espansione sia tra i saperi sia nella società. La nozione di cura si presenta come il volto tecnico di quei saperi e come il telos che tutti li accomuna, in quanto rivolti, attraverso la conoscenza, a cambiare le condizioni in atto del soggetto, della società, della cultura stessa. Le scienze umane sono, sempre, conoscitive e applicative: lo è la psicologia, lo è la stessa sociologia, ma lo sono anche, e in modo eminente, la medicina e, perfino, l’economia o la politologia, o la stessa antropologia culturale. Forse meno, molto meno, la linguistica che, infatti, per il suo ruolo descrittivo si è imposta, nello strutturalismo contemporaneo, come il modello interpretativo di base, di riferimento, e generativo – potremmo dire – di tutto quel parterre di scienze. Forse, se pure in modo particolare, la stessa storia: che interpreta il passato per dominare la tradizione in cui viviamo e che solo in senso più debole e secondario viene a mutare (ma poi non è, di fatto, sempre così: non lo è quando la storia si fa ideologia, fissandosi come filosofia della storia) le nostre azioni umane, individuali o collettive. Il passaggio dalla teoria alla prassi in tutte queste scienze assume il volto, più o meno in modo esplicito o implicito, dell’aver-cura e del prendersi-cura per attivare trasformazioni, mutamenti, sviluppi, etc.
Bene già Habermas aveva visto questo focus delle scienze umane quando, nel suo Conoscenza e interesse, aveva fissato l’«a priori di senso» di tali scienze nell’emancipazione: nella trasformazione come liberazione da, e come sviluppo di, liberazione da condizionamenti, sviluppo di potenzialità. Ancora oggi dobbiamo riconoscere che tale paradigma interpreta ab imis l’identità delle scienze umane, sia nel loro identikit teorico sia nel loro ruolo storico-culturale. Si pensi solo a due scienze umane estreme tra loro: la psicoanalisi e l’economia.
La psicoanalisi freudiana, in particolare, è disciplina di cura e nasce dalla e sulla cura. Teorizza l’inconscio, la relazione edipica, l’Eros/Thanatos, la tensione repressione/sublimazione come strumenti per liberare il soggetto e restituirlo alla sua autonomia, portando sì «Ego dove era Es», ma anche esplicitando in ciascuno la potenza stessa dell’Es. Trasformandolo interiormente con un atto di cura: sia medica sia pedagogica. Non solo: la teoria è poi costruita per la cura, va applicata alla nevrosi e per tale scopo si dà tutto un fascio di strumenti incardinati sulla parola e sulla memoria e sul dialogo. Anche come terapia la psicoanalisi si definisce secondo il modello della cura, in parte recuperando quello medico, in parte integrandolo in ottica pedagogica.
E l’economia? Sì, anche l’economia è disciplina di cura, rivolta a comprendere-per-regolare i processi di produzione e le loro trasformazioni, a costruire modelli-per-agire: e ciò è avvenuto in Smith col suo modello liberistico, in Marx col suo modello socialista, in Keynes col suo modello di Welfare State; modelli che poi di fatto hanno agito, e in profondità, nell’evoluzione economica delle società, sia legittimando scelte e comportamenti, sia prefigurandone l’identità più compiuta e organica.
Certamente, però, è soprattutto in medicina e in pedagogia che la cura è venuta dichiarando, e da sempre, il proprio ruolo centrale e il proprio stemma sia teorico sia pratico. In medicina, già con Ippocrate e il suo giuramento. Poi con Galeno e la scuola salernitana, fino al Settecento e alla «nascita della clinica». Lì, aver cura significa dedicarsi a un «oggetto debole» (il corpo malato o la psiche malata) da interpretare nei sintomi, sul quale fare diagnosi e per il quale fissare terapie (passando dal generale – la malattia – al particolare – il malato) e assumendo un ruolo di sostegno in vista del recupero della salute. La cura, in medicina, si è fatta sempre più tecnica: chirurgica, farmacologica, ma anche semiologica e/o terapeutica, connessa a precisi standard interpretativi e applicativi. E la stessa tecnicizzazione della medicina attuale ha sempre più esaltato tale modello.
In pedagogia, da Socrate in poi, seguendo il profilo dei grandi educatori (da Comenio a Pestalozzi, a Makarenko) e poi anche dei teorici della «relazione educativa» (da Seneca a Montaigne, a Rousseau, a Ferrière, etc.), la cura si è imposta come dispositivo-chiave. Che altro è educare (come educere o come edere) se non prendersi-cura e prendere-in-cura (che sono due cose diverse) un soggetto, un gruppo (una classe scolastica, ad esempio), una istituzione-sociale-fatta-di-individui (scuola, associazione, partito che sia o altro)? Prendersi-cura è proiettarsi-su, a tutela, tramite comprensione e progettualità, con dedizione, con atto donativo, con empatia e con giudizio insieme. Prendere-in-cura significa assumere in sé l’onere di una crescita, che si compie nell’autonomia del soggetto o dei soggetti posti in educazione, ma che va guidata e rispettata nei suoi itinera, va compresa nei suoi percorsi autonomi (connessi a carattere e/o a volontà), va valorizzata nel suo cammino anche e quasi sempre a zig-zag. In pedagogia la cura inverte l’ordine tipico della medicina: va dal particolare al generale e si incardina proprio sulla passione-del-caso, singolo, specifico, irripetibile che ogni soggetto o gruppo viene a rappresentare e a presentare all’educazione stessa, reclamando un trattamento sempre ad hoc. Potremmo dire che la cura in medicina è più tecnica e si salda più strettamente alla scienza, o almeno tende a questo traguardo. In pedagogia è più vicina all’arte e si modella su un sapere poietico, ermeneutico-prassico, ma che è pur sempre sapere. E costruito secondo-rigore.
Nell’ambito del pensiero contemporaneo, sia per la crescita e lo sviluppo delle scienze umane (e sviluppo di peso culturale, in particolare), sia per le trasformazioni stesse della società (più «liquida», più incardinata sugli individui e su individui in crisi sia di ruolo sociale sia di identità psichica e interiore, sempre più disorientata, legata al «disincanto», ai «simulacri», al potenziamento dell’immaginario e alla perdita di tradizioni, vincoli, modelli imposti e condivisi), la cura si è venuta a imporre come categoria-chiave a cui si guarda con attenzione e speranza, ora declinandola in senso tecnico ora in senso poietico, ma confermandola proprio come «categoria d’epoca» a cui dobbiamo tener fisso lo sguardo, con decisione. Perché a essa è, forse, delegato sempre di più il controllo delle trasformazioni antropologiche e sociali. O, almeno, dovrebbe essere. In modo da dare a tali trasformazioni un’ottica di tipo equilibrato (o ecologico) quale punto-di-arrivo, rispettando così la complessità della diagnosi e quella della terapia, comunque esse si elaborino (in senso tecnico o poietico).
Sullo sfondo sta anche la stessa filosofia che – nel Novecento, proprio tra esistenzialismo ed ermeneutica – ha rimesso al centro la nozione di cura. Come stare-nella-cura alla Heidegger o esercitare una terapia su se stessi secondo la cura sui rilanciata da Foucault. Comunque la filosofia ha riletto l’ànthropos cogliendo nell’ambivalenza della cura la sua identità più profonda: ora come dispersione presso le «cose», come forma inautentica di esistere e quindi di legare il soggetto agli «esseri», portandolo lontano da sé; ora come ritorno in se stessi, assumendosi come soggetti-in-sviluppo (e in sviluppo della propria humanitas: fatta di libertà e di senso, di ordine e di carattere, di gerarchie di valori e di fedeltà a essi) da interpretare e tutelare secondo la pratica della cura sui (ermeneutica e ascetica al tempo stesso).
Questo l’orizzonte su cui, oggi, si dispone il dibattito sensibile e aperto che è presente in pedagogia e che qui vogliamo cercare di analizzare per meglio fissarne i volti e il significato.

2. Intorno all’approccio pedagogico

Il lavoro attuale, in campo pedagogico, attorno alla nozione e alla pratica della cura si è attivato sia sotto la spinta dell’incrocio, sempre più stretto, tra la pedagogia e altri saperi – come è ovvio che accada nel tempo in cui tra il pedagogico (come riflessione sull’educare/formare) e i vari saperi-come-fonti («le scienze dell’educazione») i nessi si sono resi sempre più forti e codificati –, sia per il bisogno di dare una risposta a problemi empirici e storici di «deriva dell’io», di «perdita del sé», di progettazione esistenziale aperta e problematica così tipica del nostro tempo: flessibile, inquieto, de-costruttivo, improntato al nomadismo, etc. Un tempo senza certezze e sempre alla ricerca di una prospettiva di senso. Così la cura si è imposta come categoria centrale del pedagogico: con la formazione, col nuovo statuto del soggetto (sempre in fieri come «persona»), con la comunicazione (formativa), col sostegno, l’ascolto e il dialogo, col paradigma ecologico, etc. Ciò spiega il nutrito numero di studi che si sono inoltrati sul suo complesso territorio, declamandone – ancora – complessità, ricchezza, centralità.
Il primo input è venuto proprio dalla filosofia. Da Heidegger a Foucault. E lì si è posto in luce il doppio significato di cura: come rischio di vita inautentica, saldandosi all’immersione nella contingenza del mondo reale, al venir riassorbiti nel qui-e-ora, sociale e culturale, perdendo ogni capacità di filtro e di ricostruzione rispetto all’esperienza vissuta nel tempo e nello spazio (ma, anche qui, cura vale come partecipazione, come adesione, come prossemica «empatica»); poi come recupero del sé dentro l’io fluido e disperso, così tipico dell’oggi, ma che è chiamato (e proprio da se stesso) a darsi ordine, senso, prospettive di esistenza, prendendosi in cura: ed è la cura sui che qui si afferma come ermeneutica del soggetto e come sfida aperta e costante dell’io a se stesso, caratterizzandolo proprio nel suo compito formativo.
Accanto a questi «maestri» si è collocata anche un’altra frontiera di filosofi che da Ricoeur a Lévinas, dalla Zambrano alla Nussbaum hanno, per vie diverse ma convergenti, richiamato l’attenzione alla cura: di sé, dell’«amicizia», dell’«umanità» di ciascuno, dando corpo a un umanesimo antropologico aperto e critico, che sul sé fissa la presenza dell’altro, dell’«altro uomo» e insieme la ri-costruzione sempre aperta e problematica dell’io. Ma, comunque, fissando la cura (e coltivazione) come asse portante del soggetto attuale, del Postmoderno, del Disincanto o di altro che sia.
Poi le scienze: già la psichiatria, poi la psicologia dinamica, infine la medicina e la stessa antropologia culturale sono intervenute rilanciando il principio-modello della cura. Per la psichiatria si pensi a Binswanger e alla sua fenomenologia esistenziale applicata alla cura della malattia mentale, posta in relazione – sagacemente – alle «esistenze mancate»; ma anche a Laing o a Cooper e al loro apparato concettuale sartriano così aperto alla lettura dialettica del soggetto e della sua progettazione esistenziale. Per la psicologia dinamica sono le figure di Winnicott o di Bion che devono esser tenute presenti, per la loro lettura progettuale (ancora) del soggetto e per il suo proiettarsi tra «gioco» e «catastrofe» dentro un’avventura del fare-esperienza di cui non si può essere che costruttori, più o meno liberi, più o meno consapevoli, ma sempre «prendendosi in cura». Anche Rogers, con la sua «terapia centrata sul cliente» che sposta l’accento della cura alla cura-di-sé (in chiave psicoanalitico-sociale), si è posto su questa lunghezza d’onda. E, infatti, il suo modello psicologico-dinamico ha avuto largo peso in pedagogia, anche in Italia, dalla Lumbelli a Scurati. E la medicina? Già i suoi studi epistemologici (alla Canguilhem o alla Foucault) o storici (come, qui da noi, Cosmacini) hanno posto in luce il significato della cura (aver cura; creare spazi e pratiche di cura; articolare tecnicamente il curare; riflettere sul significato medico del curare: ora riportare in salute, ora convivere con la malattia, ora «prepararsi a morire», etc.) e ne hanno ridefinito i confini dentro quella «clinica» che è insieme dispositivo mentale e spazio istituzionale, ma proprio riconfermandone la centralità, il ruolo di focus. Anche l’antropologia (culturale e sociale) ha dato i suoi contributi: ad esempio col femminismo e col suo rilancio del «codice della madre» e del suo identikit del prendersi-cura o dell’«amore pensoso» (detto con Pestalozzi). E si pensi alle ricerche della Gilligan, della Muraro, ma anche ai richiami della Irigaray o della Kuhse. Tutte voci che, tra femminismo e cura, hanno posto un legame forte e organico, predisponendo quel «mutamento di paradigma» culturale (dal maschile, sempre centrale anche nella psicoanalisi, da Freud a Lacan, a un femminile/maschile che proprio sui valori femminili, vissuti dalla donna, trovi il nuovo baricentro) che, per via culturale e/o politica, pur tra tante timidezze, tra tanti blocchi e rinvii, è ormai in cammino.
Da tutte queste posizioni, tutte ben intrecciate col pedagogico, è venuto al «sapere dell’educazione» il doversi confrontare e poi anche il dover assimilare e ri-pensare tale neodispositivo (o paradigma? come lo sono la formazione o l’ecologia o l’io/sé-multiplo/aperto? è un punto su cui riflettere) e curvarlo, appunto, en pédagogie. Che significa specificarlo teoricamente e disporlo strategicamente: come sta accadendo nella riflessione pedagogica attuale. In Italia, in Europa e altrove (gli Usa, per esempio).
E per via storico-empirica come si impone tale neodispositivo? Attraverso il malessere dell’io (di ogni io) nella società «affluente», ma anche carica di esclusioni e di conflitti, sempre più capace di creare emarginazioni e derive esistenziali, di dar corpo a un io-senza-sé, intrappolato nella «gabbia d’acciaio» o nel groviglio paralizzante del proprio vissuto dis-orientato e magmatico-caotico, in cui la libertà appare, alternativamente, si...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Parte prima. Riflessioni sulla cura
  3. 1. Aver cura della «cura»
  4. 2. La cura in pedagogia: struttura, statuto, funzione
  5. 3. L’aver «cura di sé»: un compito «lifelong»
  6. Parte seconda. Le vie maestre della «cura sui»
  7. 1. La funzione formativa della narrazione
  8. 2. Leggere per formarsi: un’avventura tra costruzione di sé e conoscenza del mondo
  9. 3. La scrittura come «cura di sé» e come piacere... formativo
  10. 4. L’autobiografia come cura di sé
  11. Parte terza. Altre frontiere degli «esercizi spirituali»
  12. 1. Attraversare spazi per formarsi
  13. 2. Farsi «flâneur»
  14. 3. Praticare l’ironia come «forma mentis»
  15. 4. Dialogare con l’arte
  16. 5. Poesia e cura di sé
  17. 6. Classici e «cura di sé»
  18. 7. Et alia...
  19. Parte quarta. Quasi un epilogo
  20. 1. La cura di sé: categoria-chiave del presente
  21. 2. La filosofia «diffusa» oggi: percorsi e funzione
  22. Postfazione
  23. Tra adultità e scuola