1097. Genova e la prima crociata
di Franco Cardini
Una città, come ha detto il grande Roberto Sabatino Lopez, è anzitutto uno stato d’animo. Non bastano le mura, gli edifici pubblici – religiosi e civili – e quelli privati, le attività economiche. Un centro demico, grande o piccolo che sia, non è ancora civitas. Quel che «fa» la città è, si direbbe oggi con una parola in sé alquanto ambigua ma che va di moda, l’identità: cioè una comune e comunitaria visione del mondo. E bisogna rendersi conto con finezza e profondità quando, nella «lunga durata» (talora nella «lunghissima durata» delle nostre città mediterranee, spesso plurimillenarie), irrompono quelle «emergenze», cioè accadono quegli eventi e si elaborano quei valori che inducono una società di uomini e di donne la quale ha in comune una certa porzione di territorio, delle strutture abitative, dei legami familiari e solidaristici, delle tradizioni e degli interessi comuni, a «sentirsi città»; e non solo a organizzare il presente e a pianificare il futuro, ma anche a rileggere e a reinterpretare il passato alla luce di questo suo nuovo sentimento ch’è, esso stesso e di per sé, già in quanto tale un progetto.
Ecco perché può anche esser utile e legittimo, perfino necessario – ma non è mai sufficiente –, scrivere una storia cronologica e deterministica delle nostre città, trattandole alla stregua di quello che Oswald Spengler evoluzionisticamente pensava del «destino» delle civiltà, che nascono, fioriscono, maturano e si avvizziscono come piante.
Parliamo dunque di Genova e della sua storia. Che ha radici senza dubbio molto antiche, forse celto-liguri, certamente (come tutti sappiamo) romane; fu alleata di Roma nelle guerre annibaliche e principale porto della Gallia Cisalpina, quindi centro dominato dall’impero romano-orientale nell’età giustinianea e postgiustinianea, nel tentativo di ricostituzione dell’unità imperiale spezzata alla fine del IV secolo; poi centro controllato dai longobardi e forse tenuto un po’ in disparte al tempo dell’esperimento del regnum Italiae carolingio, tra VIII e primi del X secolo.
Ma, parlando di Genova per quel che fu, o che noi possiamo ricostruire che sia stato, non si sfugge alla comune logica di chiunque ripercorra vicende passate: di esse si finisce col parlare sempre e nella misura in cui riguardano il presente. È la legge enunziata dalla «Seconda considerazione inattuale» di Nietzsche, quella dedicata all’Utilità e il danno della storia per la vita: e non c’è «obiettività», non c’è metodologia storica che tengano. Noi non parliamo qui tanto della «Genova che fu», ch’è perduta per sempre e non sarà mai ricostruibile storicamente com’era: parliamo di «Genova per noi», di quel ch’è diventata anche nella riflessione storica dei suoi studiosi e nell’idea diffusa dei suoi cittadini, quella che tutti noi possiamo verificare contemplando una volta di più la facciata affrescata di Palazzo San Giorgio, quella «nobile», a ovest, che guarda il porto antico e il mare: dove l’effigie dorata di Guglielmo Embriaco, il «Testadimaglio» – una versione «economica» di quella che avrebbe dovuto essere una costosissima statua in bronzo –, mostra trionfalmente la più santa e prestigiosa delle sue prede, il «Sacro Catino di Cesarea». Il Testadimaglio del mito cittadino, che tanto ha inciso sull’elaborazione identitaria genovese, non è opposto o alternativo alla realtà storica. Della storia il mito fa sempre parte integrante: è storia esso stesso.
Qualcuno continua a parlare di quelli del cosiddetto «Medioevo» come di «secoli bui»: che senza dubbio non furono tali ma che, se e quando e nella misura in cui lo furono, tali furono anzitutto e soprattutto in quanto ci fa difetto, per adeguatamente illuminarli, la luce d’una documentazione archeologica e storica che in effetti purtroppo manca o è comunque carente. Ma è in quei secoli «bui», nel «buio» della Genova carolingia e postcarolingia, che bisogna guardare se vogliamo comprendere meglio quel ch’è accaduto più tardi. Un «buio» brulicante di umanità e di attività, nel quale fermentano e proliferano le premesse climatiche, ambientali, demografiche, geo-storiche e socio-religiose della futura e in apparenza repentina «esplosione» civile e culturale.
Le tenebre paiono in effetti d’un colpo diradarsi, come appare in certe fredde mattine quando Istanbul, vista dal mare, si libera ad un tratto della spessa cortina di nebbia che fino a un istante prima la nascondeva e – come splendidamente la descrive Edmondo De Amicis in una magistrale pagina dei suoi diari di viaggio – trionfa nell’inatteso sfolgorar delle sue cupole d’oro e d’argento. Ma Genova, al pari d’Istanbul, non nasce affatto d’un tratto, come Atena tutta armata dalla testa di Zeus.
Il momento magico del suo emergere dalla bruma dei secoli bui non è né il 1097, che qui celebriamo come anno di partenza delle galee cerulee che avrebbero solcato il mare fino a condurre i genovesi sotto Antiochia, né il 1099, che li vide coprotagonisti della conquista euro-occidentale di Gerusalemme (la «prima crociata», come si è abituati a dire), né il 1101, che assisté alla presa di Cesarea di Palestina, né infine il 1109, in cui essi s’impadronirono di Jebail, cioè di «Gibelletto», poi diventata feudo oltremarino d’una grande famiglia appartenente alla cerchia dei maiores cittadini. Parleremo, certo, di questo glorioso dodicennio: e ne parleremo come fase centrale e fondamentale d’un più lungo periodo, grosso modo dalla metà dell’XI a quella del XII secolo, che vide la città ingrandirsi, fortificarsi, cingersi di nuove mura e acquisire sia una decisa configurazione socio-politica al suo interno, sia una precisa immagine nel contesto non solo italico, ma europeo e mediterraneo, che si andava profondamente rinnovando.
Ma è all’evento erratico ed enigmatico del 935 che bisogna in prima istanza guardare. A quel furioso e crudele assalto saraceno che in quell’anno colpì Genova lucrando un ricco bottino in beni pregiati e in schiavi, e alla dura, immediata, rabbiosa rappresaglia che gli fece seguito. Ne parliamo con sicurezza poiché l’archivio della Genizah del Cairo e gli scrittori arabi confermano quell’assalto, portato contro una città ch’era non certo debole e povera, bensì al contrario già tanto ricca da apparire una più che appetibile preda in quanto porto di un entroterra padano-piemontese ben collegato alla Borgogna e alla Provenza, centro d’una certa importanza di smistamento di manufatti tessili e tappa di rotte navali che lo collegavano ad Alessandria e alle città costiere occitano-catalane in un tempo nel quale – diciamolo come l’avrebbe detto Arnold Toynbee – la «sfida» dell’offensiva corsara arabo-berbera andava affievolendosi in corrispondenza con l’esaurirsi della prima ondata offensiva musulmana e la risposta dei «franchi» e dei «latini» euro-occidentali, dopo la falsa partenza dell’impero carolingio e il frammentarsi della sua esperienza, si stava al contrario configurando con sempre maggior energia. La notizia dell’immediata ed efficace vendetta arriva invece da una cronaca più recente, quella tardo-duecentesca del domenicano e vescovo genovese Giacomo da Varazze: ed è significativa sul piano dell’elaborazione della coscienza identitaria cittadina, ma in sé appare un po’ sospetta.
Forse la Genova di quell’anno non aveva ancora la forza di replicare, in realtà, a un assalto saraceno. Ma esso è prova che la città, arroccata attorno al suo castrum alto sullo specchio delle acque marine, era già in grado d’interessare e magari perfino di preoccupare quelli ch’erano, allora, i quasi incontrastati signori del Tirreno, i corsari arabo-berberi provenienti dall’Africa settentrionale e dai nidi costieri iberici. Il colpo dovette esser grave, ma non tale da metterla in ginocchio: se è vero quel che appare dalle fonti, che cioè l’attività marinara e mercantile cittadina ne venne quasi immediatamente rafforzata. Non è certo un caso se pochi lustri dopo, nel 951, i due re d’Italia, Berengario e Adalberto, approvarono le consuetudines cittadine genov...