Come (e perché) uscire dall'euro, ma non dall'Unione europea
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Come (e perché) uscire dall'euro, ma non dall'Unione europea

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Come (e perché) uscire dall'euro, ma non dall'Unione europea

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Lo scopo principale dell'uscita dall'euro sta nel riconquistare per l'Italia una tangibile quota di sovranità in tema di politiche economiche, sociali, monetarie, dopo gli espropri subiti per mano delle istituzioni dell'Unione europea, talora eseguiti violando gli stessi trattati dell'Unione con il consenso del nostro governo.Luciano Gallino

Luciano Gallino non era un euroscettico. Considerava l'Unione europea la più grande invenzione politica, civile ed economica degli ultimi due secoli. Ma vedeva con sofferenza questa Europa ridotta al servizio delle potenti lobbies della finanza e delle banche, portavoce delle maggiori élites europee a scapito dei diritti fondamentali della grande maggioranza dei cittadini e, cosa ancor più grave, culla di un'inarrestabile redistribuzione del reddito e della ricchezza dal basso verso l'alto, con la conseguente crescita delle disuguaglianze.Era sua convinzione che le politiche economiche e sociali dettate dai mercati finanziari hanno portato gli Stati a una cessione di sovranità in materia di spesa per protezione sociale, scuola, università, quota salari sul Pil, contratti di lavoro e molto altro ancora. L'euro si è così trasformato nello strumento della vittoria del neoliberismo su ogni altra corrente di pensiero. A causa di un'errata interpretazione della recessione, il peso esorbitante del sistema finanziario non ha avuto un freno, le relazioni industriali sono arretrate, i sindacati sono stati ridimensionati, la mancanza di occupazione mostra il profilo di una catastrofe sociale.Prima che gli effetti del dissennato 'Patto fiscale' facciano scendere una cappa soffocante di miseria sulle prossime generazioni, Luciano Gallino elenca i modi concreti per uscire dall'euro, rimanendo l'Italia paese membro dell'Unione europea. Una soluzione per recuperare agli Stati la propria sovranità, restituendo alla democrazia la sua sostanza.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858126165
Argomento
Economia

I. L’Unione neoliberale

L’Unione europea è una democrazia? A giudicare dagli ultimi anni, dovremmo rispondere di no. Essa appare come un regime sempre più dispotico, capace di violare non solo gli stessi trattati che lo istituiscono, ma perfino – con la collaborazione del Fondo monetario internazionale – i diritti umani. E per capire come non si tratti certo di un dispotismo illuminato, basta aprire gli occhi sui disastri che, dal 2010 in poi, l’Unione neoliberale ha provocato. Anziché preparare i cittadini a decenni di sudditanza politica ed economica e a una recessione di cui nessuno riesce a prevedere il termine, i governi europei dovrebbero dunque affrettarsi a modificare i trattati. Se ciò non accadesse, qualcun altro potrebbe assumere l’iniziativa, per abbattere non solo questa Ue dittatoriale, ma l’intera architettura istituzionale comunitaria.

La crisi greca e le colpe della Ue

La crisi greca ha mostrato in modo impietoso come il sistema finanziario di fatto governi ormai la Ue mediante i suoi bracci operativi: la Commissione europea, il Fmi e la Bce. I governi eletti dal popolo hanno scelto da tempo di fungere da rimorchio al sistema finanziario. Avrebbero dovuto riformarlo dopo l’esplosione della crisi nell’autunno del 2008, quando, con le parole del ministro tedesco dell’Economia di allora, Peer Steinbruck, «abbiamo visto il fondo dell’abisso». È vero che a Bruxelles sono state varate alcune riforme finanziarie, ma dinanzi alla natura e alle dimensioni del problema si è trattato del solito secchiello per vuotare il mare.
Non avendo riformato il sistema finanziario, e avendolo anzi aiutato a diventare più potente di prima, i governi Ue si sono trovati esposti alle sue pretese. Giusto come è avvenuto negli Stati Uniti. Nel 2011 esso pretendeva fossero salvate le banche dalla crisi del debito greco, in vista di altre richieste analoghe che nei mesi successivi avrebbero potuto riguardare il Portogallo, la Spagna, l’Italia. Fedeli al loro ruolo di organi democraticamente eletti che non vedono alternative se non quella di soggiacere al dettato di organi mai eletti da nessuno, quali sono la Ce, la Bce e il Fmi, i governi Ue sono stati unanimi nell’esigere dalla Grecia di ridurre in maniera drastica il suo debito pubblico. Ha vissuto al di sopra dei suoi mezzi, affermavano, e ora deve imboccare un severo percorso di austerità. Come fosse formato tale percorso lo sapevano tutti, anche perché è lo stesso che quasi tutti i governi Ue, compresi quelli italiani, hanno poi proposto ai loro cittadini: tagliare i salari, le pensioni, la sanità, la scuola; privatizzare tutto, i trasporti, le spiagge, i servizi collettivi, le isole, i porti, e perché no, il Partenone.
Ciò che si è taciuto in merito alla crisi greca è che le sue cause non sono quelle di solito addotte; che i rimedi proposti in sede Ue sono peggiori del male; e che la paralisi politica cui sono stati ridotti i governi greci, privati della possibilità di decidere alcunché in tema di politica economica, costituisce uno svilimento della democrazia di importanza mondiale. Innanzitutto, la causa prima dell’elevato debito pubblico non risiede affatto in un eccesso di spesa sociale, bensì in un flusso troppo ridotto di entrate fiscali, imputabile a un alto tasso di evasione durato parecchi anni. Nell’estate 2011 il governo greco presieduto dal socialista George Papandreou, pressato dalla Ue, chiese ai pensionati, ai lavoratori, agli insegnanti, agli impiegati pubblici, di restituire al bilancio dello Stato i miliardi di euro, in moneta attuale, sottratti col tempo ad esso da una minoranza che percepiva un reddito centinaia di volte superiore al loro. Per giunta dopo averli incolpati – il governo tedesco per primo – di lavorare poco, di andare in pensione prima degli altri cittadini Ue, di percepire pensioni d’oro, di fare troppe ferie; laddove tutti i dati disponibili, per chi avesse avuto voglia di informarsi, attestavano che si trattava di affermazioni false.
Ma a quanto ammontava nel 2011 il debito pubblico della Grecia, di cui allora si diceva che avrebbe potuto far saltare l’intera zona euro? Si trattava di 350 miliardi di euro. Era certo una bella somma; che però rappresentava soltanto il 3,7 per cento del Pil dell’intera zona euro, esclusa quindi una grande economia come il Regno Unito. Non soltanto: il 43 per cento di tale debito era in mano a creditori greci, che per metà erano banche. Dal totale andavano ancora tolti 7 miliardi di debiti verso gli Usa, 3 verso la Svizzera, circa 2 nei confronti del Giappone. Il debito greco verso la Ue (banche e Stati compresi), consistente soprattutto in obbligazioni e altri titoli, ammontava dunque a meno di 190 miliardi di euro, di cui circa 35 dovuti alla Bce. Ora, dal 2008 al 2011 i paesi Ue, a parte la Svizzera, avevano speso o accantonato oltre 3.000 miliardi di euro (3 trilioni) per salvare le proprie istituzioni finanziarie. Dove c’era da tremare se un’economia tutto sommato periferica era in difficoltà per ripagare, a rate, poco più del 6 per cento di tale somma? Il y a quelque chose qui cloche, dicono i francesi, c’è qualcosa che non va nell’intera faccenda.
La crisi greca, infatti, ha rappresentato in primo luogo un’anteprima di quel che potrebbe ancora succedere ad altri paesi, Italia compresa, se i governi Ue non la smettono di subire le manovre del sistema finanziario, ivi comprese le agenzie di valutazione, e non provano sul serio a regolarlo, anche per evitare che ci piombi addosso tra breve una crisi peggiore di quella del 2008. Lo scenario comprende, com’è ovvio, il rinnovo potenziato di manovre speculative che i maggiori gruppi finanziari costruiscono scientemente per estrarne il maggior profitto possibile in forma di interessi e plusvalenze; il che implica, come insegnano i modelli di gestione del rischio, far correre un rischio elevato non già ai gruppi stessi, bensì ai cittadini, oggi greci, domani spagnoli o italiani. Ma comprende anche una spinta selvaggia alle privatizzazioni, che essendo condotte sotto la sferza della Troika Ce, Fmi e Bce, consisteranno al caso in vere e proprie svendite di immensi patrimoni nazionali. L’Italia, dopotutto, ha 8.000 chilometri di coste e centinaia di isole da mettere all’asta, più il Colosseo e magari l’intera Venezia; altro che la Grecia.
A non andare, tra l’altro, era la Bce. Il suo limite fondamentale, imposto dal trattato istitutivo della Ue, era e resta avere come massimo scopo statutario la stabilità dei prezzi, ossia la difesa dall’inflazione. Ciò spiega in parte la lentezza e la goffaggine con cui si è mossa a fronte della crisi greca. Ma un simile limite equivale a decidere per legge, poniamo, che il pronto soccorso del maggior ospedale cittadino si occupi soltanto di lesioni alla gamba sinistra. Le altre due Banche centrali dell’Occidente, la Banca d’Inghilterra e la Fed, hanno tra i loro scopi statutari anche lo sviluppo e la crescita dell’occupazione. Scopi che perseguono pure creando esplicitamente nuovo denaro: una funzione fondamentale che gli Stati della Ue hanno ceduto alla Bce. Per questo motivo nella Ue sono venute moltiplicandosi le voci favorevoli a un ampliamento degli scopi statutari della Bce. La crisi greca poteva essere una buona occasione per passare dalle voci all’azione, se i governi non avessero temuto di disturbare la macchina di cui sono da troppo tempo a rimorchio.

Quella miopia politica delle misure di austerità

Le drastiche misure di austerità che dall’inizio della crisi i governi europei, inclusi i nostri, hanno inflitto ai loro cittadini non riguardano soltanto l’economia. Pongono questioni cruciali per il futuro della democrazia nella Ue. Prima questione: le organizzazioni cui i governi mostrano di avere ceduto la sovranità economica, quali il Fmi, la Bce, la Commissione europea e le agenzie di valutazione, non godono di alcuna legittimazione politica. Inoltre si sono mostrate incapaci sia di capire le cause reali della crisi, sia di predisporre interventi efficaci per rimediarvi. Come si spiega allora l’atteggiamento di supina deferenza che verso di loro mostrano i governi? Dopodiché occorre chiedersi quale sbocco politico le misure di austerità potrebbero avere nel medio periodo. Sia la storia del Novecento che molti segni recenti attestano che lo sbocco più probabile potrebbero essere regimi autoritari di destra.
Il Fmi per primo non ha saputo cogliere, fino all’estate 2008, elementi chiave sottesi alla crisi. Non ha dato peso al degrado dei bilanci del settore finanziario, ai rischi di un effetto leva troppo alto, alla bolla del mercato immobiliare, alla rapida espansione del sistema bancario ombra. Ha sottovalutato i rischi di contagio insiti nel sistema finanziario internazionale. Questa serie di giudizi negativi sulle capacità previsionali e terapeutiche del Fmi è stata formulata da un ufficio di valutazione interno al Fondo stesso, in un rapporto del febbraio 2011, non da avversari prevenuti. Sarebbero queste le credenziali con cui il Fmi continua a voler imporre ai nostri paesi tagli ai bilanci pubblici e privatizzazioni a raffica che da un lato privano i cittadini di diritti fondamentali, dall’altro finiranno per peggiorare lo stato dell’economia anziché migliorarlo?
Quanto alla Bce, si sa che i trattati di Maastricht le impongono un unico scopo: deve contenere l’inflazione sotto il 2 per cento. Sui computer lampeggiano indicatori drammatici: disoccupazione in rialzo, proliferazione dei lavori precari, crescita delle disuguaglianze, smantellamento dell’apparato pubblico, salari stagnanti, pensioni indecenti. Mentre il sistema finanziario che ha causato la crisi è apparso finora inattaccabile da ogni seria riforma. Tutto ciò cade al di fuori degli orizzonti della Bce. L’essenziale è la stabilità dei prezzi. L’idea che un punto di inflazione in più avrebbe di sicuro i suoi costi, ma potrebbe forse rendere meno stolidamente aggressive le misure di austerità a carico dei cittadini Ue per la Bce appare irricevibile. Né gli orizzonti della Ce appaiono più ampi, come provano i documenti provenienti ogni mese da Bruxelles.
L’influenza che hanno sulle misure di austerità le agenzie di valutazione, alle quali i governi Ue sembrano guardare come a un giudizio di Dio, è ben rappresentata da una dichiarazione dell’ex primo ministro francese François Fillon. In vista delle presidenziali 2012, disse che per prima cosa bisognava «difendere la tripla A della Francia». A ben vedere la battuta suona grottesca. Ma altri governi Ue paiono tutt’oggi condividere lo stesso intento. Al riguardo i media in genere fungono da diligenti amplificatori. Se una delle maggiori agenzie ci declassa il rating, ripetono ogni giorno, siamo rovinati. Nessuno comprerà più i titoli di Stato, oppure gli interessi sui medesimi saliranno talmente da diventare insostenibili per il bilancio pubblico. Quindi i megatagli alla spesa sono privi di alternative. In realtà non è affatto vero, ma per chi è vittima della “cattura cognitiva” per mano delle dottrine economiche neoliberali esse sono invisibili.
Un paio di cose dovrebbero considerare i governi Ue e i media, prima di genuflettersi dinanzi ai giudizi delle agenzie di valutazione. Anzitutto, come proprio esse si affannano a spiegare ogni volta che qualcuno vuol fargli causa perché grazie alle loro valutazioni ha perso molti soldi, i loro cocktail di lettere e segni sono semplici opinioni. Perciò possono essere giuste o sbagliate – lo dicono loro – e in forza del primo emendamento della Costituzione americana, che tutela la libertà di parola, nessuno può prendersela se un’agenzia esprime un’opinione rivelatasi sbagliata. In secondo luogo, le agenzie di valutazione sono state – cito da una poderosa indagine sulla crisi presentata al Congresso Usa nel gennaio 2011 – «ingranaggi essenziali nella ruota della distruzione finanziaria... I titoli connessi a un’ipoteca che furono al cuore della crisi non avrebbero potuto venire commercializzati e venduti senza il sigillo della loro approvazione». Sigillo consistente nella tripla A, il voto più alto che si possa dare alla solvibilità di un debitore. Prima della crisi tale voto veniva distribuito dalle agenzie a velocità supersonica. In sette anni – si legge in quello stesso rapporto – la sola Moody’s lo attribuì a quasi 45.000 titoli ipotecari, in seguito svalutati. Con i suddetti limiti autoconclamati, e un simile precedente storico, il tremore dei governi Ue dinanzi a dette agenzie appare o ingenuo, o politicamente sospetto.
All’inizio del luglio 2011 l’allora capo dell’eurogruppo Jean-Claude Juncker affermò serafico che a causa delle misure di austerità «la sovranità dei greci» sarebbe stata «massicciamente limitata». Chissà se Juncker aveva e ha un’idea di dove potesse e possa condurre tale strada. Nel 1920 il giovane Keynes un’idea ce l’aveva. In merito alle riparazioni follemente punitive imposte alla Germania con il trattato di Versailles del 1919, così scriveva in Le conseguenze economiche della pace: «La politica di ridurre la Germania alla servitù per una generazione, di degradare la vita di milioni di esseri umani, e di privare della felicità un’intera nazione dovrebbe essere considerata ripugnante e detestabile... anche se non fosse il seme dello sfacelo dell’intera vita civile dell’Europa» (enfasi di chi scrive). Keynes era rimasto colpito, durante le trattative cui aveva partecipato, dall’ottusa incapacità dei governanti delle potenze vincitrici di ragionare sulle conseguenze di misure che strappavano la sovranità economica a intere nazioni. I governanti di oggi non sembrano mostrare una maggiore lungimiranza di quelli di ieri, permettendo alle destre di guadagnare un crescente favore popolare al grido di «l’austerità uccide l’economia». Un grido destinato a far presa, perché coglie il nocciolo della questione, sebbene provenga in termini paradossali dalla parte politica che reca le maggiori responsabilità della crisi.

Se la cancelliera Merkel ha la memoria corta

L’intervista che la cancelliera Merkel concesse alla «Frankfurter Allgemeine» nell’agosto 2013 si presentava con due facce. La prima era quella di un manifesto elettorale, in vista della successiva tornata di settembre. Angela Merkel è nota per saper interpretare come pochi altri politici le idee e gli umori del cittadino medio del suo paese. Che si possono così compendiare: noi lavoriamo sodo, sappiamo fare il nostro mestiere e amministriamo con cura il denaro pubblico e privato; quasi tutti gli altri, nella Ue, lavorano poco, sono degli incapaci e vivono al di sopra dei loro mezzi. La seconda faccia dell’intervista era una calorosa difesa delle politiche di austerità e delle riforme imposte dalla cancelliera ai paesi Ue per risanare i bilanci pubblici e ridurre i debiti.
Ogni personaggio politico sceglie le strategie comunicative che crede, e quelle di Angela Merkel le hanno assicurato il terzo mandato consecutivo. Su di esse non c’è quindi nulla da dire. Ma la difesa strenua dell’austerità e il messaggio implicito nell’intervista «i Paesi Ue sono pieni di debiti e noi no, per cui ci tocca insegnargli come si fa ad uscirne» meritano qualche osservazione. La prima è che la Germania, se si guarda alla sua storia, non ha nessun titolo per impartire lezioni in tema di debiti. Il 21 giugno 2011 un docente tedesco di storia economica, Albrecht Ritschl, in un’intervista a «Spiegel Online», ebbe a definire la Germania il debitore più inadempiente del XX secolo. La Germania di Weimar aveva contratto tra il 1924 e il 1929 grossi debiti con gli Stati Uniti per pagare le riparazioni della prima guerra mondiale. La crisi economica del 1931 consentì al paese debitore di azzerarli, con un danno enorme per gli Usa. La Germania di Hitler smise semplicemente di pagare le riparazioni, sebbene fossero state ridotte in maniera drastica a confronto dell’entità punitiva indicata dal trattato di Versailles del 1919. Per parte sua, il nuovo Stato federale pagò somme minime per i danni provocati dalla Germania nella seconda guerra mondiale, grazie anche al benvolere degli americani, che gradivano si rafforzasse per fare da argine all’Urss. Ma soprattutto non pagò quasi nulla per restituire ai paesi europei occupati tra il 1940 e il 1944 le ingenti risorse economiche che la Germania nazista aveva prelevato a forza da essi. Lo stesso professor Ritschl, in un articolo presentato nel 2012 alla 40a Conferenza di Scienze Economiche, stimò che in moneta attuale codesto debito verso l’estero sarebbe ammontato a 2,2-2,3 trilioni di euro, equivalente all’incirca a un anno intero di Pil della Germania attuale. Avesse dovuto restituire anche soltanto un trilione ai paesi spogliati dai nazisti, la nuova Germania avrebbe dovuto sborsare decine di miliardi l’anno per parecchi decenni.
A parte l’oblio del pessimo record della Germania come debitore, l’orgogliosa difesa delle virtù dell’austerità espressa da Angela Merkel si accorda male con le cifre. Secondo dati Eurostat, nell’estate 2013 nei paesi Ue si contavano oltre 25 milioni di disoccupati e 120 milioni di persone a rischio povertà per varie cause: reddito basso anche in caso di occupazione, gravi deprivazioni materiali, appartenenza a famiglie i cui membri riuscivano a lavorare soltanto poche ore la settimana. La scarsità di impieghi, i tagli alla spesa sociale e all’occupazione nel settore pubblico avevano ridotto male anche le classi medie dei paesi Ue. Del resto, neanche i lavoratori tedeschi se la passavano bene. I “minijobbers”, ossia coloro che debbono accontentarsi di contratti da 450 euro al mese sgravati da tasse e contributi sociali, erano in forte aumento e si aggiravano ormai sugli 8 milioni, circa un quinto delle forze di lavoro. Tra le cause di tutto ciò va annoverata la crisi, certo. Ma la crisi è iniziata nove anni fa. La recessione che ha provocato avrebbe dovuto essere combattuta in modo rapido e deciso con un aumento mirato della spesa pubblica, e i governi europei avevano il sacrosanto dovere di farlo dopo aver salvato le banche private a colpi di trilioni di denaro pubblico. Tuttavia sotto la sferza del governo tedesco essi hanno adottato la più dissennata delle politiche concepibili dinanzi a una recessione: la contrazione della spesa. Perfino gli economisti del Fmi, per decenni fautori dei più duri aggiustamenti...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. L’ideologia dopo la fine delle ideologie
  2. Parte prima. Tutto il mondo è finanza
  3. I. Quando il debito privato si maschera da debito pubblico
  4. II. L’industria se ne va
  5. Parte seconda. Ahi serva Europa
  6. I. L’Unione neoliberale
  7. II. Povera Italia
  8. Parte terza. Tanta fatica per nulla...
  9. I. Senza lavoro
  10. II. Senza denaro
  11. III. Senza stabilità
  12. Conclusioni. Modesta proposta per uscire dall’euro (ma non dall’Unione europea)
  13. Fonti