La comunicazione d'impresa
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La comunicazione d'impresa

  1. 158 pagine
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La comunicazione d'impresa

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La comunicazione d'impresa è il sapere che caratterizza, in maniera particolare, i professionisti esperti in relazioni pubbliche e consente a un'azienda, anche di medie e piccole dimensioni, di elaborare e attivare flessibili ed efficaci strategie di integrazione e presenza sul mercato di riferimento. Applicata e praticata da anni in paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, solo di recente ha acquisito la giusta importanza anche in Italia. Il volume offre un'ampia panoramica teorica sull'argomento e passa in rassegna le diverse professionalità legate a questo settore, dalla pubblicità alle relazioni pubbliche, dalle promozioni e sponsorizzazioni al marketing diretto. Una serie di esempi pratici accompagnano la teoria, in un serrato confronto fra la situazione italiana e quella mondiale.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115411

1. La pubblicità

Per iniziare l’approccio con la pubblicità è interessante prendere spunto dalla definizione risalente alla seconda metà degli anni Sessanta formulata dall’American Marketing Association (ama), nata negli Stati Uniti nel 1937 dalla fusione di due precedenti organizzazioni, la National Association of Marketing Teachers e l’American Marketing Society (che pubblica, tra gli altri, il «Journal of Marketing»).
La definizione recita: «Per pubblicità vengono intese tutte quelle attività di comunicazione a pagamento che un gruppo o un’impresa programmano per il perseguimento di obiettivi commerciali».
Nell’unico libro sul marketing in lingua italiana che costituisce una pietra miliare sul tema, il suo autore sosteneva: «La pubblicità è indubbiamente quella che suscita i livelli di coinvolgimento più elevati e diffusi, così come le valutazioni e le reazioni più contrastanti. Le ragioni sono diverse. Innanzitutto, in un’ottica puramente aziendale di costi-risultati, le indicazioni non sono sempre univoche. A fronte di campagne che hanno indiscutibilmente contribuito al successo di un prodotto, talora con un ruolo determinante, ve ne sono innumerevoli altre che non hanno assolutamente influito sulle quote di mercato o addirittura non hanno lasciato traccia presso il consumatore. Il fatto che molto spesso non vengano fissati precisi obiettivi per la comunicazione, che abbastanza spesso non sia facile individuare l’effetto specifico della pubblicità isolandola dagli altri elementi del marketing, anche se le tecniche di ricerca relative si sono indubbiamente affinate, contribuisce a creare nei confronti della pubblicità un senso di aleatorietà, una sorta di rapporto di odio-amore. Pertanto, soprattutto coloro che con questo strumento hanno minore dimestichezza, sono facili a passare da entusiasmo e fiducia talora eccessivi a delusioni profonde.
Tanto più brucianti, ovviamente, in funzione dell’elevato livello di investimenti oggi indispensabile per raggiungere la soglia minima dell’efficacia. In secondo luogo, ampliando la visuale, risulta evidente che la pubblicità è la più «esposta» tra le leve di marketing. Per la sua stessa natura è – e deve essere – sotto gli occhi di tutti: ormai è entrata a far parte della nostra vita quotidiana, ha assunto per certi versi un aspetto di intrattenimento domestico. Non è infrequente che tra amici e conoscenti vengono scambiati pareri sulle campagne – soprattutto televisive – giudicate più piacevoli, simpatiche oppure noiose, sgradevoli.
In effetti, per la grande maggioranza dei consumatori, è indubbiamente più facile esprimere un giudizio – più o meno corretto – su un telecomunicato per il prodotto x, piuttosto che sul suo posizionamento competitivo! Come logica conseguenza, vittorie e sconfitte trovano una cassa di risonanza naturale, che ne amplifica la portata» (Corigliano, 1996, pp. 329 sgg.).
Lo studioso di marketing mette in evidenza quanto la pubblicità abbia da sempre un ruolo di preminenza nei confronti del consumatore. Essa è l’unico soggetto della comunicazione integrata che, usando in maniera preponderante il «visual» come strumento, permette una fruizione diretta da parte di chi vede uno spot in televisione o una pubblicità «tabellare» sul giornale. La pubblicità è quindi l’unico elemento dell’integrazione a mettere il consumatore al cospetto di una comunicazione dalle forti affinità con lo spettacolo, in certi casi, e con la fotografia, il disegno, il cartone animato o qualsivoglia espressione artistica, in altri.
Possiamo affermare, senza partigianeria, che la pubblicità rimane una protagonista della comunicazione, con una forte presenza anche in quest’ultimo decennio nonostante l’importanza acquisita da altre forze dell’integrazione (in particolare le relazioni pubbliche). E questo proprio perché la pubblicità la vediamo, la analizziamo e ne discutiamo come di un fenomeno molto vicino allo spettacolo cinematografico e televisivo, a prescindere dagli addetti ai lavori. Si potrebbe addirittura affermare che essa sia l’unica forma di comunicazione in qualche modo capita da tutti, e quella tendenzialmente più utilizzata dagli imprenditori, anche grazie a programmi televisivi e radiofonici a essa dedicati.
D’altro canto, è interessante vedere cosa ne pensano gli studiosi di psicologia, e in particolare questa affermazione: «Parlare di comunicazione persuasiva oggi significa evocare come prima associazione mentale quella con la pubblicità. È la pubblicità infatti il luogo in cui esplicitamente le strategie persuasive vengono impiegate per raggiungere due obiettivi principali: quello a breve termine di rendere più probabile il consumo di un determinato prodotto e quello a lungo termine di creare un atteggiamento favorevole rispetto al prodotto per rafforzare le abitudini di consumo» (Cavazza, 2001, p. 33). Anche perché, lo ribadiamo, la pubblicità si rivolge a un ampio spettro di interlocutori e quindi, nella quantità, «si fa capire» da un numero maggiore di target di riferimento.
La pubblicità rimane lo strumento di comunicazione più efficace per incrementare le vendite di un prodotto anche se, come afferma Giampaolo Fabris, l’equivalenza tra pubblicità e vendite è stata rivisitata sostituendo alla funzione di vendita quella di creazione della spinta al consumo. La pubblicità, nella sua espressione più efficace, non si limita a vendere: deputato a farlo è difatti quel mix di produzione-distribuzione e marketing di cui la pubblicità è solo una delle componenti (Fabris, 1993).
Non siamo del tutto d’accordo con il fondatore di gpf (il suo Istituto di ricerca e consulenza strategica).
È vero che nei mercati del Duemila solo gli interventi «integrati e orchestrati» (e proprio Fabris, 2008, di recente ha fatto riferimento alla comunicazione orchestrata) di marketing e comunicazione permettono a un prodotto e a un’impresa di vivere meglio sul proprio mercato di riferimento. D’altro canto non dimentichiamo che «marketing» è la forma progressiva di to market, quindi costituisce una disciplina che ha come scopo principale far vivere «meglio» (per lungo tempo) un prodotto e un’azienda sul proprio mercato.
A questo benessere cui sono destinati prodotto e impresa danno un importante contributo sia il marketing, sia la comunicazione. Però, se si vogliono incrementare le vendite, solo la pubblicità produce un impatto immediato e prorompente; mentre, con le altre componenti della comunicazione d’impresa, si può agire in modo da:
– rafforzare e fidelizzare (relazioni pubbliche);
– far movimentare e ruotare il prodotto e avvicinarlo al consumatore (promozioni);
– mettere in luce la dinamicità dell’azienda e il suo essere coinvolta nell’attualità (sponsorizzazioni);
– individuare un target preciso (direct marketing).
È evidente che, proprio grazie alla comunicazione integrata e al direttore d’orchestra-integratore, si privilegia una componente rispetto a un’altra, a seconda delle necessità dell’azienda in quel determinato momento.
Immaginiamo un trattore particolarmente adatto al lavoro in campagna su terreni difficili; ne esiste uno di questo tipo in vendita che viene manovrato attraverso una serie di leve (che sostituiscono il tradizionale volante e il cambio) le quali permettono di farlo andare avanti, in retromarcia, a destra e a sinistra. Chi guida aziona una leva o un’altra, a seconda della direzione da prendere: tali leve sono gli strumenti per far muovere nella giusta direzione la macchina, in modo che a seconda del terreno e delle sue asperità il guidatore possa regolare il senso di marcia e il posizionamento, quando si deve fermare per lavorare in un determinato punto o per caricare merce. Questa metafora può essere applicata a chi utilizza la comunicazione integrata nei confronti dell’impresa.
C’è da lanciare un nuovo prodotto? Allora 1) aziono la leva pubblicità; 2) subito dopo quella della promozione; 3) passato qualche mese, toccherà alla leva delle relazioni pubbliche (rp).
– Se il prodotto è di nicchia, vale a dire rivolto a un target ben definito e delimitato nei numeri, a causa del posizionamento del prezzo e della qualità (per esempio le auto Ferrari, gli orologi Rolex, le calzature Ferragamo), toccherà alla leva direct marketing.
– Se il prodotto appartiene alla categoria degli «status symbol», vale a dire è tra quelli che arrivano sul mercato come prodotti di nicchia e poi lo conquistano, nel volgere di qualche anno, con grandi numeri (per esempio: alcune marche di jeans, gli orologi Swatch, le sneakers), anche in questo caso si utilizzerà il direct marketing.
– Se invece l’azienda ha bisogno di far sentire la propria presenza nei confronti dei vari pubblici di riferimento, si manovrerà la leva delle sponsorizzazioni.
Per alcune aziende saranno sufficienti una o due leve, mentre per le multinazionali o in ogni caso, i leader di mercato, quasi sempre saranno utilizzate tutte e cinque le leve.
Nel volgere di alcuni decenni, a partire dalla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, i cambiamenti nell’ambito delle imprese e da parte dei consumatori sono stati continui e, in molti casi, alquanto rapidi.
Da una parte, l’impresa ha capito che non poteva essere sufficiente limitarsi a un’ottima produzione e a un forte impegno per la distribuzione e la vendita sul mercato. In altre parole, un buon prodotto non basta, bisogna comunicarlo agli interlocutori. «Farlo bene e farlo sapere», recita un vecchio adagio che fa eco dagli States (diffuso dalla American Society of Public Relations) fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso.
Nel corso degli anni, le aziende hanno realizzato che il prodotto ha bisogno di aiuto, assistenza, spinta sul mercato e cassa di risonanza sui target di riferimento. Comunicazione e marketing sono diventati sempre di più i punti di riferimento dell’impresa.
Dall’altra parte c’è il consumatore, che a sua volta si è evoluto. Non più passivo acquirente di un prodotto, ma sempre più personalità esigente che vuole, sceglie e acquista con determinazione e richiede di essere continuamente informato sull’impresa e i suoi prodotti (Fabris, 2003).
La pubblicità si è dovuta adeguare a queste evoluzioni: il suo compito – si è detto – non può essere limitato alla vendita e alla spinta al consumo, e ora constatiamo che la pubblicità stessa è attenta a comunicare altri dettagli, quali:
– la qualità dei prodotti;
– la serietà dell’azienda;
– la fiducia che in essa deve essere riposta.
Pensiamo a uno slogan immortale: «Kraft, cose buone dal mondo».
Negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, la comunicazione d’impresa è sempre stata considerata un’attività che aveva come forte protagonista soprattutto la pubblicità (Fabris, 1993).
La spiegazione non è difficile: lo scenario delle imprese italiane era costituito per la maggior parte di aziende medio-grandi che utilizzavano proprio la pubblicità come quasi esclusivo mezzo di comunicazione.
In realtà, esistevano nel nostro paese, come accade tuttora, una marea di piccole e medie imprese, a volte gestite direttamente dai genitori e dai figli (imprese a conduzione familiare, spesso formate da due o tre persone in tutto, con una divisione plurima dei compiti). Queste imprese piccole, ma determinanti per la nostra economia, davano grande importanza alla produzione e alla distribuzione dei propri prodotti, ma non investivano nulla nella comunicazione.
Pertanto, pur essendo una realtà economicamente considerevole e costituendo in alcune regioni (Emilia-Romagna, Marche, Veneto, Piemonte) una presenza notevole e con una produzione di rilievo, esse non rappresentavano dei soggetti importanti per il mondo della comunicazione d’impresa. Potremmo dire che solo negli anni Novanta la sigla pmi (Piccola e Media Impresa) comincia a diventare un soggetto presente nel sistema della comunicazione.
La pubblicità, quindi, ha goduto per alcuni decenni di una sorta di monopolio, caratterizzato anche da campagne rimaste nella storia non solo della comunicazione, ma anche del costume e della televisione. Basti pensare alle storie raccontate da «Carosello» (Giusti, 2004).
Chi non ricorda le storiche réclame in bianco e nero che hanno alimentato l’immaginario di adulti, bambini, ragazzini, o di semplici cultori di televisione che ne sono venuti a conoscenza in un secondo tempo, tramite libri e programmi televisivi, quando ormai «Carosello» non esisteva più? I bagni di Calimero per scoprire che «non era nero ma solo sporco» (Mira Lanza); l’ardore del Caballero con cui si rivolgeva alla sua Carmencita nel dirle, con piglio perentorio: «Carmencita, chiudi il gas e vieni via!» (Lavazza). E ancora, l’ispettore abile nel risolvere casi delittuosi, ma incapace di curare i suoi capelli al punto da rimanere calvo perché «non aveva usato la brillantina Linetti». Oppure la bionda, elegante e irresistibile Virna Lisi nello spot di un noto dentifricio: «Con quella bocca può dire ciò che vuole»; o l’omino coi baffi, simbolo inequivocabile delle caffettiere Bialetti.
Queste réclame, con personaggi reali o animati, avevano sul consumatore un impatto pari a quello del cinema ed erano un immancabile appuntamento serale, non solo per i bambini che dopo «Carosello» dovevano andare a dormire, ma anche per gli adulti, per i quali costituivano argomento di conversazione al bar e in famiglia (Giusti, 2004)
D’altronde, da sempre il ruolo della pubblicità è quello di spingere all’acquisto e far sì che un prodotto di consumo diventi qualcosa che entra nella vita di tutti i giorni come una consuetudine: un prodotto di cui non si può fare a meno, e che poi in casi fortunati diventa protagonista della storia di un paese, come è accaduto per i prodotti appena citati (Colombo, 1989).
Non è un caso che gli investimenti necessari per una campagna pubblicitaria anche contenuta siano più alti che per ogni altra attività della comunicazione d’impresa. E quest’aspetto costituisce uno degli elementi che contribuiscono a concentrare l’attenzione sulla pubblicità rispetto agli altri aspetti della comunicazione d’impresa, portandola a essere giudicata più degna di nota.
C’è chi, come Fabris (2002), sostiene da sempre che la ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Parte prima. Le cinque professioni della comunicazione d’impresa
  3. 1. La pubblicità
  4. 2. Le relazioni pubbliche
  5. 3. Le promozioni
  6. 4. Le sponsorizzazioni
  7. 5. Il marketing diretto
  8. Conclusioni
  9. Parte seconda. Il ruolo dell’integratore
  10. 6. La comunicazione d’impresa: sua evoluzione e integrazione
  11. 7. L’integratore e la comunicazione integrata
  12. Conclusioni
  13. Glossario
  14. Riferimenti bibliografici