Diritto senza identità
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Diritto senza identità

La crisi delle categorie giuridiche tradizionali

  1. 188 pagine
  2. Italian
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Diritto senza identità

La crisi delle categorie giuridiche tradizionali

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Persona, famiglia, matrimonio, cose e beni, proprietà, contratto: categorie, nozioni e idee fondanti della tradizione giuridica, giunte quasi inalterate fino a noi dal diritto romano, oggi non sono più in grado di restituirci identità precise. I contorni della realtà si fanno progressivamente più sinuosi e i modelli proposti dal diritto non sono più tali. È necessario correggere questo stato di insostenibile incertezza. Accorrigere significa proprio questo: i giuristi devono ‘accorgersi' che è tempo di conquistare una rinnovata rectitudo del diritto.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858114544
Argomento
Diritto

V. L’identità giuridica della giustizia

1. L’idea di giustizia in Occidente

Qui si ragionerà intorno alla giustizia giuridica; o alla giustizia in quanto ideale attraverso cui valutare un certo assetto dei rapporti interindividuali o la stessa giustizia giuridica. Né, ovviamente, è questo il luogo in cui prendere posizione sulla giustizia come virtù dell’uomo, il cui contesto è propriamente quello della filosofia morale o della religione: non ci interessa, cioè, la giustizia come virtù cardinale (insieme alla prudenza, alla fortezza, alla temperanza), come teorizzata da Platone e poi ripresa, com’è noto, dal Cristianesimo.
Cos’è dunque questa giustizia in senso giuridico? Un’attività operativa, non disgiunta però dalla riflessione, traverso la quale si ‘regola’ la condotta dell’uomo nei rapporti con gli altri uomini. Regulare è verbo della tarda latinità e rende lo scopo della giustizia giuridica che impone all’uomo il vincolo dell’osservanza della regola o linea (normativa) diritta dalla quale non è consentito il deflettere.
Seguendo il motivo di questo libro, si potrebbe anche dire che la giustizia giuridica crea o, il più spesso, riafferma il confine tra gli uomini nei rapporti reciproci che concernono le loro personae come le loro res. Un giudice questo fa: se le regulae gli sono state date da qualcun altro, egli accerta il confine e, se trova che sia stato violato, lo marca nuovamente; altrimenti, nei territori conquistati ex novo dallo ius, lui stesso traccia la frontiera.
Il giudice rende così giustizia nella singola controversia: come ci spiega Aristotele, «l’andare dal giudice è come andare dalla giustizia: il giudice infatti vuole essere come la giustizia incarnata»1. Ma il giudice – uomo tra gli uomini – è davvero in grado di agire come se fosse la giustizia animata? Sì, se il giudice non sia egli stesso uno degli uomini in contesa o se (ipotesi meno rara) non assuma, coscientemente o meno, dichiaratamente o meno, la tutela di uno dei litiganti: per questo, ci spiega ancora Aristotele2, «si cerca un giudice imparziale, e alcuni chiamano i giudici mediatori, in quanto, se raggiungono il mezzo, ottengono il giusto».
La giustizia affidata all’uomo-giudice corre dunque il rischio di essere (non solo di apparire) ingiusta; e per evitare o ridurre il rischio si cerca, si potrebbe dire, un legislatore che si imponga al giudice, vincolandolo al rispetto di una regula che tracci il confine innanzi tutto alla sua attività di iudicatio. Non è, perciò, un caso che Giambattista Vico, in quello straordinario zibaldone che è la Scienza Nuova, affermi che i deboli preferiscono affidarsi alla legge come a un baluardo contro i potenti3, la cui influenza sui giudici è prevedibile, come dimostra la storia a cominciare dalla vicenda della legge delle XII Tavole che i plebei strapparono ai patrizi nella metà del V secolo a.C.: proprio Vico4 ricorda in proposito quel passo di Tacito5 in cui le XII Tavole sono significativamente qualificate come finis omnis aequi iuris, in funzione, dunque, di confine da non valicare, in primis dal giudice, se si vuol mantenere allo ius il carattere della giustizia (che Tacito evoca richiamando l’equo: diritto equo uguale diritto giusto).
L’esigenza del rispetto dei confini stabiliti è il presupposto della più nota definizione della giustizia della tradizione giuridica occidentale: «la giustizia è la costante e perpetua volontà di dare a ciascuno il suo»6. Il giurista romano Ulpiano, cui si deve questa definizione, ne ricava (anche) uno dei precetti fondamentali del diritto: così, immediatamente dopo aver definito la giustizia, egli scrive che «i precetti del diritto sono questi: vivere onestamente, non danneggiare il prossimo, dare a ciascuno il suo»7. Non v’è contraddizione: se la giustizia rappresenta la realizzazione in concreto della generale istanza che ad ogni uomo venga assicurato il ‘suo’ (anche con riferimento alla sanzione o pena conseguente alla condotta illecita), essa non può prescindere dal comportamento dei singoli nei rapporti reciproci in quanto la giustizia si affida precipuamente alla spontanea adeguazione degli uomini, i quali devono riconoscere, tutti e ognuno, quel che è altrui8.
Così dà a ciascuno il suo il giudice attraverso la sentenza giusta; e il singolo che serba una condotta rispettosa e non invasiva. Ma se la giustizia è la volontà di dare a ciascuno il suo, qual è l’ordine normativo che stabilisce cosa è il ‘suo’?9 Ulpiano non ce lo dice e per questo la sua formula è stata accusata di essere tautologica10 o, peggio, vuota11. Così non è; e, d’altronde, vi sarebbe da dubitare del contrario già sulla sola scorta della grande fortuna riscossa dalla definizione della giustizia come (volontà di) unicuique tribuere durante tutta la storia del pensiero (filosofico, politico, giuridico) occidentale: esemplificando (a campione), da Ulpiano ad Accursio12 a Tommaso13 a Grozio14 fino a Perelman15. Ma non è certo il richiamo di queste auctoritates a doverci convincere che la definizione ulpianea non è né tautologica, né vuota. Vediamo un poco.
Ulpiano è un giurista romano e, nel definire la iustitia, esprime la cultura del ceto professionale di cui fa parte: quegli antichi giuristi erano molto concreti e non credevano nelle astrazioni intellettualistiche di un sistema giuridico sovraordinato alla storia. Coerentemente essi non amavano le definizioni giuridiche, che formularono alquanto raramente, se non occasionalmente: così i giuristi romani non definirono né il dominium, né i diritti reali, né l’obligatio. Avevano come paura di apprestare cristallizzazioni linguistiche del genere, perché (come rilevò uno di loro, Giavoleno) «basta poco a sovvertirle»16: in considerazione di ciò ogni definizione è pericolosa per il giurista che, definendo, assume una responsabilità che quasi sempre il sopravvenire delle vicende storiche non gli consente di onorare; e principalmente per i cittadini che corrono il rischio di essere tratti in inganno da definizioni che, alla prova dei fatti, possono essere rovesciate nella competizione dialettica.
Ciò nonostante, Ulpiano (e con lui Giustiniano che la recepisce17) offre una definizione di iustitia: perché? Se non è possibile rispondere con sufficiente attendibilità, vi sono, però, due o tre circostanze su cui vale la pena di riflettere per una migliore introduzione al problema ora affacciato.
Definire la giustizia è rappresentare lo scopo dell’impegno professionale di ogni (autentico) giureconsulto: lo stesso Ulpiano spiega, in altro luogo18, che ai giuristi è meritatamente dato l’appellativo di ‘sacerdoti’ in quanto venerano la giustizia; e, dunque, la rappresentazione sintetica (verbale, s’intende) di quest’ultima equivaleva a manifestare la ragione di una vita.
Poi, in tema di iustitia esisteva una tradizione definitoria consolidata, come dimostrano le definizioni ciceroniane19 non molto distanti da quella ulpianea: si può così sostenere che la responsabilità definitoria di Ulpiano ne risultasse, in certo senso, alleviata in quanto sostenuta da un impegno culturalmente condiviso, con la conseguente attenuazione della stessa responsabilità morale del giurista.
Vi è un’ultima circostanza, la più significativa: la definizione di Ulpiano non è di quelle sovvertibili e non a caso vi sono giuristi contemporanei che, nonostante le (gravi) critiche, in essa continuano a riconoscersi. Vediamo.
Ulpiano inserisce la definizione della iustitia (verosimilmente all’inizio dell’opera20) in una raccolta di Regulae vale a dire di criteri e massime di decisione: quei parametri, dunque, in applicazione dei quali è poi concretamente possibile attribuire a ciascuno il suo. Sicché Ulpiano (almeno lui) non meriterebbe la critica di superficialità definitoria perché egli offriva, nel contesto di una medesima opera, sia la definizione della giustizia, sia le regole per l’attribuzione dell’unicuique suum. La scissione tra la iustitia e le sue regulae è, invece, ascrivibile ai commissari di Giustiniano che conservarono (solo) la definizione collocandola, a scopo didascalico e moraleggiante, agli inizi del Digesto e (pure) in apertura delle Istituzioni. Il che corrisponde a un’operazione nient’affatto casuale, bensì perfettamente consapevole: consapevole che, pur nel mutare delle regulae (e da Ulpiano a Giustiniano corrono all’incirca trecento anni), quella definizione avrebbe mantenuto ugualmente validità, a un tempo descrittiva e ordinatrice dell’azione di giustizia. Una definizione, se si vuole, ‘formale’, ma che, se analizzata con sufficiente attenzione, manifesta un’apertura che l’aggettivazione ora enunciata vorrebbe criptare a tutti costi.
Cominciamo, invece, con il considerare (e valutare) che se la giustizia, nella definizione ulpianea, assicura l’attuazione di un certo ordine normativo, è per ciò stesso postulata la preesistenza di quest’ordine, altrimenti uno non saprebbe nemmeno riconoscere quanto è proprio e quanto è altrui. In tale postulazione si annida una fondamentale opzione della cultura giuridica occidentale, un’opzione che viene da lontano: così, sotto la (‘formale’) definizione di Ulpiano, si coglie una decisiva scelta di campo. Perché se la giustizia occidentale postula come indefettibile il riferimento a un ordine normativo preesistente (anche se non necessariamente dichiarato o esplicitato), ciò suppone il radicale rifiuto di un’azione di giustizia alla stregua di una regola che, non pensata e non valutata prima, viene semplicemente attuata a prescindere da ogni necessità od opportunità di coordinamento con il contesto in essere, sia questo elementare o meno: una giustizia così può, al massimo, ambire alla notazione della casualità, e tutti, o quasi, crediamo oggi che una giustizia del genere sia piuttosto una giustizia degenere e, perché tale, un male da evitare.
La giustizia è poi, sempre nella definizione ulpianea, «volontà costante e perpetua»: qui vi è la rappresentazione di uno sforzo che non deve essere occasionale, ma generatore di un sistema in grado di garantire, senza tentennamenti o battute d’arresto, l’attribuzione a ciascuno di quanto è suo. La giustizia richiede in chi dia opera per essa una tensione continua; e non può tollerare, anche in un sol caso, di essere contraddetta: la pur isolata negazione del suo a chi gli compete compromette absolute la rettitudine della giustizia e interrompe il flusso di fiducia che sorregge l’efficacia della sua azione.
In questa esigenza di uniformità senza eccezioni la giustizia giuridica conferma la consustanzialità con la parità di trattamento di tutti coloro che si trovano nella medesima condizione o situazione: con le parole di Chaïm Perelman, la giustizia può così essere definita esattamente come nelle Regulae dell’antico giureconsulto, «un principio d’azione secondo il quale gli esseri di una stessa categoria essenziale devono essere trattati allo stesso modo»21. Ha ancora ragione Perelman quando sottolinea che una simile idea di giustizia è direttamente contraria alla carità, il cui fine «è di alleviare la sofferenza, qualunque essa sia, la prima che si presenti, senza tener conto di alcun’altra circostanza»22. Ma anche a questo proposito si deve rilevare che l’affermazione non ha alcuna novità: lo stesso si trova nei Prolegomeni al De iure belli ac pacis23 di Ugo Grozio e fin nell’Esodo24.
Questa necessità che la giustizia persegua con linearità l’uguale trattamento, a costo di assumere le forme di un «vegliardo severo e freddo, che pesa, calcola e misura»25, si traduce in un dovere indefettibile di condotta per chi abbia la funzione di rendere giustizia, al quale non può perdonarsi in nessun caso il cedimento partigiano o prezzolato. Dovrebbero perciò rinnovare la loro riflessione i sostenitori dell’inutilità della definizione ulpianea sol che essi considerassero che una valutazione analoga alla loro doveva essere stata fatta, ancora nel Cinquecento, da giuristi come André Tiraqueau e Tiberio Deciani che, dimentichi della iustitia come descritta nella fonte primaria del tempo (il Digesto appunto), avevano addirittura teorizzato la cosiddetta dottrina del ‘punto dell’amico’. L’occasione era offerta dall’osservazione di quanto era solito accadere nella prassi e nel conseguente desiderio di quei giuristi in cerca di consensi di dare formulazione razionale, in termini di causa di giustificazione, a un vero e proprio misfatto quale quello del giudicante che sentenziava ‘per amicizia’: in questo contesto fattuale, la dottrina del ‘punto dell’amico’ veniva a scusare l’‘errore’ del magistrato che, nel dubbio, avesse deciso in favore della parte amica. Dottrina non solo sorprendente e curiosa, ma certamente immorale e, soprattutto, illecita in quanto in palese violazione della dottrina ulpianea in tema di giustizia consacrata nel Digesto26, come non aveva mancato di denunciare Leibniz, invocando quale rimedio la semplice applicazione del ‘solo diritto’ 27. La consapevolezza del genio era, tuttavia, tale che egli nutriva in tale direzione nulla più che una speranza.
A questo punto ci si domanda ancora una volta come sia stato possibile sostenere, anche recentemente, e con tanta recisione, che la definizione ulpianea sia tautologica o vuota. È possibile che su questo infondatissimo giudizio pesi la paura che, attraverso la formula ulpianea, possano qualificarsi ‘giusti’ ordinamenti giuridici, tra cui quelli di ispirazione totalitaria, che la sensibilità contemporanea ripudia. Così si è scritto che...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Avvertenza
  3. I. Confine e diritto
  4. II. L’identità giuridica delle persone
  5. III. L’identità giuridica della famiglia
  6. IV. L’identità giuridica della cosa
  7. V. L’identità giuridica della giustizia
  8. VI. Ripristinare i confini