Crimini a Nord-Est
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Crimini a Nord-Est

  1. 256 pagine
  2. Italian
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Crimini a Nord-Est

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Informazioni sul libro

Le trame oscure della criminalità organizzata nella locomotiva economica nazionale. Un pezzo del mondo imprenditoriale che ha scelto la piovra per fare affari. Le misure necessarie per contrastare la pericolosa avanzata del crimine a Nord-Est.

«Droga, armi, esseri umani. E soldi, tanti soldi. Basta uno sguardo alla carta geografica per capire come il Nord-Est sia al centro dei traffici che alimentano il crimine internazionale che a sua volta foraggia il crimine locale. Qui la rotta balcanica della droga si congiunge a quella dal Meridione. Convergono da Est i carichi di armi serbi e croati via terra e via mare e le vittime della tratta di esseri umani attraverso il confine orientale. Nel bel mezzo di tutto ciò, l'unica mafia nata al di fuori delle regioni meridionali, la mafia del Brenta.»

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858142493
Argomento
Economia

1.
Gli affari di Cosa nostra

Questione di secondi. Le mani cercano furiosamente. Le dita affondano nel ghiaccio. «Due minuti e 45».
Il cuore batte a mille mentre l’odore di pesce riempie il tempo e ogni piccolo gelido crepitio gli sembra un boato, amplificato dal buio del magazzino frigorifero.
Sempre più a fondo nella cassetta. Pesci di tutti i tipi che appaiono e svaniscono nel filo di luce della lampada frontale mentre lui cerca affannosamente. «Due minuti e 30».
Il cuore che si ferma quando all’improvviso sente il rumore della porta che si apre. Blocco. Immobile, senza respirare, la mano corre alla pistola. La voce interviene: «Non è la nostra, è la porta esterna. Continua».
I polpastrelli s’insinuano sotto una triglia grandissima. Pensa: «È enorme». Troppo. Si toglie i guanti in lattice. «Che cazzo fai? Sei a 1 e 45».
Non risponde. Con le dita libere sente il ghiaccio, il pesce e “la cosa”. Bingo.
Il pacchettino è avvolto nel nylon. «1.30, apri, dai, dai, dai».
Apre memorizzando le pieghe e sente la carta prima ancora di vederla.
Fogli con una sequenza di nomi e cifre, otto pagine che sembrano nere tanto sono fitte. L’altro fotografa veloce e lui rimette nel plico. Rifà le pieghe. «Trenta secondi». Ripiana i pesci, il ghiaccio, mette il coperchio. «Venti». Richiude con i due ganci nuovi che l’altro gli porge. «Nove, otto...». La mano afferra la fune. La lampada sulla fronte ispeziona il punto dove ha lavorato. Pulito. «Via!!».
Le due ombre si arrampicano sulla fune fino al pannello, s’infilano nel passaggio e dal buco sul tetto lui vede le stelle. Non ricordava brillassero tanto. Sa che fuori il resto del gruppo li sta attendendo dentro al furgone senza insegne dell’Arma. Altre auto sono a distanza d’intervento rapido. È il momento di spegnere la luce della lampada. Quella che gli ha mostrato per la prima volta che un boss di Cosa nostra governa direttamente in Sicilia da una “zona sicura” fuori dall’isola. La zona più sicura di tutte. Il Veneto.

1. Rifugi

Per sapere dov’è la mafia due magistrati avevano coniato una formula che racchiude un metodo. Per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino la mafia si trova «seguendo i soldi» e «cercando dove all’apparenza non succede nulla, dove [la mafia] si sente sicura».
Un metodo che ha permesso, anni dopo la morte dei due servitori dello Stato padri della Direzione nazionale antimafia, di catturare quasi tutti i boss delle cosche corleonesi vincenti e quelle loro alleate. Erano nei loro paesi, spesso nelle loro proprietà, comunque in zone sotto il loro controllo assoluto. Sono stati trovati sempre, senza eccezione, nei posti dove si sentivano al sicuro, appunto.
Capire il livello di comando mafioso a Nord-Est diventa allora possibile calcolando che il Veneto è la seconda regione italiana dopo la Sicilia per la presenza riscontrata di boss mafiosi latitanti e di loro familiari subito dopo la “stagione delle stragi”. Non solo: è la regione dove sono ancora presenti 150 mafiosi “di livello” che si sono fermati qui dopo aver scontato il confino, oppure i loro figli o parenti di primo grado.
Una regione ritenuta così sicura che quando i vertici di Cosa nostra devono sparire, braccati per la prima volta dallo Stato dopo gli attentati di Capaci (23 maggio 1992), in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie e la sua scorta, e di via d’Amelio (19 luglio 1992), in cui furono uccisi il magistrato Paolo Borsellino e la sua scorta, molti boss scelgono di trasferirvisi.
A Longare, in provincia di Vicenza, viene infatti arrestato il 6 settembre 1992 l’uomo che aveva pianificato entrambe le stragi. Giuseppe “Piddu” Madonia, rappresentante permanente nella cupola, viene fermato mentre si muove a bordo di una Mercedes con scorta armata e auto apripista. Il suo ruolo egemone nei due attentati viene riconosciuto nella condanna definitiva all’ergastolo nel 2006 dalla Corte d’appello di Catania confermata nel 2008 in Cassazione.
Anche Giuseppe Graviano, cioè l’uomo che materialmente ha azionato l’autobomba di via d’Amelio, sceglie il Veneto per scomparire subito dopo le stragi. Assieme al fratello Filippo è il reggente della cosca di Brancaccio, ha ordinato l’omicidio di don Pino Puglisi, ha portato a termine la strage contro il giudice Borsellino ed è tra i primi ad aver reinvestito i proventi della propria attività criminale in Borsa. I due sono talmente importanti nella gerarchia mafiosa che viene loro affidata dalla “cupola” anche l’organizzazione delle stragi dinamitarde in via dei Georgofili a Firenze (in cui nella notte tra il 26 e 27 maggio 1993 vengono uccise 5 persone e ferite altre 42), e quelle della notte del 27 luglio alle 23 dello stesso anno a Roma (22 feriti) e a Milano in via Palestro (5 morti e 12 feriti).
Per la loro latitanza scelgono anch’essi il posto più sicuro che hanno a disposizione: Abano Terme, in provincia di Padova, dove risiedono per quasi un anno in un appartamento di piazza Mercato 22. Quando gli agenti vi fanno irruzione loro sono appena scappati. Il sistema di protezione ha funzionato, quindi, ma hanno dovuto lasciare i vestiti e gli inseparabili orologi da collezione. Braccati, saranno arrestati un anno dopo. Stanno scontando vari ergastoli tra il carcere di Opera e quello di Parma.
Più fortunato Pasquale Messina, descritto dagli inquirenti come il sicario ufficiale della cosca di Brancaccio: la sua latitanza in Veneto durerà ben sette anni grazie a una rete di protezione e supporto che le forze dell’ordine definiranno «massiccia». Sarà arrestato a Bassano del Grappa nel 1999. Con una nuova identità e alcuni prestanome nel 1996 aveva acquistato una lavanderia industriale che ha gestito fino all’arresto.
Nel 2012 poi, il figlio del capo dei capi, Giuseppe Salvatore Riina, “Salvuccio” come lo chiamano a Corleone, ha dovuto lasciare la Sicilia (dopo 8 anni e 10 mesi di carcere per mafia) per scontare il periodo di libertà vigilata. Per questo ha scelto Padova. «Una città a caso», come ha spiegato, in cui ha trovato un bell’appartamento appena fuori dal centro storico. Rapporto con la città durato nel tempo, almeno fino al 28 novembre 2017, quando è stato allontanato dopo che gli investigatori avevano scoperto suoi contatti con pregiudicati palermitani che lo avevano seguito al Nord e spacciatori di cocaina.
Discorso a parte per le famiglie di Gela. I Rinzivillo e i Barbieri hanno interessi in imprese del Vicentino, come dimostrano l’arresto di Giuseppe Barbieri a Montecchio nel 2016, e il fermo di Cristoforo Palmieri, indicato dai carabinieri come «curatore degli interessi economici» della famiglia Rinzivillo, il 10 febbraio 2018, sempre, guarda caso, a Montecchio.
Un’altra famiglia gelese, il clan dei Curvà, anche loro imparentati con Palmieri, ha invece instaurato un “canale preferenziale” a Chioggia, porto prediletto sin dai tempi di Fidanzati e Maniero per i traffici di armi e droga, facendovi arrivare quantitativi di stupefacente attraverso i Balcani, come confermano l’arresto e la successiva condanna in Cassazione (dicembre 2017) di Angelo Curvà, Salvatore Lopez, Nunzio Ferracane e Ignazio Missud.

2. Comando e tritolo

Infine Vito Galatolo “u picciriddu”, il bambino, erede del mandamento dell’Acquasanta, la cui famiglia governa i cantieri navali e custodisce nel giardino di vicolo Pipitone “u scannatoiu” in cui vengono uccisi e sciolti nell’acido i mafiosi bollati dalla cupola come infami.
Piccolino, occhialuto, Vito entra in prigione per la prima volta a 23 anni nel 1996. Da allora resta libero solo tre anni: appena esce dal carcere viene allontanato da Palermo per ordine della magistratura. A 39 anni sceglie anche lui “un posto a caso” dove poter vivere con moglie e figli: se ne sale a Mestre nel 2013 e trova dimora in un appartamento di via San Pio X. Sempre “per caso” trova lavoro due giorni dopo il suo arrivo come meccanico navale (lui ha ammesso tranquillamente di non saper avvitare nemmeno una lampadina), in una delle società di trasporto turistico gestite sull’isola del Tronchetto, alle porte del centro storico di Venezia, dalla famiglia di Otello Novello detto “Cocco cinese”, l’uomo che per anni si è occupato dei trasporti acquei e della logistica per Felice Maniero e il boss Gaetano Fidanzati, quest’ultimo molto legato ai Galatolo con cui condivideva il dominio “in pace” della zona dell’Arenella.
Vito Galatolo, nemmeno quarantenne, dopo l’arresto del padre Vincenzo (condannato all’ergastolo per aver organizzato nel 1982 l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Manuela Setti Carraro) e del cugino Angelo (regista dell’attentato dell’Addaura contro il giudice Falcone), si ritrova nuovo boss della famiglia cardine alleata dei corleonesi e capace pure di sopravvivere alla loro caduta grazie a un patto di ferro con quella di Salvatore Lo Piccolo, “u baruni”, famiglia confinante in rapida ascesa grazie al vizio di strangolare i boss dei clan avversari.
Gli inquirenti sono convinti che, data la sua propensione al gioco, la pochezza del suo cursus honorum mafioso e, soprattutto, la distanza di Mestre da Palermo, Vito “u picciriddu” sia destinato a vita breve come boss e che nella cosca dell’Acquasanta ci sarà presto un terremoto. Galatolo viene invece intercettato dal Reparto operativo speciale (Ros) dei carabinieri su richiesta della guardia di finanza il 24 gennaio 2014 a Mestre dopo che è stato raggiunto da Giuseppe Corona, il tesoriere di Cosa nostra, e altri due guardaspalle, Raffaele Favaloro e Santo Graziano. Per discutere scelgono uno spartitraffico. Dopo due ore di discussioni, non intercettabili a causa del rumore di auto e camion, il gruppo si divide. Pochi giorni dopo si costituisce in zona un gruppo di fuoco guidato da Maurizio Caponetto1 (il cui fratello Francesco ha abitato dieci anni a Mirano, a pochi chilometri da Mestre) e Antonio Salerno, i due vecchi guardaspalle di Vito a Palermo, con l’incarico di rapinare alcuni obiettivi indicati dal boss. Anche loro vengono assunti da Otello Novello come marinai a bordo dei lancioni turistici.
Vito viene intercettato 24 ore al giorno, in casa e fuori. Non dà ordini, non parla, non manda e-mail o sms o WhatsApp che riguardino la “famiglia” a Palermo. Nulla, sembra aver abdicato. Eppure, del terremoto nella cosca nemmeno l’ombra. Anzi i segnali dicono che la famiglia dell’Acqua...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Mappe
  2. 1. Gli affari di Cosa nostra
  3. 2. L’espansione delle colonie
  4. 3. Il regno dei casalesi
  5. Capitolo 4. Business comuni: veleni
  6. Capitolo 5. Aquile
  7. Capitolo 6. Supreme Eiye
  8. Capitolo 7. La criminalità cinese
  9. Capitolo 8. Merce umana
  10. Capitolo 9. La prima D: D come donne
  11. Capitolo 10. La legge dei caporali
  12. Conclusioni