Breve storia d'Italia ad uso dei perplessi (e non)
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Breve storia d'Italia ad uso dei perplessi (e non)

  1. 206 pagine
  2. Italian
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Breve storia d'Italia ad uso dei perplessi (e non)

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Fatta l'Italia, bisogna fare gli Italiani: lo si diceva allora e lo ripetono, in molti, ancora oggi.
E se invece fosse il contrario? Se fossero stati proprio gli Italiani delle varie regioni a fare l'Italia?
Mario Isnenghi stila una breve storia d'Italia ‘per tutti', soprattutto per i più dubbiosi sull'utilità dello Stato unitario, perfino per quelli che vorrebbero dividerla e che Italiani ancora oggi fino in fondo non si sentono.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858118139
Argomento
Storia

Il lungo dopoguerra

«Itala gente dalle molte vite!». Allora – fra gli anni Quaranta e Cinquanta – la classe dirigente aveva generalmente fatto il Liceo e frasi classiche così ce le aveva dentro. Quasi a contrappasso dell’abuso che ne ha fatto il fascismo, questa ci serve ora per entrare nel lungo dopoguerra: con il sorriso e le prese di distanza che meritano le frasi fatte, però senza eccessi di ironia. Perché, effettivamente, sì: c’era da uscire, contemporaneamente, dalle rovine della guerra perduta e dalle rovine di un regime. Inventandosi questa nuova formula politica, il fascismo, si erano venticinque anni prima – la lunghezza di una generazione – strette in fascio famiglie culturali e correnti politiche diverse: non solo per contenere le masse popolari e impedire che – come nel primo dopoguerra appariva imminente – andassero a sinistra, facendo la rivoluzione o semplicemente, come stava accadendo nel 1919, vincendo le elezioni; ma anche per integrarle nella nazione. E per rendere così l’Italia una potenza, una grande potenza. Vecchio sogno, già tutt’altro che estraneo alla classe dirigente dell’Italia liberale: motore della spinta al colonialismo, appena vent’anni dopo l’Unità, nella prima guerra d’Africa, e poi all’andare in Libia, alla scelta di entrare in guerra, potendo forse evitarlo: la Grande Guerra, combattuta e vinta nel 1915-18, che coinvolge, volere o no, milioni di uomini e di donne in una dolorante e vittoriosa storia comune. Niente, dopo la guerra, sarà più come prima. Un regime di disciplina – questo pretenderebbe di essere il fascismo: una rivoluzione disciplinata, allo stesso modo in cui a suo tempo si era potuto vedere come un rivoluzionario disciplinato Garibaldi. Tutti, anche i civili e non solo i militari, e pure le donne e i bambini: tutti idealmente – e non solo idealmente – con una loro divisa, militi della Nazione, in ogni stagione della vita. Tutto dentro la Nazione, nulla e nessuno fuori della Nazione: gli antifascisti non sono veri Italiani, sono obiettori, transfughi, disertori dalla Nazione; e ai fuoriusciti – così sprezzantemente definiti per negargli la nobile immagine risorgimentale dell’esule – si arriva a togliere la cittadinanza. Con queste forzature autoritarie e disciplinatrici, Mussolini sospinge l’Italia in Camicia Nera alla vittoria in una nuova e più grande guerra coloniale, all’Impero, poi a vincere in una nuova guerra europea di contrapposizione ideologica tra fascisti e antifascisti come quella di Spagna, e infine alla guerra su più fronti – «contro tutti», «molti nemici molto onore»! – che è la seconda guerra mondiale. Con i risultati che sappiamo.

Riparare in grembo alla Chiesa

Ora bisogna raccogliere i pezzi. E chi li raccoglie i pezzi? Chi può ancora rimettere insieme e in piedi questo vecchio paese, che si è sentito giovane e nuovo, e scopre ora, con disillusione atroce, di avere fatto il passo più lungo della gamba?
La Chiesa cattolica, innanzitutto la Chiesa. Il papa sta a Roma e ha una storia, una identità di riserva da offrire al popolo italiano sinistrato e malconcio. Lo riaccoglie e lo avvolge nel suo abbraccio. Ha fatto un lungo viaggio, questo popolo – o parte di esso – per mettersi politicamente in proprio. Il Risorgimento, lo Stato laico. Già alle elezioni del 1913, però, che sono le prime in cui viene chiamata a votare quasi tutta la popolazione maschile, i possidenti e gli avvocati liberali – la borghesia – han dovuto chiedere aiuto al popolo dei preti, se volevano avere più voti dei candidati socialisti: non gratuito, questo aiuto; il liberalismo italiano diventa sempre meno laico e autosufficiente come concezione del mondo; di nuovo a dei parroci in divisa – i cappellani militari – si fa ricorso nel 1915 per tener buoni i contadini-soldati in guerra, contro il nemico esterno. Finché, nel 1929, Stato e Chiesa celebrano le definitive esequie della laicità, della libertà di pensiero e della autonomia della politica con il Concordato.
Questo pro-memoria potrebbe portare a chiederci: ma se ci sono stati quei Patti e ne è derivato, fra 1929 e 1943-45, un clerico-fascismo diffuso – minimo comun denominatore: Dio, Patria, Famiglia – com’è che alla caduta del fascismo la Chiesa riesce ad apparire una via d’uscita? Non è più innocente, non è più illibata di Casa Savoia, degli agrari, della grande industria, c’è stata dentro fino al collo – in solido con tutti gli altri poteri forti – dentro la miscela di regime. Ecco, appunto: come tutti (quasi tutti: gli antifascisti che tengono sempre duro esistono; e le eccezioni contano). Solo che la forza di radicazione, i precedenti, le risorse di autorevolezza e di potere di cui sono dotati gli apparati ecclesiastici sono superiori. Vince la storia lunga contro la storia breve. Le possibilità di svincolamento del cattolico sono maggiori. Lui, il credente, non soffre la doppia cittadinanza che per i non credenti costituisce un problema: anzi, per il credente, questo doppio riferimento alla Chiesa e allo Stato – che è tipico degli Italiani – è una straordinaria e speciale risorsa nel momento in cui lo Stato fascista viene meno. Non c’è più lo Stato fascista, appare improbabile tornare indietro allo Stato liberale; ma la Chiesa c’è sempre, resta in piedi, offre riparo a tanti uomini, materialmente e idealmente in fuga. È tutto abbastanza chiaro già nella guerra civile: persecutori e perseguitati si scambiano le parti e gli uni e gli altri – prima gli antifascisti, poi i fascisti – trovano rifugio a turno nelle stesse sacrestie, pie case o edifici conventuali. Una sorta di Medioevo ripristinato, con il ricupero di fatto del diritto d’asilo. Appare «normale» che da tante parti le riunioni del Cln avvengano in parrocchia; che le trattative coi fascisti e i Tedeschi all’ultima ora siano mediate dal vescovo locale.
L’Italia, che sarà democristiana per mezzo secolo, si riscopre e comincia ad esserlo già durante la guerra. Si sono fatte ironie sul fatto che Pietro Nenni – l’ex repubblicano interventista della Grande Guerra, diventato fra le due guerre il nuovo leader del Partito socialista – si salvi dalle retate nazi-fasciste rifugiandosi in un convento romano. E non succede solo a lui: una parte della classe dirigente antifascista e post-fascista deve la vita ai frati. È emblematico, certo, dello strapotere territoriale degli apparati ecclesiastici, che qualunque cartina di città italiana – con la rete di conventi, chiese e punti di appoggio vari – fa presto ad evidenziare. Ma – fatta salva la carità cristiana – è anche chiaro che la convenienza era reciproca. Gli antifascisti si salvano all’ombra delle chiese, la Chiesa si paga esimenti e perdoni, cioè il biglietto di ritorno dall’abbraccio clerico-fascista. E del resto, anche molti nazisti, oltre che fascisti, si salvano così, fra confessionali e tabernacoli, prima di sparire per sempre in qualche luogo del Sudamerica, all’ombra di dittature compiacenti. Non esiste d’altronde solo «la» Chiesa come istituzione nel suo insieme, esistono al suo interno gli orientamenti e i comportamenti dei singoli, ciascuno dei quali è poi un uomo con le sue idee e propensioni. Il mondo cattolico è complesso, e non uniforme.
E così si restaura, riemerge vittoriosa l’Italia guelfa, l’Italia reale preconizzata fin da sessanta-settant’anni prima, dai tempi dei tre papi del mezzo secolo dopo l’unificazione: Pio IX, Leone XIII, Pio X. Spodestati da Roma come «papa-re», con Pio IX, vi si ritrovano «Primati d’Italia», con Pio XII: non solo come magistero religioso, ma come potere sociale, di indirizzo e di salvezza, delle coscienze e persino, talvolta, della straziata fisicità dei corpi.

Due diversi esordi: il ’45, il ’48

Ma, narrata così, questa vicenda a «lieto fine» – che sembra srotolare all’indietro la storia del paese verso le attese e le pretese clerico-intransigenti – è troppo unilaterale. Perché, sia pure in questa maniera imbarazzante, un antifascista di lungo corso fuoriuscito in Francia come Nenni si salva, mentre Palmiro Togliatti torna dall’Unione Sovietica, dove fra le due guerre ha trovato rifugio lui; e l’azionista e prossimo socialista Emilio Lussu dalla Francia, il liberal-democratico Gaetano Salvemini dagli Stati Uniti; e tanti altri antifascisti – di quelli incompatibili con la «normalità» e le doppie verità di regime – tornano dalle isole del confino, dalle carceri, dall’esilio. Sono diverse migliaia, l’ossatura e l’anima di una possibile nuova Italia. Perché anche questa non compromessa e collusa è Italia; ed è un’altra storia, anzi, una pluralità di altre storie, non riducibili ad una, ma abbastanza significative da permetterci di ricondurre anch’esse all’una o all’altra delle «Italie in cammino» fra Otto e Novecento. Una «Italia di sinistra» – chiamiamola molto sommariamente così – riesce a comporre le proprie diversità interne nella Resistenza antifascista e antitedesca, stabilendo anche punti di accordo con gli antifascisti dell’ultima ora, i nati fascisti redenti dalla guerra, e, politicamente, con i democristiani: accordi che consentono intanto di rialzare la testa combattendo insieme una guerra di liberazione nazionale; e, sulla spinta, di arrivare alla Repubblica e alla Costituzione. La soluzione repubblicana prevale – non per molti voti – su quella monarchica nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946: storica elezione, anche perché per la prima volta il suffragio universale è veramente tale e votano anche le donne; e perché vengono scelti i membri della Assemblea Costituente, chiamata a discutere e decidere, articolo per articolo, la nuova Costituzione, che deve sostituire il vecchio e rattoppato Statuto Albertino di cent’anni prima. Saranno un consesso di alto profilo – Piero Calamandrei, Lelio Basso, Aldo Moro e altri, anziani, ma anche giovanissimi «padri della patria» – e un quadro generale molto avanzato: un progetto, un ponte lanciato verso il futuro, oltre che un fruttuoso bilanciamento attuale delle tre famiglie politico-culturali, schematicamente denominabili come liberal-democratica, cattolico-democratica e socialista. Sono pochi mesi, ma mesi in cui mettono le basi del futuro governando insieme ad Alcide De Gasperi personaggi come Benedetto Croce, Ferruccio Parri, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti: la «pace» coi fascisti – cioè l’amnistia – si assume la dura responsabilità di firmarla, come ministro della Giustizia, il segretario del Pci in persona, Togliatti, l’unico che possa farla andar giù agli ex partigiani; con analogo realismo i comunisti arrivano anche a salvare il Concordato del ’29, con grave disappunto di socialisti e azionisti, allora e dopo più preoccupati di loro dei valori laici. Sono rami d’olivo porti dai vincitori – precari – a componenti maggioritarie della popolazione. Sembrerebbe l’avvio di una grande stagione politica di riforme pensate insieme, in un intreccio fecondo – difficoltoso, ma sempre riconquistato – fra le diverse storie che stanno nel profondo dell’Italia e che la fanno essere quello che è: isolando a destra e mettendo fuori gioco le due storie – reali anch’esse, ma sconfitte – dei monarchici e dei fascisti. Ben presto, però, la sintesi fra i partiti antifascisti del Cln viene meno. Non aveva retto dopo la Liberazione il primo governo antifascista, presieduto dall’azionista Parri, il Maurizio capo della Resistenza: con i suoi equilibri politici più avanzati, ricalcati sulla mobilitazione dell’Italia resistente, ma incuranti del fatto che il vento del Nord non sia arrivato a soffiare altrettanto impetuoso nel Regno del Sud. Durano e agiscono più a lungo i tre governi del Tripartito, messi in crisi dal loro stesso presidente Alcide De Gasperi nel maggio ’47; il Partito d’Azione non regge alle sue interne tensioni e si sfalda; e alle elezioni politiche del 18 aprile 1948 neppure l’Italia di sinistra riesce a presentarsi insieme: divaricandosi fra un Fronte popolare all’insegna di Garibaldi, che vede alleati i socialisti di Nenni e i comunisti di Togliatti, mentre stanno ormai dall’altra parte i socialdemocratici di Giuseppe Saragat, che nel ’47 ha guidato una scissione dal Partito socialista, benedetta dagli Usa. Anche quel tanto di borghesia liberale e liberal-democratica che ha potuto offrire avvocati, professori, studenti e anche qualche imprenditore e ufficiale nella stagione della lotta di liberazione nazionale dallo «straniero», rifluisce a destra o comunque su posizioni più moderate in questa nuova stagione politica che si estenderà al dopoguerra: e in cui prioritario – ecco il punto di contrapposizione – appare ormai a molti essere anticomunisti, assai più che essere antifascisti. La Costituzione nata dalla Resistenza – con tutta la sua carica progressiva e dove si sancisce la messa fuori legge del fascismo – si ritrova così più avanzata, a lungo troppo avanzata rispetto all’equilibrio effettivo delle forze, alle leggi ereditate dal fascismo tuttora vigenti e alla realtà degli spiriti pubblici.
Spartiacque decisivo, dunque, il 18 aprile: o di qua o di là. Pesa moltissimo, nel trionfo elettorale di moderati e conservatori (riesumiamo delle etichette che almeno in parte ci servono), proprio questo senso diffuso e ultimativo dell’«o di qua o di là»: o con l’«Occidente» o contro l’«Occidente»; o con Washington o con Mosca; e alla fin fine – ancora più intimidatorio e irrevocabile – o con Dio o contro Dio (nel segreto della cabina elettorale, Dio ti vede, Stalin no – proclama un azzeccato slogan d’epoca); o con tutte le nostre tradizioni, la Madonna, i Santi, le pievi, il Santo Natale, tutto ciò che riaffiora dall’infanzia e dall’interiorità di ciascuno e fa tanto «Italia», appare naturale, siamo «noi», «fatti così», «da sempre», da una parte; e dall’altra, invece, loro, gli altri, i rossi, i negatori di tutto questo, i senza Dio.
C’è poco da scherzare, sulle forme e i contenuti di queste contrapposizioni. Qualcuno cerca ancor oggi di riesumare e tradurre in voti la paura del comunismo; e figurarsi quanto potesse funzionare come deterrente e come collante politico elettorale quando l’Unione Sovietica c’era, l’Armata Rossa c’era, il confine fra le due grandi aree «imperiali» era a Trieste, e c’erano il Pci e il Psi e c’era – come c’è ancora, questa – la Cgil.
E veniamo, allora, ai comunisti, che sono la pietra dello scandalo, più o meno esplicitamente additata da chi – soprattutto dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica e la caduta del muro di Berlino nel 1989 – non vuol più saperne di loro, neanche per il passato; e che, proprio per questo, esprime anche fastidio per la Repubblica fondata sulla Resistenza.
Bisogna tener fermo questo dato di fatto: senza l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non ce l’avrebbero fatta a vincere la guerra. È uno Stato totalitario, sottoposto alla ferrea dittatura di Stalin, ma le potenze capitalistiche e liberali scelgono egualmente di allearsi con l’Urss, perché Hitler, l’espansionismo e il razzismo della Germania nazista sono peggio. Liquidata la Germania e finita la guerra, quella contingente alleanza cessa e la contrapposizione – ideologica, politica e, potenzialmente, militare fra i due mondi – riprende in una guerra fredda a rischio sempre di tramutarsi in un catastrofico conflitto atomico. L’Italia è posta dalla geografia al confine fra mondo capitalista e mondo comunista: a Trieste – città sanguinosamente contesa fra Italia e Iugoslavia come un tempo fra Italia e Austria – finisce l’Occidente e comincia la zona di influenza sovietica. Questo significa che la sempre calda questione delle foibe – le voragini naturali del Carso nelle quali fra il ’43 e il ’45 viene fatto sparire un numero imprecisato di Italiani – così come l’esodo verso l’Italia di centinaia di migliaia di Istriani e di Dalmati vanno inquadrati in uno scontro antico e nuovo: che è, contemporaneamente, contrapposizione di storie, di nazionalismi esclusivi, di ideologie antitetiche, e di Stati e sistemi antagonisti.
I dirigenti comunisti – anche a costo di scontentare una parte della base – fanno di tutto per accreditare il proprio partito come una forza nazionale e responsabile, consapevoli che la spartizione politico-militare del mondo stabilita a Jalta dai vincitori della guerra ha assegnato l’Italia alla sfera d’influenza degli Stati Uniti: anche quando, il 14 luglio 1948, sparano a Togliatti, prima di perdere i sensi il segretario del Partito ha il tempo di raccomandare ai suoi di non perdere la testa; la rivoluzione bisogna scordarsela, non è cosa.
Nonostante questi gesti di buona volontà, le forze di centro e di destra continuano a diffidare dei comunisti e dei loro alleati socialisti, a vederli come un nemico interno, dei potenziali traditori, servi dell’Unione Sovietica (come sono servi degli Americani, per le sinistre, i governativi). Pio XII arriva a scomunicarli. Le elezioni del 18 aprile 1948 diventano una specie di ultima spiaggia, in una guerra senza quasi esclusione di colpi. Vince la Democrazia cristiana e da allora il destino del paese è segnato: diventa il più fedele alleato degli Stati Uniti – importante non in proprio, ma per la sua posizione geopolitica di avamposto militare rispetto al Mediterraneo e al blocco sovietico.
Ecco allora un punto da rimarcare: qualunque cosa si dica e si ripeta, credendoci o fingendo di crederci, sui «cosacchi» che da un momento all’altro potrebbero giungere ad abbeverare i loro cavalli in piazza San Pietro, almeno un terzo del popolo italiano ha votato lo stesso a sinistra per decenni, tutte le volte che ne ha avuto l’occasione; e non c’è da negare, per giunta, che, nel 1943-45, ma anche più avanti, ricorrentemente, una parte di almeno due generazioni di sinistra continuasse a coltivare dentro di sé la speranza di qualche cosa di ben più risolutivo della scheda elettorale: la si chiamasse rivoluzione o alternativa di sistema. L’Armata Rossa poteva essere percepita come grande strumento di liberazione o viceversa di sopraffazione e di conquista. «A da venì Baffone...» è una espressione d’epoca che allude con tutta la gamma possibile dei toni – fra minaccia e speranza, seria o scherzosa – all’arrivo di Stalin anche in Occidente.
Dal naufragio fascista, l’«Itala gente dalle molte vite» esce dunque anche così: non solo nascondendo la testa sotto la sabbia, autopunendosi per aver solo pensato di «fare la storia» e riparando a capofitto nell’Italia guelfa, con una forma di protettorato atlantico che esime dal pensar troppo in grande. Questa Italia si scopre e riconferma via via maggioritaria, vince e rivince alle elezioni, esprime il governo nazionale, comanda, ma non ha la possibilità di espellere dal corpo sociale quest’altra Italia dissidente: che è diversamente Italia, non però meno di lei. Pur con il carico di estraneità e colpevolizzazione che le viene gravato addosso.

Dal crollo al miracolo

Gli anni Cinquanta li anticipiamo, come avvio, al ’48, dopo il 18 aprile: è questa la data decisiva. Non certo che il ’45 – i domani che cantano! – si possa retrocedere a falsa partenza. Fra il ’43 e il ’47 tante cose sono avvenute e non si cancellano: la Repubblica è un dato di fatto e corona cento anni di attese; la Costituzione è in parte un dato di fatto, in parte un argine e una risorsa per il prossimo futuro; e la collaborazione – sia pure difficoltosa – c’è pur stata, fra classi e partiti di orientamenti diversi, prima nella Resistenza e poi nei governi Parri e De Gasperi (i primi tre degli otto governi presieduti dallo statista democristiano fra 1946 e 1953). In futuro questi precedenti lungamente rimossi e divenuti indicibili potranno tornare buoni: negli anni Settanta con il compromesso storico ideato da Enrico Berlinguer, segretario del Pci, fra Pci e Dc; verso il Duemila con la nascita del Partito democratico (Pd) e di altre formazioni e coalizioni in cui confluiscono una parte degli ex comunisti e una parte degli ex democristiani. Ma ora, e per trent’anni almeno, le elezioni di questo nuovo ’48 – di colore e spiriti tanto diversi rispetto a quelli del ’48 di cento anni prima – cambiano tutto. La Democrazia cristiana – che la gente semplice chiama senz’altro «la democrazia» – schiaccia il Fronte popolare dall’alto di un 48,5% che umilia socialisti e comunisti, che avevano osato sperare di prevalere e si ritrovano con il 31%. Partito di raccolta, la Dc lo è doppiamente: è il partito di raccolta dei cattolici, ma anche dei moderati e dei conservatori che non vanno in chiesa, di tutti quegli ex – ex monarchici, ex fascisti – di cui pullula l’Italia del dopoguerra: un’Italia dello «s-fascio» – dopo l’Italia del fascio – che ha bisogno di ritrovare dei punti di riferimento. I quali, ridotti all’osso, si possono considerare due: la Chiesa all’interno; l’America all’esterno. Non si dice Stati Uniti; come ai tempi dei nostri emigranti in cerca di fortuna si dice «America», fa parte di un mito condiviso di grandezza e superiorità, come se il Canada o il Messico, l’Argentina o il Brasile fossero chissà dove, entità trascurabili. I due pilastri materiali e ideali del blocco di potere destinato a reggere l’Italia nei successivi decenni sono, al di là di ogni differenza, cementati dall’anticomunismo. Il nemico esterno rende obbligata una irrevocabile scelta di campo in cui non sono ammesse le sfumature, tanto più che esso si presenta anche nelle vesti di un inquietante e potente nemico – anzi, vero e proprio straniero-interno: il Pci e il Psi, che gli rimane a lungo alleato. Gli amici e i nemici degli schieramenti internazionali del tempo di guerra appartengono a tempi remoti. Nato, Patto Atlantico. Non c’è modo di indugiare sulle differenze: negli Stati Uniti prevalgono i protestanti e una tacita convenzione emargina i cattolici, non ci sarà un presidente cattolico sino a Kennedy (1960-1963); un italo-americano, poi, neppur oggi è potuto riuscirci – otto o dieci generazioni dopo i primi arrivi degli emigranti. Ma tutto questo si sa e non si sa, e comunque non conta. La Chiesa è la diga anticomunista in Italia e gli Usa sono la diga anticomunista nel mondo: non si può guardare per il sottile, l’alleanza – il fronte dell’ordine contro il fronte del disordine – è un dogma e i dogmi non si discutono.
Tutto si complica e si trasforma con l’arrivo della televisione, destinata a mutare i contenuti e le forme della cultura di massa – dopo il suo arrivo in Italia e successo travolgente, dal 1953 – pur se sottoposta a un rigidissimo controllo di notabili e uomini di fiducia del partito cattolico. In quel primo quinquennio si potrebbe dire che Chiesa e America si dividano il compito più o meno così: alla Chiesa la tutela delle anime, all’America la protezione ...

Indice dei contenuti

  1. Avvertenza
  2. Il Risorgimento
  3. L’Italia dopo l’Unità
  4. Camicia Nera
  5. Il lungo dopoguerra