Autostima
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Autostima

Che cosa è, come si coltiva

  1. 128 pagine
  2. Italian
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Autostima

Che cosa è, come si coltiva

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Informazioni sul libro

Settecentounomila280 è il numero di ore che passiamo con noi stessi, considerando una vita media di 80 anni. Accettazione e rifiuto, gioia e tristezza, impegno e ritiro, senso di crescita e ripiegamento, ricerca di equilibrio e molto altro è quanto possiamo concederci, con ampio margine di scelta eccetto… fuggire da se stessi. Come gestire le proprie emozioni al fine di costruire autostima? Cosa motiva alcuni a non credere in sé? Perché alcuni più di altristanno bene con se stessi e pensano di valere? Come reagire agli insuccessi e alle sfide? Quali atteggiamenti adottare per mantenere e accrescere una visione positiva che porta a piacersi e a volersi bene?

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858113127

1. Piacersi e sentirsi capaci

1.1. (S)valutarsi

La nostra paura più profonda non è quella d’essere inadeguati. La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre misura. È la nostra luce, non le tenebre, che più di tutto ci spaventa.
Nelson Mandela
Vi piace ascoltare il rumore delle onde del mare? Vi piacciono i colori dell’arcobaleno? Vi piacciono la musica, il cinema, il teatro, le allegre compagnie? Vi piacciono il gelato, i dolci, le serate estive, il tepore della primavera? E i romanzi avvincenti e le vacanze rilassanti? E chissà quante altre cose vi piacciono.
E voi, vi piacete? La risposta più probabile? “Sì, ma...”.
Valgo o non valgo? Riesco o non riesco? Piaccio o non piaccio? Questi e molti altri sono gli interrogativi che accompagnano ciascuno di noi nella ricerca di una definizione di sé che vale, che può, che si sente riconosciuto. Cosa favorisce questo processo e cosa lo rallenta? Come motivarsi a conquistare l’autostima? Come reagire costruttivamente agli insuccessi e alle sfide? Quali atteggiamenti adottare per mantenere e accrescere una visione positiva che porta a piacersi, volersi bene e credere in sé?
A partire da una chiarificazione del costrutto e della sua origine, cercheremo di capire le relazioni fra autostima e aspetti di natura affettiva, cognitiva e relazionale cui essa è legata e di avviare un inizio di risposta ai quesiti sopra riportati, nell’idea che si tratti di un interrogarsi e rispondersi che non è mai definitivo, ma in crescita, proprio come ognuno di noi.
“Mi piaccio”, “Ho talento”, “Sono una persona ricca di potenzialità”, “Riesco bene in molte cose”: come vi valutereste su queste dimensioni? e perché? Il quanto costituisce una stima grossolana, ma importante, del vostro livello di autostima. Il perché aiuta a capire la sua origine e il suo mantenimento.
‘Valutazione globale di sé’ è la definizione più comunemente accettata di autostima, sin da quando Rosenberg (1965) ha introdotto questo concetto. Una stima globale sì, ma non esaustiva, né sommaria.
“Mi piaccio” è diverso da “Ho talento”. Una persona può stare bene con se stessa (piacersi) anche senza ritenersi particolarmente dotata. Analogamente, qualcuno potrebbe sentirsi più capace di altri senza in realtà riuscire a piacersi nella stessa misura in cui percepisce di riuscire.
La dimensione “Mi piaccio” si riferisce al self-liking (dall’inglese to like, piacere, proprio come un’attività, un cibo, un genere musicale...), mentre quella “Ho talento” riguarda la self-competence (dall’inglese, ‘avere le capacità per riuscire’). Entrambe contribuiscono a definire il concetto di autostima intesa come ‘orientamento positivo o negativo verso se stessi’ o, in modo ancor più diretto, come ‘credere di valere’, frutto di un insieme di pensieri ed emozioni riferite a sé come ‘oggetto’ di valutazione (Rosenberg, 1965). Prese assieme individuano due sfaccettature importanti che riguardano lo star bene con se stessi (self-liking) e il ritenere di avere potenzialità (self-competence) da dispiegare nel futuro. Ciò nonostante riguardano solo alcuni aspetti del nostro ‘guardare noi stessi’ (Tafarodi e Swann, 1995).
Vi è un proliferare di self-evaluations (valutazioni di sé), fra cui self-efficacy (autoefficacia), self-determination (autodeterminazione, scelta di chi si vuole diventare e delle ragioni che spingono a ciò), self-control (autocontrollo), self-regulation (capacità di coordinare, modulare, modificare strategie funzionali ad obiettivi da sé definiti e in cui si crede), self-concept (insieme di definizioni di sé in vari ambiti, non valutative). Nessuna di queste azioni autoriferite corrisponde all’autostima, ma molte di loro vi sono legate perché la favoriscono o ne sono una conseguenza.
Tutte riflettono una spinta naturale volta a rispondere a quesiti del tipo ‘chi sono?’, ‘dove sto andando?’, ‘chi diventerò?’, con due avvertenze:
1. Voi non siete i vostri self. Autoefficacia, autostima, autodeterminazione, autocontrollo, autodeterminazione sono importantissimi e svolgono funzioni rilevanti per la crescita, il benessere, l’integrazione, ma non costituiscono la vostra essenza.
2. Come vi avvicinate ai vostri self e cosa ve ne fate può far cambiare la vita, vostra e di chi vi sta attorno. Un conto è giudicarsi: bene o male poco cambia, è comunque un ‘chiudere’ e spesso un ‘bloccare’ che rende vischiosi i processi. Ben diverso è accogliersi e lasciar fluire, spingere, direzionare, motivare, che è comunque espressione di apertura e di crescita.
Vi siete mai chiesti cosa riesce a farvi deprimere o vi mette in ansia o vi fa arrabbiare, insomma vi scuote? È il sentirvi rifiutati o il non riuscire nelle cose importanti per voi? Su queste due dimensioni ‘approvato-disapprovato’ oppure ‘forte-debole’ (nel concretizzare i propri obiettivi, nell’agire sull’ambiente) si gioca la distinzione fra self-liking e self-competence.
Il self-liking risulta legato all’essersi sentiti e al sentirsi accettati, accolti e sostenuti, ha natura affettiva, porta a ricercare l’approvazione e sguardi positivi da parte degli altri. La self-competence si riferisce al percepirsi capaci nell’ottenere ciò che si desidera e nell’apprezzare che i propri sforzi producano effetti.
Il self-liking ha un’origine sociale. Gli altri mi vedono e mi apprezzano, mi sostengono nei momenti difficili, oppure non si accorgono di me, o mi ritengono inadeguato, inaccettabile, contrario alle attese. La self-competence (sentirsi capaci) si sviluppa manipolando l’ambiente con successo e ottenendo risultati che fanno sì che le intenzioni si traducano in realtà: ci provo, riesco, ce la faccio! Ha una natura cognitiva che fa riferimento in particolare alle aspettative di successo, al senso di efficacia personale, di controllo sul proprio agire. Entrambi – self-liking e self-competence – si sviluppano in un ambiente sociale e fanno perno sia sulle relazioni sviluppate nei primi anni di vita e poi internalizzate, sia su quelle attuali e sulle possibilità presenti e future di sentirsi accolti e percepire di riuscire o di venire rifiutati e fallire.
Niente da fare allora per chi viene escluso socialmente o esperisce dei fallimenti? Assolutamente no, per almeno tre ragioni.
La prima si riferisce al fatto che le due dimensioni ‘piacersi’ e ‘sentirsi capaci’ sono fra loro correlate. Ciò significa che più una persona si sente accettata, più apprezza i risultati del proprio impegnarsi negli ambiti ritenuti importanti nella propria vita e viceversa. Ciò suggerisce che è possibile risollevare una dimensione agendo sull’altra e che probabilmente c’è a monte un fattore comune legato al volersi apprezzare. Non riesco nelle imprese più ardue? Posso ridurre l’obiettivo o riformularlo, magari suddividendolo in sotto-obiettivi. Qualcuno mi esprime rifiuto? Posso cercare altre compagnie o decidere di dare meno rilievo alle opinioni degli altri nei miei confronti.
La seconda riguarda le relazioni fra ciascuna delle due dimensioni e altre variabili psicologiche. Come gli stessi Tafarodi e Swann (1995) hanno mostrato, il piacersi è correlato con il sentirsi accettati e sostenuti, mentre il sentirsi capaci è legato all’apprezzamento della propria riuscita in ambiti importanti per sé. Di conseguenza, trattandosi di valutazioni su fatti percepiti, è possibile focalizzarsi, ricordare, rimuginare rifiuti, insuccessi, fallimenti, disapprovazioni; oppure ricordare i casi in cui abbiamo sperimentato accettazione, accoglienza, buoni risultati, sforzi coronati da successi, realizzazioni importanti per noi.
Terzo, siamo noi la fonte della nostra autostima e sta a noi decidere come valutarci e cosa farcene dei nostri eventuali giudizi, che – badate bene – dovrebbero essere personali, ma... lo scoprirete nel prossimo paragrafo.

1.2. Piacere a chi?

Non sia di altri chi può esser di se stesso
Paracelso
Self-liking vuol dire piacersi?
È solo una traduzione. La dimensione self-liking, nonostante il self (che media e che può fare la differenza), è socialmente dipendente. Fa la differenza il modo in cui gli altri reagiscono, se ci incoraggiano, ci sostengono, valorizzano i nostri sforzi oppure ci sono indifferenti o addirittura esprimono disapprovazione o rifiuto.
Una delle principali fonti di autostima è infatti il cosiddetto reflected-appraisal (Cooley, 1902; Mead, 1934), traducibile con ‘valutazione riflessa’, per cui le persone tendono a basare i propri personali giudizi di autostima sulle opinioni e sulle percezioni che altri esprimono sulla loro persona o anche sul gruppo (le donne, gli italiani, le professioni, le categorie sociali, i giovani o gli anziani, ecc.).
È significativa la parola reflected, che richiama uno specchio, quasi ci fosse una tendenza a guardarci come gli altri ci vedono, per come appariamo o magari anche cerchiamo di mostrarci.
Le cose cambiano se l’accettazione o il rifiuto che percepiamo riguardano ciò che abbiamo fatto o la persona che siamo. Nel primo caso si può mantenere un ‘sistema di fiducia’ che porta a credere di poter comunque cambiare, migliorare e crescere. Viceversa, nel secondo si può sviluppare un ‘sistema di paura’ che può portare a dubitare delle proprie caratteristiche e capacità, come pure a vivere nel costante timore di ‘non essere all’altezza’ o di ‘doversi mostrare bravi abbastanza’.
A fare la differenza è la convinzione sottostante, nutrita sia da chi si esprime sia dalla persona verso cui l’apprezzamento o il rifiuto sono rivolti. Secondo Dweck (1999) è possibile distinguere fra una modalità entitaria tipica di chi crede che le persone abbiano caratteristiche, capacità e competenze predeterminate, e una incrementale, che muove dalla convinzione che le capacità, le competenze e persino il carattere si sviluppino nel tempo.
Come è possibile osservare nella figura 1.1, gli esiti derivanti dalle due convinzioni sono contrapposti. Una persona che nutre una convinzione entitaria tenderà a giudicare, classificare, confermare attese ed esprimersi con toni perentori, ad esempio dicendo “Sei portato per la matematica” o “Sono un ritardatario”. Diversamente chi nutre una convinzione incrementale tenderà a scindere la persona dal suo comportamento, pensando che è possibile cambiare, migliorare, atteggiarsi diversamente, e quindi dirà, di fronte alle stesse evidenze: “Vedo che ottieni buoni voti in matematica”, “Arrivo spesso in ritardo”, lasciando intendere che questa realtà non è detto che sia per sempre: può cambiare. E come può cambiare la realtà, così anche la persona può ritrovarsi diversa e, volendo, scegliere di partire prima per arrivare in tempo agli appuntamenti.
Figura 1.1. Presupposti ed effetti delle convinzioni entitaria e incrementale.
Fa la differenza se ci rivolgono e ci rivolgiamo (adottiamo modalità entitarie o incrementali anche con noi stessi) uno sguardo ‘giudicante’ (sulla nostra persona) o ‘aperto’ (sulle possibilità di cambiare i nostri comportamenti). Nel primo caso tenderemo a pensare che ‘siamo proprio così’ e ‘saremo così per sempre’. Nel secondo, invece, potremo credere di cambiare, quando addirittura non saremo incoraggiati in tale direzione.
Analogamente cambia se noi stessi ci vediamo come creature da classificare e definire o come espressioni di un continuo mutamento, ovvero se leggiamo la realtà con ‘occhiali’ entitari o incrementali. Ad esempio, l’espressione “Lascio spesso le cose fuori posto” può essere letta da un entitario come “Sono disordinato” (e mi disistimo perché non è certo un comportamento apprezzabile), e da un incrementale come “Forse dovrei decidermi a fare ordine” (riflessione che non intacca l’autostima e anzi la rafforza nella misura in cui la persona trova il modo e il tempo per mettere le cose al loro posto).
E allora, ‘piacere a chi?’. Agli altri che ci offrono materiale su cui riflettere, ma soprattutto a noi stessi. Indipendentemente dal modo più entitario o incrementale con cui gli altri si esprimono (e ci trattano) sta a noi scegliere di accoglierci in modo incrementale e con questo piacerci e migliorarci.
Come fare? Cominciando con il dirsi, fino a crederci (è una nota tecnica per cambiare le attitudini chiamata saying is believing, ossia ‘a forza di dirlo/dirmelo ci credo’ – Higgins e Rholes, 1978):
1) io non sono l’immagine che di me stesso offro e che gli altri riflettono, ma di questa immagine posso tenere conto per migliorarmi e cambiare;
2) non posso vivere nel costante timore di non fare ciò che gli altri si aspettano... tenuto conto che diverse persone nutrono attese differenziate nei miei confronti;
3) mi stimo per ciò che faccio, dico, esprimo, per il potenziale che sviluppo, più che per la supposta persona che sono;
4) posso piacere agli altri, ma soprattutto devo piacere a me; solo così potrò riuscire a infondere fiducia in coloro con cui interagisco e assieme ai quali vivo, consapevole che a loro volta acquisiscono ragioni per stimare se stessi anche grazie a me.
Non si tratta quindi di ‘mostrarsi forti o bravi o belli’, bensì di ‘mostrare le proprie forze’, cioè di lavorare non per la propria immagine ma per la propria persona, con tutte le potenzialità e le debolezze, i punti eccelsi e le fragilità, la voglia di mettersi in gioco e quella di mollare tutto..., perché piacersi non significa farlo ‘quando tutto va bene’, ‘se la realtà corrisponde alle attese’, ‘se mi apprezzano e mi elogiano’. Anzi, è proprio di fronte alle avversità della vita, alle incomprensioni, alle indecisioni, agli insuccessi e alle delusioni che abbiamo ancora più bisogno di piacerci, per superare il momento, per andare oltre, per scoprire che lo sguardo che rivolgiamo a noi stessi e l’atteggiamento con cui ci accogliamo fanno la differenza e possono motivarci e renderci felici.

1.3. Riesco quindi valgo

Nessuno può farti sentire inferiore senza il tuo consenso. Non darglielo mai!
Eleanor Roosevelt
“Se vado bene ed ottengo buoni risultati mi sento meglio”. Quanto siete d’accordo con questa affermazione? E con la segu...

Indice dei contenuti

  1. 1. Piacersi e sentirsi capaci
  2. 2. Successo, motivazione e autostima
  3. 3. Vivere le proprie emozioni
  4. 4. Misurare l’autostima
  5. 5. Coltivare l’autostima
  6. Bibliografia
  7. Ringraziamenti