Homo videns
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Televisione e post-pensiero

  1. 182 pagine
  2. Italian
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Televisione e post-pensiero

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«Un saggio polemico ed estremamente intelligente»Fernando Savater«La domanda di fondo intorno alla quale riflette Giovanni Sartori non può essere elusa: davvero il tele-vedere cambia la natura umana? Davvero la televisione è uno strumento antropogenetico? Non c'è dubbio che sia così»Gad Lerner

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858118689

E la democrazia?

1. Video-elezioni

Nella seconda parte abbiamo esaminato gli effetti di fondo della video-politica, e soprattutto la sua incidenza sulla formazione della pubblica opinione. Restano da esaminare due aspetti specifici: la sua incidenza elettorale e la sua incidenza sul governare.
Già al tempo dei soli giornali la domanda era: quanto pesa il giornale nell’influenzare le scelte degli elettori? È difficile accertarlo. Di solito rispondiamo con prove indirette. Per esempio, che la maggioranza dei giornali, o i giornali più forti, hanno sostenuto candidati e partiti che non hanno vinto. In Italia la stampa delle «regioni rosse» del dopoguerra (il «Resto del Carlino» a Bologna e la «Nazione» a Firenze) era anticomunista, e i comunisti vincevano a man bassa lo stesso. È, questa, una prova di poca influenza? Sicuramente no. Per misurare davvero l’influenza elettorale dei giornali occorrerebbero dei «controfattuali», e cioè l’assenza di giornali, oppure rapporti di forza invertiti tra i giornali. Per esempio, senza la «Nazione» il voto comunista in Toscana sarebbe restato quello che era oppure sarebbe salito, mettiamo, al 65 per cento? E se al posto della «Nazione» fosse stata l’«Unità» a vendere in Toscana 350.000 copie, il Pci sarebbe restato a quel 65 per cento, oppure sarebbe salito al 75 per cento? Queste domande restano senza risposta certa perché l’ipotesi «se x non ci fosse, allora» non è verificabile.
Il problema è analogo con la televisione: manca, dicevo, il controfattuale. In taluni casi è pressoché sicuro che l’influenza della televisione è decisiva. In una ricerca sperimentale Iyengar e Kinder distinguono tra il potere dei notiziari televisivi di «comandare l’attenzione del pubblico (agenda setting)» e il potere di «definire i criteri che ne informano il giudizio (priming)», e per entrambi i rispetti concludono che «le notizie televisive influenzano in modo decisivo le priorità attribuite dalle persone ai problemi nazionali e le considerazioni in base alle quali valutano i dirigenti politici» (1987, p. 117)1. Il caso degli Stati Uniti è peraltro un caso semplice. Quattro americani su cinque dichiarano di votare in funzione di quanto apprendono dallo schermo. Sono con ogni probabilità le persone che non leggono alcun giornale; e siccome negli Stati Uniti i partiti sono debolissimi e le stazioni radio sono tutte locali e con pochissima politica, qui il conto è presto fatto. Ma in Europa i giornali e i partiti hanno ancora un peso che può controbilanciare l’influenza del video, e pertanto il computo dell’influenza è difficile da fare. Comunque la regola di massima è che la televisione è tanto più influente quanto minori sono le controforze in gioco, e specialmente quanto più debole è il giornale, o quanto più debole è la canalizzazione partitica dell’opinione pubblica.
Quel che sappiamo misurare è soprattutto la variazione delle intenzioni di voto nel corso delle campagne elettorali. Per esempio, alle elezioni italiane del 1994 Luca Ricolfi ha calcolato (intervistando un suo campione ogni 15 giorni) che la televisione aveva spostato a destra più di sei milioni di voti. E anche se questo è uno spostamento massimo, sono molti a ritenere che tre-quattro milioni dei nostri elettori siano tele-guidati. Sia chiaro, in materia una spiegazione strettamente monocausale non tiene quasi mai. Ma se ci limitiamo alla variazione delle intenzioni di voto, è plausibile che a questo effetto l’influenza della televisione sia decisiva.
Resta che questa misura esclude chi il voto non lo cambia, e cioè il grosso dell’elettorato. Perché non lo cambia? Probabilmente perché, data una molteplicità di appelli diversi e contrari, le sollecitazioni dei media si neutralizzano l’una con l’altra. Ma questa non è prova di non-influenza; e qui siamo di nuovo sul terreno friabile di prove indiziarie.
Non ci dobbiamo limitare, peraltro, a quanto la televisione incide sul voto. Gli effetti della video-politica sono a vasto raggio. Uno di questi effetti è, sicuramente, che la televisione personalizza le elezioni. Sul video vediamo persone, non programmi di partito; e persone costrette a parlare con il contagocce. Insomma, la televisione ci propone persone (che eventualmente discorrono) in luogo di discorsi (senza persone). S’intende che il leader massimo, come si dice oggi, può emergere comunque, anche senza televisione. Ai loro tempi Hitler, Mussolini, Perón se la sono cavata benissimo con la radio, i notiziari proiettati nei cinema, e i comizi. La differenza è che Hitler magnetizzava con discorsi isterici e torrenziali e Mussolini con una retorica lapidaria, mentre il video-leader più che trasmettere messaggi è il messaggio. È il messaggio proprio nel senso che se analizziamo quel che dice, scopriamo che «i media creano il bisogno di forti personalità con linguaggi ambigui [...] che consentono ad ogni gruppo di cercare in esso ciò [...] che vuol trovare» (Fabbrini, 1990, p. 177).
Sia come sia, quando si parla di personalizzazione delle elezioni si intende che contano di più le «facce» (se sono telegeniche, se bucano in televisione o no), e che la personalizzazione diventa generalizzata, dal momento che la politica «in immagini» si impernia sull’esibizione di persone. Il che vuol anche dire che la personalizzazione della politica si dispiega a tutti i livelli, ivi includendo – specialmente se il voto è in circoscrizioni uninominali – il livello dei leader locali.
L’ultima osservazione ci ricorda che, ad effetto della personalizzazione, il sistema elettorale è una variabile importante. Qui la regola di massima è che il potere del video è minore quando il voto è dato a liste di partito, e che si dispiega al suo meglio quando il sistema elettorale è anch’esso personalizzato, e cioè quando si vota in collegi uninominali per singoli candidati. Però, attenzione, il sistema elettorale interagisce sempre con il sistema partitico e più esattamente con la sua forza strutturante (cfr. Sartori, 1996, pp. 51-60). Gli Stati Uniti e l’Inghilterra hanno lo stesso sistema elettorale: il sistema uninominale a un turno. Ma l’incidenza della video-politica è fortissima nelle votazioni americane e modesta in quelle inglesi. La ragione è, torno a dire, che il sistema partitico è debole, debolissimo in America, mentre resta forte, fortemente strutturato, nel Regno Unito.
Il sistema elettorale e il sistema partitico sono dunque variabili importanti nel favorire o contrastare la personalizzazione della politica. Lo è anche il sistema politico, in ordine alla differenza tra sistemi presidenziali e sistemi parlamentari. Nei sistemi presidenziali il capo dello Stato è creato da una elezione popolare diretta. E dunque in questi sistemi la personalizzazione della politica è massima. E lo è specialmente negli Stati Uniti, dove anche la forza della televisione è massima.
I commentatori americani caratterizzano la loro elezione presidenziale come una horse race, una corsa dicavalli, e la copertura televisiva di questa corsa come un game reporting, il racconto di un gioco. Lascio la parola a T.E. Patterson (1982, p. 30): «Prima i candidati costruivano i loro pubblici di seguaci in base ad appelli sostantivi, di contenuto. Ora si devono confrontare con la dinamica di come viene raccontato un gioco»; e questo perché il reportage diventa, a un tempo, «dominato dal reporter» e game centered, ricondotto al nucleo di un gioco. La sostanza è che la corsa presidenziale viene resa come uno spettacolo (rientra anch’essa nello show business) nel quale lo spettacolo è l’essenziale, e l’informazione un residuo.
L’ultimo punto è questo: che la video-politica tende a distruggere – dove più, dove meno – il partito, o quantomeno il partito organizzativo di massa che in Europa ha dominato le scene per circa un secolo. Non è solo che la televisione è strumento di e per candidati anziché medium di o per partiti; è anche che il rastrellamento dei voti non richiede più un’organizzazione capillare di sedi e di attivisti. Berlusconi ha catturato un quarto dei voti degli italiani senza nessun partito organizzato alle spalle (ma con le spalle ben coperte da un proprio impero televisivo). Il caso del presidente Collor, in Brasile, è analogo: un partituccio improvvisato su due piedi, ma con un forte appoggio televisivo. Negli Stati Uniti Ross Perot è arrivato nelle elezioni presidenziali del 1993 a raccogliere un quinto del voto facendo tutto da solo, con i suoi soldi, semplicemente con i talk-shows e pagando le sue presentazioni televisive.
Io non prevedo che i partiti spariranno. Ma certo la video-politica riduce il peso e l’essenzialità dei partiti e, per ciò stesso, li costringe a trasformarsi. Il cosiddetto «partito pesante» non è più indispensabile; il «partito leggero» è sufficiente.

2. La politica video-plasmata

Va da sé che le video-elezioni trapassano in una più ampia video-politica, e quindi che non c’è soluzione di continuità tra l’incidenza elettorale e l’incidenza complessiva della televisione. E con questa avvertenza passo al quadro allargato, al quadro di insieme.
Ripartiamo da questo antefatto: come il politico faceva politica fino a circa cinquant’anni fa. La faceva sapendo poco, e anche curandosi poco di quel che i suoi elettori avrebbero voluto. I sondaggi non c’erano; e poi non si riteneva che il rappresentante fosse o dovesse essere il mandatario, il portavoce dei suoi rappresentati. Le costituzioni, tutte le costituzioni, vietano il mandato imperativo (e per buonissime ragioni: cfr. Sartori, 1995, capitolo 11). Pertanto in passato il rappresentante era largamente indipendente dai suoi elettori. Ma questa indipendenza fu, in realtà, privilegio o appannaggio soltanto del cosiddetto politico gentiluomo – in genere il signore o notabile del luogo – dell’Ottocento. Il gentleman politician era benestante (proprietario terriero), non era legato ad alcun partito o da alcun vincolo programmatico, e di regola veniva eletto (erano i tempi del suffragio ristretto) senza opposizione. Questo stato di cose cambia con gli allargamenti del suffragio, l’affermarsi in Europa della politica ideologica e, con essa, dei partiti organizzati di massa: partiti operai e, sull’opposta sponda, cattolici. Nel corso del Novecento il partito – anche in forza dell’ideologia che lo istituisce e che impersona – prevale sugli eletti, e così comincia la loro partito-dipendenza. Quanto più l’elettore vota il simbolo, l’ideologia o il programma di un partito, tanto più i candidati dipendono dal loro partito per essere eletti.
Dunque, per circa un secolo il rappresentante è stato partito-dipendente, quantomeno nei grandi partiti di massa. Oggi questa dipendenza si è indebolita o sta venendo meno. Ma non ne consegue per questo che stiamo tornando al rappresentante indipendente e «responsabile» teorizzato da Edmund Burke nel suo celebre indirizzo agli elettori di Bristol del 1774. In realtà, stiamo passando al rappresentante variamente collegio-dipendente e video-dipendente, oltre che sondaggio-dipendente. Insomma, l’indipendenza del rappresentante non c’è più da tempo; e il passaggio dal «dipendere dal partito» ad altre forme di dipendenza non è detto che costituisca un progresso. Non è detto cioè che il rappresentante liberato dal controllo partitocratico sia un rappresentante che funziona meglio, che fa meglio il mestiere che è tenuto a fare.
Cominciamo dalla collegio-dipendenza che caratterizza, torno a precisare, un sistema elettorale uninominale che si dispiega all’interno di un sistema partitico debole. In tal caso diventa vero – come viene largamente detto e accettato negli Stati Uniti – che all politics is local, che alla fin fine la politica si risolve tutta in politica locale. Beninteso, quando c’è democrazia c’è sempre politica locale, e cioè eletti che sono tenuti a soddisfare i desiderata e gli interessi dei loro elettori. Non ne consegue, o non ne dovrebbe conseguire, che tutta la politica sia locale. Perché in tal caso la collegio-dipendenza non è più un «servire la località», diciamo, fisiologico; diventa un patologico tutto-servire che è grave di conseguenze. Certo, si potrà sostenere che la collegio-dipendenza è un incremento di demo-potere. Ma, attenzione, il demos in questione non è tutto il popolo nel suo insieme. È invece una congerie di «piccoli popoli» frammentati e chiusi nei loro piccoli orizzontilocali.
Pertanto questo supposto progresso democratico trasforma il parlamento in una costellazione di interessi particolari in conflitto, in un’arena di rappresentanti convertiti in mandatari il cui mandato è di portare spoglie a casa. E così tanto più la politica si localizza, e tanto più spariscono la visione e il perseguimento dell’interesse generale, del bene dell’insieme. E così, dunque, la politica si trasforma in un gioco a somma nulla e anche in un gioco a somma negativa: una operazione tutta in perdita.
Quali sono le colpe della televisione nella crescita del localismo? Anche se questo sviluppo dipende da una molteplicità di fattori, uno di questi, e sicuramente di peso, è che la televisione tende a concentrarsi su notiziari locali (vedi qui, pp. 56 sgg. e 87 sgg.).
Assieme alla collegio-dipendenza del rappresentante ne ho richiamato la video-dipendenza. Questa video-dipendenza ha molti aspetti; ma il più importante mi sembra questo: che i politici si rapportano sempre meno a eventi genuini, e sempre più a «eventi mediatici», e cioè a eventi selezionati dalla video-visibilità e poi gonfiati o anche distorti, a volte, dalla cinepresa. Questa reazione a eventi mediatici è particolarmente grave in politica internazionale. Il presidente Reagan si cacciò nei pasticci dell’Irangate perché vedeva ogni sera in televisione le immagini gementi dei parenti degli ostaggi. Il caso della Somalia è poi emblematico. Perché intervenire in Somalia e non invece in altri paesi africani egualmente affamati, prostrati da conflitti tribali e insanguinati da «signori della guerra»? La Somalia è stata un grande battage televisivo. Dopodiché i riflettori sono stati spenti, della Somalia nessuno si ricorda, e tantomeno nessuno ci racconta che lì tutto è come prima. Come si sapeva e doveva sapere, perché se si interviene in un sistema di banditi, o si eliminano i banditi oppure è inutile. Ma la televisione ha «montato» un intervento soltanto umanitario, per sfamare e basta. La Somalia non poteva che essere un fiasco; e fu un fiasco che la televisione non ha mai spiegato né fatto capire.
Un altro aspetto importante della politica video-plasmata è non solo che il video diventa la più importante autorità cognitiva dei grandi pubblici (vedi supra, p. 45), ma che al tempo stesso attribuisce un peso inedito, e devastante, alle false testimonianze. Con la televisione le autorità cognitive diventano divi del cinema, belle donne, cantanti, calciatori, e via lungo questa china, mentre l’esperto, l’autorità cognitiva competente (anche se non sempre intelligente), diventa una quantité négligeable. Eppure è di solare evidenza che i «testimoni» che servono sono soltanto gli addestrati nelle cose di cui parlano. Un musicista sa di musica, un matematico di matematica, un poeta di poesia, un calciatore di calcio, un attore di recitazione. Come cittadini hanno anche loro il diritto di esprimere opinioni sulla politica; ma non opinioni accreditate di un particolare significato o valore. Invece la video-politica attribuisce un peso del tutto spropositato, e spesso schiacciante, a chi non è «fonte autorevole», a chi non ha nessunissimo titolo di opinion maker; davvero un pessimo servizio alla democrazia come governo di opinione.
L’ultimo aspetto della video-politica da richiamare qui è che la televisione privilegia – nolente ma anche volente – l’emotivizzazione della politica, e cioè una politica ricondotta e ridotta a grappoli di emozioni. Lo fa, già notavo, raccontando a valanga storie lacrimose e vicende commoventi. Lo fa anche, inversamente, decapitand...

Indice dei contenuti

  1. Premessa alla nuova edizione
  2. Premessa alla seconda edizione
  3. Prefazione
  4. Il primato dell’immagine
  5. L’opinione telediretta
  6. E la democrazia?
  7. Appendice
  8. Riferimenti bibliografici