Per il lavoro
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Per il lavoro

Rapporto-proposta sulla situazione italiana

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Rapporto-proposta sulla situazione italiana

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«È proprio nell'incontro-scontro tra la dimensione soggettiva e antropologica del lavoro e quello che possiamo indicare come 'il principio di realtà' che si decide, in larga misura, il successo o l'insuccesso dell'Italia nel far fronte alla sfida posta dai mutamenti del contesto mondiale». Camillo RuiniUn profondo malessere affligge in Italia il mondo del lavoro; un malessere reso più drammatico dalla grave crisi economica in corso. I tratti di questo malessere sono molteplici e presentano in genere una maggiore gravità al Sud che al Centro e al Nord del paese. I motivi sono la scarsità endemica di lavoro, che colpisce soprattutto le generazioni più giovani e le donne; la mancanza di seri percorsi di formazione professionale; la rassegnazione di chi addirittura rinuncia o rifiuta alcune occupazioni, assegnate in modo quasi esclusivo a stranieri; la diffusione di lavori in nero, precari e mal pagati; la scarsità di apprendisti per l'artigianato, forse il patrimonio economico e culturale più grande del paese; il contrasto sempre più evidente tra i tempi del lavoro e i tempi della famiglia; un contesto istituzionale, giuridico e infrastrutturale fatiscente; e, ultimo ma non meno importante, una progressiva perdita di senso del lavoro stesso. Presi nel loro insieme questi aspetti mostrano in modo eloquente come nel malessere che affligge il mondo del lavoro si rifletta un malessere più generale che coinvolge l'intero paese.Questo Rapporto-proposta, nello spirito che ha contraddistinto i precedenti Rapporti – quello sull'educazione e quello sul cambiamento demografico – intende offrire un contributo di riflessione sul problema del lavoro e sulle sue diverse manifestazioni, suggerendo nel contempo alcune utili proposte.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788858109069
Argomento
Economics

Capitolo 1. La dimensione antropologica del lavoro

1. Crisi del senso del lavoro

La grande tradizione occidentale dell’idea di lavoro, riscattata e nobilitata dal cristianesimo, trova la sua massima enfasi nella cultura moderna, età della «glorificazione teoretica del lavoro» (H. Arendt), epoca cioè del mito lavoristico che interpreta il lavoro come paradigma dell’attività umana, luogo storico della definitiva emancipazione dell’uomo, condizione del suo massimo progresso; insomma epoca che fa del lavoro il luogo strategico delle sorti umane. Tale rappresentazione entra in crisi nell’età contemporanea, a motivo sia delle grandi trasformazioni strutturali (tecnologia e finanza) che sembrano aprire una fase storica di «fine del lavoro» (J. Rifkin), sia di quelle culturali indotte (lavoro divenuto funzione del non-lavoro, consumo e tempo libero, nuovi fini storici della produttività). Questo cambia profondamente la mentalità lavorativa, ne scompone la visione tradizionale e fa nascere il bisogno di ripensarne la figura e il senso nel nuovo contesto contemporaneo.
Emerge anzitutto l’ambivalenza antropologica e culturale del lavoro nelle sue condizioni moderno-contemporanee sempre più intrecciate con il fattore tecnologico. Questo, infatti, che ha effetti inediti di esonero dalla fatica fisica, e quindi di liberazione di energie e di risorse umane, induce anche fenomeni di disoccupazione di massa; mentre ha un effetto esponenzialmente moltiplicatore della potenza produttiva del lavoro, diffonde anche una mentalità tecnicista che attribuisce il primato culturale alla ragione strumentale, riduttiva rispetto all’ampiezza dei significati di cui è capace e di cui ha bisogno la ragione umana. La tecnica, d’altra parte, per sua spontanea e interna dinamica tende alla concentrazione del potere (economico, organizzativo, dispositivo) e, divenuta potenza tecnologica in unione con le scienze, tende a farsi fine oltre che mezzo, a fare cioè della sua conservazione e del suo potenziamento lo scopo di se stessa, rendendo lo stesso soggetto umano sempre più parte integrata del suo sistema, suo mezzo o addirittura suo oggetto di produzione.
Tutto ciò non giustifica una visione antitecnicista, ma deve rendere avvertiti che oggi il lavoro trasmette spontaneamente un’idea funzionalista dell’esistenza e orienta l’intera vita civile allo sforzo collettivo per il dominio del mondo (fin dentro la vita dei soggetti attraverso le biotecnologie), sfruttando una certa ovvia (in realtà, banale) idea di autonomia della tecnologia dall’etica e dell’economia dalle altre forme dello scambio sociale. In tal modo si produce un duplice simultaneo impoverimento: del lavoro, in quanto settore separato, meramente funzionale, dell’esistenza, e della vita civile, carente di quelle valenze simboliche di cui esso ha bisogno per essere parte viva di un’integrale esperienza umana e sociale, e non soltanto strumento per guadagnarsi da vivere o per ottenere individuali soddisfazioni. Di qui il bisogno culturale di recuperare un’idea antropologica del lavoro unitaria e articolata, in cui possano risplendere i suoi significati fondamentali, da confrontare con le problematiche contemporanee del lavoro.

2. Trasformazione del mondo e umanizzazione dell’uomo

La prima evidenza è la pluridimensionalità del lavorare umano. Il lavoro esiste infatti non come dato, ma come attività inestricabilmente volta all’oggettivo e al soggettivo, all’esterno e all’interno, perché è sempre un fare e un agire interconnessi. Il lavoro è trasformazione della realtà naturale o di un dato già elaborato al fine di fornire un prodotto inseribile nel circuito di mercato; in questo senso esso appartiene all’ordine del fare. Tuttavia le qualità umane impegnate nella realizzazione di qualunque lavoro lo riguardano non solo come produzione, ma anche come atto umano; sotto questo profilo il lavoro è azione e appartiene perciò anche all’ordine dell’agire cognitivo (conoscenza pratica), ideativo (capacità creativa o esecutiva), volontario (libertà e finalità), relazionale (rete di rapporti essenziali alla progettazione, organizzazione, rea­lizzazione, commercializzazione del lavoro e del suo prodotto). Sotto questo profilo il lavorare è perciò un’attività che riguarda il bene dello stesso soggetto lavoratore. In essa il soggetto realizza (o meno) se stesso ed entra (in modo più o meno positivo) in relazione pratica con altri soggetti del mondo del lavoro e del mondo civile. In questo senso l’attività lavorativa riguarda l’intero della persona e non può essere considerata mai solo come mezzo per altro, ma sempre anche come fine in se stessa.
La dimensione produttiva del lavoro è così sempre intrecciata con quella dell’azione e della relazione e solo a questa condizione assume la sua piena fisionomia umana, ottenendo anche la sua concreta efficienza. Ricondurre il lavoro a sola produzione significherebbe mantenerlo entro una concezione puramente naturalistica e strumentale, come poteva essere quella greca in cui esso era considerato trasformazione materiale ad opera di «strumenti animati» (Aristotele) quali erano gli schiavi. Diversa era invece la concezione veterotestamentaria del lavoro come compito affidato dal Creatore all’uomo per coltivare e custodire la terra e completare in questo modo l’opera della creazione. Sarà infatti su questa base che, con la rivoluzione antropologica cristiana, il lavoro diverrà parte integrante di un cammino di conversione e di comunione dell’intera esistenza, come appare già in san Paolo, nel modello monastico benedettino, decisivo nella rinascita europea a partire dall’età carolingia, e poi ancora nella cultura civile dell’Umanesimo fortemente influenzata dalla spiritualità francescana.
Il lavoro, dunque, in sé considerato è fattore sia di trasformazione del mondo, sia di umanizzazione dell’uomo. Ovvero esso sta a mezzo tra uomo e natura e tra l’uomo e il prodotto di precedenti trasformazioni bisognose di rinnovamento o di cambiamento, avendo di mira la riproduzione delle condizioni di vita, la soddisfazione dei bisogni, in forza del desiderio tipicamente umano di adattamento del mondo a sé e di fare del mondo la propria dimora. Ma il lavoro sta anche a mezzo tra uomo e uomo, in quanto luogo di collaborazione, di riconoscimento sociale, di utilità comune. Sotto questo profilo, con il lavoro il soggetto lavoratore si trova appartenente a un contesto sociale, ha modo di formare e affermare una sua identità competente, riceve riconoscimento civile attraverso l’operosità della sua esistenza. Insomma l’attività lavorativa appartiene in modo rilevante al mondo delle relazioni identificanti la soggettività umana.
Per questo, ancora una volta, il lavoro non può essere considerato puro mezzo di sopravvivenza e di sostentamento se non perdendo una parte essenziale del suo significato antropologico, come risulta anche dal dramma umano e sociale della sottoccupazione e della disoccupazione, in cui è tutto un sistema di relazioni e di identificazioni sociali a entrare in crisi. Esiste invece uno specifico, profondo e articolato piacere del lavoro, che accompagna e supera la sua fatica, che si origina dalla stessa capacità di operare e di ben operare; dalla capacità di auto-sostentamento, di possibilità di indipendenza, di progettualità familiare; dal senso di utilità sociale, di riconoscimento civile, di accesso concreto all’esercizio dei propri diritti; dal senso di autostima che proviene da tutto ciò, ecc. In sintesi, la realtà attiva del lavoro è strettamente relazionata alla dignità dell’uomo come tale, alla sua protezione, alla sua espressione, al suo riconoscimento sociale.
Se, dunque, «mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso ‘diventa più uomo’», allora del lavoro non si può non sottolineare particolarmente il «senso soggettivo» (Laborem excercens, n. 9). Ma tale senso soggettivo non si limita a sottrarre il lavoro alla sola dimensione strumentale o a quella sistemica strutturale, riconoscendo la soggettività del lavoratore e la dignità umana del lavoro, ma si estende alla considerazione di dimensioni che riguardano sia il vissuto personale, sia valori culturali socialmente rilevanti, in termini di umanesimo e di civiltà. La prassi umana infatti, di cui il lavoro è parte principale, è portatrice di significati culturalmente decisivi che la teorizzazione della defunta praxis marxista e l’agonizzante concezione dell’homo oeconomicus hanno impoverito, cooperando così sistematicamente alla crisi contemporanea di quel senso antropologico del lavoro che attraversa diagonalmente tutte le sue forme ed espressioni.

3. Categorie antropologiche del lavoro

Il dato fondamentale, su cui forse non si riflette abbastanza, è che la prassi umana in generale e l’attività lavorativa in essa sono tali, cioè fenomeni umani, perché non si limitano ad essere una capacità tecnica trasformativa conclusa in se stessa, come è quella animale, ma partecipano di un orizzonte di senso, e quindi di un mondo culturale, in forza del quale la prassi appartiene all’intera esperienza umana, ne condivide l’apertura al senso del vero, del bene, del bello, insieme al valore dell’utile e del giusto, ed è quindi produttrice sempre anche di forme culturali con cui interpreta se stessa, il lavoro e il mondo umano. In concreto, è perché l’uomo opera entro l’orizzonte sconfinato di queste dimensioni che non è schiavo dei suoi bisogni, ma vi provvede praticamente dando loro forma culturale, incarnando lo spirito e spiritualizzando la carne. In questo senso la cultura non è una tra le dimensioni dell’agire e del lavorare umani, ma è la loro stessa dimensione propriamente umana, ne esprime cioè la qualità umana in quanto umana.
Ciò ha alcune conseguenze rilevanti. La prima è che l’attività umana, anche quella produttiva regolata dalle tecniche e dal mercato, porta in sé un senso di gratuità che non è valore economico calcolabile, ma esprime il valore che ha per se stessa l’opera umana e la sua dignità, che – come affermava Kant del valore morale – non ha e non deve avere prezzo. Dunque un carattere disinteressato, non utilitario, che sta a fondamento anche di tutto ciò che è sottoposto all’apprezzamento utilitario, dando ad esso la sua dimensione propriamente umana. Essendo il gratuito essenziale per l’umano, esso non solo è degno di essere coltivato per se stesso in momenti ed espressioni specifiche (come la festa o l’attività artistica), ma è anche paradigma che dà forma e interpretazione umane a tutte le attività dell’uomo, comprese quelle più utilitarie. L’adeguata motivazione al «lavoro fatto bene» (Ch. Péguy), e quindi a un abito lavorativo virtuoso, sta nella gratuità, dunque in una cultura del dono, e non nel solo dovuto contrattuale e tanto meno in una cultura dell’incentivo monetario, perché solo la coscienza dell’intero umano coinvolto nell’attività lavorativa fa amare il «ben fatto» semplicemente perché è bene. Si tratta di un fatto che è extraeconomico, ma che paradossalmente porta incrementi di efficienza tecnica e di efficacia economica nel lavoro stesso perché fornisce ad esso un’eccedenza di motivazione e anche di soddisfazione attesa. Qui si coglie il valore antropologico e sociale della «festa» come essenziale complemento della «feria» e viceversa.
Una seconda conseguenza riguarda l’universalismo della cultura. Se a fondamento della cultura sta l’apertura umana al di là del tecnico e del funzionale, non può non conseguirne che tutte le particolari forme culturali, comprese quelle del lavoro, portino in sé il principio della loro comunicazione universale, come infatti sempre avviene. Nelle forme culturali del lavoro si realizza in modo non astratto e intellettualistico l’universale umano che fa incontrare e mette in comunicazione uomini, comunità, civiltà, che nelle diverse forme del loro patrimonio culturale trovano un bene comune di altissimo significato antropologico e morale.
Un’ulteriore prospettiva riguarda l’implicazione educativa ed etica del lavoro e della sua cultura. Ciò che lega intimamente questi fenomeni è il comune processo del divenire uomini. Infatti il principio dinamico dell’educazione è interno a quello del lavoro, cioè la crescita interiore dell’umanità dell’uomo, il divenire più uomo e l’essere di più non solo con gli altri, ma anche per gli altri. Ma il lavoro oltre a una valenza educativa ha anche un intrinseco valore morale. Infatti la moralità intrinseca del lavoro coincide con la sua dimensione di responsabilità; responsabilità anzitutto verso se stessi (il lavoro fatto bene) e verso gli altri (lavoro fatto bene con altri e per altri). Inoltre il lavoro partecipa sempre di una tradizione o trasmissione di pratiche, cui sono annesse delle qualità virtuose: non si può lavorare in modo efficiente e davvero produttivo senza prender parte (apprendimento ed educazione) a un patrimonio di capacità lavorative perseguite alla luce di un criterio di eccellenza. In tal modo il lavoro tiene aperto uno spazio di preziosa autenticità umana nella società, ne promuove la moralità sostanziale e ne garantisce l’educazione.
Gratuità e universalità del lavoro come cultura danno rilievo a un’altra sua nota caratterizzante: l’aspirazione a una condizione superiore, addirittura immortale. Il lavoro, infatti, porta in sé il ricordo della mortalità umana e insieme l’aspirazione al non-morire. La praxis nella sua materialità è anche una lotta per la sopravvivenza, in cui l’uomo, nonostante il suo sforzo, sperimenta comunque che tutto «muore continuamente in tanti prodotti del suo lavoro, in tanti effetti ‘transitivi’ del suo operare»; per questo una civilizzazione che dà la «precedenza assoluta» ai prodotti tecnici e di consumo «è una civilizzazione della ‘morte dell’uomo’» (K. Wojtyla). L’attività in quanto culturale, invece, porta in sé l’impronta e la memoria di ciò che «non passa». Per questo l’uomo nel suo lavorare manifesta inevitabilmente anche il suo desiderio di stabilità e di novità dell’esistenza, e quindi di ordine, di continuità, di senso e di compimento dell’esistenza stessa. Nelle forme del suo lavoro e della sua cultura, egli esprime l’esigenza profonda di trasformare la realtà a misura della sua più ampia umanità (che è illimitata in intelligenza e volontà) e quindi di vivere l’esistenza spirituale come misura dell’esistenza materiale secondo un principio di armonia ideale di esistenza e di libertà. Si potrebbe dire a buon diritto che il volto segreto del lavoro è il desiderio di eternità e che un mondo consapevole del senso del suo operare ha bisogno di una cultura del lavoro aperta a una pienezza trascendente.
D’altra parte, già le opere del lavoro, che non siano finalizzate al consumo, portano in sé un senso di continuità del loro uso possibile che ha un rilevante significato culturale e sociale. Un’economia del consumo tende a mettere a lato il valore antropologico di tutto ciò che non è prodotto a scopo di uso e che ha una capacità di durata non effimera, bensì perdura nel tempo e crea forme di permanenza e occasione di appartenenza. Il lavoro umano, cioè, è produttore anche di immensi patrimoni, come quelli relativi al paesaggio naturale trasformato dall’uomo, quelli urbanistici, quelli delle grandi opere pubbliche, quelli dei beni culturali. Tutti beni che rimangono fruibili per generazioni e contribuiscono a creare storia. Il lavoro manifesta il suo contributo essenziale alla cultura pubblica di popoli e nazioni, attraverso la produzione di «luoghi» condivisi e condivisibili, in cui le generazioni trovano possibilità di identificazione, di appartenenza, di stabilità, di comunicazione, di tradizione nel tempo. A questo livello il lavoro produce un «arredo del mondo» che lo rende abitabile, lo trasforma in dimora e lo fa teatro della storia dell’uomo e questo ci consente di parlare in senso proprio di una «ecologia del lavoro».
A motivo di questa apertura ampia e profonda dell’umano che sta (anche) nel cuore dell’attività lavorativa, il lavoro e il suo mondo hanno bisogno di essere riconosciuti e integrati nell’intero contesto sociale e politico. L’internazionalizzazione del mercato e della finanza non può significare l’abbandono di ogni riferimento ai luoghi di cui è fatta la città degli uomini. Così il lavoro e l’azienda non possono trascurare la loro responsabilità sociale e la loro appartenenza a un contesto storico e politico; al contrario, un’adeguata cultura del lavoro esige la crescita e l’aggiornamento dell’interna dimensione sociale e politica del lavoro, con i relativi criteri valoriali di responsabilità, di giustizia, di progettualità. Come afferma Benedetto XVI, «l’attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione della logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica»; per cui la sfera economica, che non è eticamente neutrale, né antisociale, «deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente» (Caritas in veritate, n. 36). In sintesi, la parola lavoro è a suo modo espressiva dell’intero dinamismo umano. Mounier scrisse che «lavorare è fare un uomo al tempo stesso che una cosa». La frase mette in evidenza la presenza della libertà nel lavoro e indica un legame fra la dimensione soggettiva e quella oggettiva del lavoro che funziona in due sensi: il lavoro è la circostanza concreta nella quale la persona, giocando le sue doti, compie la propria umanità; ma nel lavoro non sono in gioco solo i suoi oggetti e i suoi prodotti, bensì anche il sistema delle relazioni umane portatrici del suo senso umano,...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione di Camillo Ruini
  2. Introduzione
  3. Capitolo 1. La dimensione antropologica del lavoro
  4. Capitolo 2. Il lavoro nell’Italia di oggi
  5. Capitolo 3. Attori e problemi del mondo del lavoro
  6. Capitolo 4. Quale lavoro per quale futuro?
  7. Osservazioni conclusive