Contro Roma
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Contro Roma

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Contro Roma

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«Fisicamente, Roma non è diventata né una grande capitale come Parigi o Londra, né una megalopoli come Rio de Janeiro o il Cairo. È una via di mezzo tra le due cose e ha i difetti così della megalopoli come della capitale senza averne i pregi... L'Italia non si è espressa a Roma; vi si è invece trovata repressa.» Alberto Moravia

Nel 1975 alcuni tra i maggiori scrittori italiani – romani e non – raccontarono i difetti della capitale in un libro di straordinaria efficacia, intitolato Contro Roma.Abbiamo pensato di riproporre alcuni di quei testi e chiedere ancora una volta a degli scrittori di guardare e raccontare Roma.Ne emerge un ritratto illuminante della città, di ieri e di oggi, composto di realtà e di stereotipi.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858132999
Argomento
Economics

1975

Alberto Moravia

Ho avuto con Roma, mia città natale, un rapporto vario e profondo, di cui del resto si hanno testimonianze ne La Romana, ne La Ciociara e nei Racconti. Dal dopoguerra (questa nota vuole parlare soltanto degli anni dopo la seconda guerra mondiale. Prima di questi anni, c’è stato il fascismo che è stata per me un’altra esperienza) fino, mettiamo, agli anni Sessanta, ho provato un sentimento di simpatia per Roma, perché in quegli anni c’è stato, da parte del popolo italiano, una specie di disperato recupero delle sue qualità migliori. Sono stati gli anni in cui l’Italia si è ripresa dalla catastrofe della guerra, è stata ricostruita e, adesso possiamo vederla, si è quasi trasformata in un Paese moderno.
Roma, prima della guerra, era ancora la città descritta da Goethe e da Stendhal, una piccola città mediterranea, quasi più piena di monumenti che di case, sede delle amministrazioni di due Stati ma priva di una società rappresentativa dell’intera nazione. Come in tutte le città italiane c’erano a Roma le tre classi tradizionali: un’aristocrazia incolta e retriva di grandi proprietari terrieri, una borghesia o meglio una piccola borghesia intimidita e provinciale di professionisti, di commercianti e di funzionari statali e infine il cosiddetto popolo che sarà più esatto chiamare plebe. Roma non era, insomma, una capitale moderna nel senso che si dà alla parola in Europa. Era, senza dubbio, una città unica nel suo genere; ma, ripeto, non una capitale. Nel dopoguerra si ebbe l’illusione che potesse diventarlo, se non altro perché le capitali si formano intorno al nucleo di un’esperienza di fondo e quest’esperienza, per la prima volta dopo l’Unità d’Italia, c’era stata ed era stata l’esperienza del fascismo e della guerra. Ora tutto il problema di Roma non esiste se non si tiene conto del fatto che gli Italiani pensano che Roma dovrebbe essere una capitale e che Roma invece non lo è né sembra avviata a diventarlo nel futuro.
Il fascismo naturalmente aveva inteso Roma come capitale in una maniera del tutto esteriore, secondo il suo solito, cioè come uno sfondo spettacolare e “storico” per parate, adunate, sfilate, discorsi del dittatore, commemorazioni, e altre simili esibizioni e cerimonie. È indicativo, infatti, che esso abbia alternato il cosiddetto “piccone risanatore” alle costruzioni di monumenti e altri edifici celebrativi. Lo sfruttamento propagandistico dell’antica Roma, a dire il vero, era già cominciato prima del fascismo, ad opera degli archeologi e dei professori di ginnasio carducciani. Con il fascismo, però, diventa macroscopico e ufficiale. Non contento della Roma antica, il fascismo inserì anche la Roma papale nel suo trionfalismo. Insomma, sotto il fascismo fu messo in atto un disegno di tipo napoleonico: Roma doveva essere la capitale dell’Unità d’Italia. Ma Mussolini non era Napoleone; e l’Unità d’Italia era ancora da farsi e, probabilmente, non sarà mai fatta.
Ma cos’è una capitale, insomma? Questo è il punto che vorrei chiarire se non altro per spiegarmi perché oggi mi sento così profondamente deluso di fronte alla Roma attuale. Una capitale, dunque, tra le tante cose, è o dovrebbe essere un modello per l’intera nazione. Cioè il centro di trasformazione in cui le energie grezze ma vitali della provincia vengono, appunto, trasformate da una potente e sofisticata macchina sociale in modi di comportamento esemplari. In una capitale tutto ciò che è particolare diventa universale, tutto ciò che è inconscio consapevole, tutto ciò che è rozzo, raffinato. Per dirla in breve e con una formula spiccia: posto che la nazione sia un corpo, la capitale è la mente sempre razionale, anche quando si tratta, nelle mode e nella cultura, di far prevalere l’irrazionale. Si spiega così il rifiuto, nelle capitali degne di questo nome, di tutto ciò che è volgare e scontato, anche a prezzo di radicali e scandalose trasgressioni alla morale corrente. D’altra parte, un modello deve essere prima di tutto ammirevole e dunque degno di imitazione. Si comprende così perché, alla fine, quando tutto è stato detto, la capitale non può non risolvere il problema di essere capitale se non sul piano estetico.
Come fa una capitale a diventare capitale? Una capitale diventa capitale attraverso un processo democratico, cioè con la partecipazione più larga possibile di tutti i cittadini al travaglio, che in fondo è soprattutto intellettuale, della continua trasformazione delle energie nazionali in cultura. La capitale, dunque, prima di tutto, è o dovrebbe essere, il centro della cultura del Paese. Non si potrebbe capire la cultura inglese senza Londra, quella francese senza Parigi e quella russa senza Pietrogrado. Questo porta naturalmente a un’altra considerazione: la capitale è il centro linguistico del Paese. Perché? Perché la società della capitale è libera e potente; l’invenzione linguistica è infatti una questione di libertà e di potere. Le capitali parlano “bene”, il che non vuol dire necessariamente che vi si parla “meglio” che nella provincia; parlano bene perché “pensano bene”. Quanto a dire che la cultura, di cui, come ho già accennato, la capitale è la sede privilegiata, non può non esprimersi con un linguaggio mediato, cioè appunto culturale. Il dialetto, certo, sopravvive nelle capitali ma è subordinato a una continua creazione linguistica di tipo culturale.
Come ho già accennato, la creazione di una capitale, almeno ai giorni nostri, è un fatto democratico. Che esso poi sia legato a una monarchia come in Inghilterra o a una repubblica come in Francia, poco importa. In realtà, la capitale è il luogo dove i cittadini sono più liberi che nel resto del Paese da tabù, convenzioni, pregiudizi e tradizioni. Questa libertà si esprime nell’accelerazione degli scambi, nell’abbattimento delle divisioni sociali, nella rapida assimilazione di tutto ciò che è nuovo, nella veloce e incessante circolazione delle idee e delle persone. La grande speranza del dopoguerra è stata appunto che a Roma si formasse finalmente una capitale, cioè il luogo dove, come ho detto, vengono elaborati e presentati i modelli di comportamento per l’intera nazione.
Purtroppo questa speranza non si è realizzata; al contrario si è verificato il processo inverso a quello che porta di solito alla formazione di una capitale. Dalla provincia a Roma sono certamente venuti apporti vitali; ma Roma li ha trasformati non già in modelli per l’intera nazione bensì in magma burocratico, cioè in divieti, norme, regolamenti, limiti, leggi e così via. È successo, insomma, che l’attività repressiva che è di solito la parte minore e, per così dire, vergognosa e inevitabile delle istituzioni, ha preso il sopravvento su quella espressiva. L’Italia non si è espressa a Roma; vi si è invece trovata repressa. Per dirla alla maniera psicanalitica, non si è verificata una sublimazione bensì una rimozione. Così, invece dei modelli da imitare, l’Italia ha ricevuto da Roma dei cosiddetti provvedimenti burocratici da osservare e, eventualmente, aggirare.
Intanto, però, la provincia ha perduto molto della sua originalità perché la mancanza di una capitale, cioè, appunto, come ho detto, di una società trasformatrice, l’ha fatta ricadere su se stessa. Roma, per esempio, invece che il linguaggio della cultura, ha imposto alla provincia il gergo di tipo medio, opaco e massificato, della radio e della televisione e dei rotocalchi; il quale, a sua volta, deriva non già da un travaglio intellettuale sofisticato ed esigente, ma da un livellamento qualunquistico e disinformativo.
Roma, insomma, invece che essere una creatrice di modelli culturali è diventata un elemento frenante e mortificante per la cultura italiana. A che cosa è dovuto questo risultato sconcertante? Soprattutto all’assenza pressoché completa di quella che ho chiamato prima la circolazione delle idee e delle persone. Quanto a dire che a Roma non c’è una società borghese. Può darsi, anzi è sicuro che la borghesia sia dappertutto in crisi; ma resta il fatto che in attesa di una società nuova e migliore, almeno per ora non c’è che la società borghese, sia pure nella sua recente accezione di classe media. Ma a Roma questa borghesia o classe media non esiste. La burocrazia non è una società, come non lo è l’esercito o la Chiesa, o altro corpo sociale soggetto a una qualsiasi disciplina. La società borghese è quella che ha fatto sì che città come Londra, come Parigi, come Nuova York abbiano avuto quella circolazione di idee e di persone che sembra indispensabile a una capitale per assolvere degnamente la sua funzione di capitale. A Roma non è accaduto nulla di tutto questo, così che bisogna arguirne che a Roma non c’è una società borghese e che Roma non è una capitale se non di nome.
Roma dagli anni del dopoguerra è diventata molto più grande ma non è migliorata. Il tono moderno, ossia neocapitalista, consumista, industriale, in Italia non è dato da Roma ma da Milano. Ma i modelli di comportamento non sono forniti né da Roma, né da Milano, bensì da Nuova York, da Londra, da Parigi, da Mosca, da Pechino eccetera, secondo le categorie, le classi, i gruppi, i clan. Peggio: la provincia arriva a Roma con i suoi modelli culturali arretrati e anacronistici e rimane inassimilata e inammissibile, come un cibo pesante che resta, come si dice, sullo stomaco, e pur non nutrendo affatto, impedisce ogni ulteriore appetito. Questa nausea provocata dalla vecchia cultura paesana indigerita e indigeribile è propriamente quello che bisogna chiamare la provincialità di Roma. E così si spiega come Roma, tanto per fare un solo esempio, abbia giornali di livello culturale molto inferiore a quelli non solo di Torino e di Milano ma anche di Firenze e di Bologna.
Fisicamente, Roma, non è diventata né una grande capitale come Parigi o Londra, né una megalopoli come Rio de Janeiro o il Cairo. È una via di mezzo tra le due cose e ha i difetti così della megalopoli come della capitale senza averne i pregi. Ha conservato il suo piccolo centro monumentale sempre più eroso e più insignificante e ha creato intorno a questo centro degli immensi quartieri (per esempio: Centocelle conta 250.000 abitanti) che però non si possono chiamare veramente popolari. Sono i quartieri della cosiddetta periferia, intendendo con questa parola quell’aggregazione meccanica sterile della provincia alla città di cui ho parlato pocanzi. Questi quartieri sono tra le cose più brutte del mondo intero e fanno della Roma nuova, cioè di quattro quinti della città, un orrore urbanistico paragonabile soltanto a certe città asiatiche o latino-americane cresciute troppo in fretta e in un regime di spietata e cannibalesca speculazione edilizia. È quasi inutile ricordare a questo punto che Roma è una delle città peggio tenute, più sporche, più neglette e più maltrattate d’Europa. Il popolo romano si direbbe oggi composto in prevalenza di teppisti che decapitano le statue, riempiono strade, piazze e giardini di immondezze, coprono i monumenti di scritte oscene e cretine, distruggono, insomma, tutto quello che possono con un vandalismo che sembra addirittura premeditato e pianificato.
A Roma è avvenuto il contrario di quello che avviene nelle altre capitali: la città si è ingrandita e arricchita; ma è rimasta legata a un’idea del vivere elementare e grossolana. Questa mancanza di raffinatezza si sente dappertutto; ma si avverte, per così dire, allo stato puro, soprattutto nei ministeri, negli uffici e in genere nei luoghi pubblici. È la mancanza di raffinatezza, la volgarità squallida e devitalizzante propria dello Stato; Roma è una città, a dirla in breve, statale. Ma, paradossalmente, lo è proprio perché lo Stato non c’è, perché non è mai riuscito a oltrepassare la fase burocratica. Anzi si potrebbe dire con qualche ragione che Roma costituisce la disastrosa controprova dell’assenza negli Italiani di un qualsia­si senso dello Stato. Il fascismo che aveva puntato tutti i suoi sforzi sulla costruzione dell’edificio statale non era riuscito che a tirarne su la esteriore e posticcia facciata. Con il regime democristiano, viene fuori addirittura uno Stato che non è più che un’associazione anarchica e mafiosa di clientele. Cioè, alla maniera del Terzo Mondo, una miniera d’oro per arricchirsi rapidamente attraverso i favori e i ricatti politici.
A Roma la borghesia, che dovrebbe assicurare la circolazione delle idee e delle persone propria di ogni capitale, rimane invece chiusa nei gruppi di categoria come in tanti compartimenti. I cosiddetti professionisti, che sono la parte migliore della borghesia, vivono tra la famiglia e la corporazione, i due piani privi di comunicazioni interne di cui è composto l’edificio sociale italiano. Alla famiglia si dedicano gli affetti, le passioni; alla corporazione, le competenze, le ambizioni. La cultura che è altrove scambio e inquietudine, a Roma non è che passatempo e superfluità. Così avviene che i professionisti hanno spesso un livello culturale molto più basso di quello professionale. La spia a questa carenza culturale la fa il linguaggio che non è quasi mai mediato e intellettuale, razionale e critico. La piccola borghesia sente oscuramente che il linguaggio è una tenaglia per esercitare una presa sulla realtà; ma nella sua ignoranza irreparabile, perché continuamente alimentata dal provincialismo inassimilabile, ricorre periodicamente a dei gerghi di potere adottati a pappagallo dall’esterno, senza alcuna vera presa di coscienza, un po’ come il latinorum degli Azzeccagarbugli del passato. Abbiamo così delle continue ondate di luoghi comuni, frasi fatte e neo­logismi coatti e automatici dalle origini culturali più diverse: idealiste, cattoliche, marxiste, psicanalitiche, consumiste, neo­positiviste e così via. Ma di sotto resta l’incultura originaria come sotto il trucco vistoso di certe donne maleinurbate resta la ruvida carnagione della contadina.
La città è, dunque, molto volgare; a questa volgarità hanno contribuito alcuni caratteri negativi che le erano propri anche in passato ma mescolati con altri positivi ormai scomparsi: buonsenso qualunquista, grossolanità paesana, gastronomia pesante, atonia morale che si tenta, quest’ultima, di far passare per il senso dell’eternità. Cinica, scettica, priva di ideali, materiale, ottusa, Roma presenta insomma lo spettacolo sconcertante di una capitale il cui fine principale anzi unico sia quello di vivere alla giornata o meglio di sopravvivere.
Sono nato e vissuto a Roma e ho avuto sempre gli stessi problemi insoluti e insolubili nel mio rapporto con la città. Questi problemi li ho cominciati a percepire a quindici anni su per giù, cioè al mio primo affacciarmi alla vita pubblica; e dopo mezzo secolo sono rimasti identici. Il problema più importante, naturalmente, è quello, diciamo così, sociale in senso diretto e ristretto: a Roma, letteralmente non si sa chi vedere né chi frequentare: gli affetti fanno ricadere nella famiglia; la professione nella corporazione. Ma la famiglia è un luogo ferino; e la corporazione un luogo tecnico. Forse questo è il motivo per cui a Roma non c’è conversazione: ci si capisce al fiuto come tra animali, in famiglia; si evita il discorso professionale perché noto e risaputo negli incontri corporativi. Il secondo problema di Roma è l’isolamento culturale. Roma, culturalmente, è una città di individ...

Indice dei contenuti

  1. Nota dell’Editore
  2. 1975
  3. 2018
  4. Postfazione. Per e contro Roma. Storia di una capitale controversa
  5. Gli autori