I Domenicani nella letteratura italiana
di Edoardo Fumagalli
Se l’influenza dei frati Predicatori nella cultura italiana è stata a lungo imponente e minutamente pervasiva, la presenza di autori domenicani si concentra nei primi secoli, non oltre le vicende drammatiche di Giordano Bruno e di Tommaso Campanella: uomini, del resto, protagonisti di dissensi e di lacerazioni, oltre che di persecuzioni, e tuttavia innegabilmente da ascrivere all’Ordine, al punto che anche Bruno non è ormai più ricordato con il nome di Filippo che ricevette al momento del battesimo, ma con quello della professione.
Ci si potrà interrogare sui motivi di questo esaurirsi della spinta creativa, del resto comune alle congregazioni coeve, osservando inoltre che la prima fase, quella che si distende dalle origini alla fine del secolo XIV, appare ben diversa da quella successiva, che interessa il Quattro e il Cinquecento: basta accostare, non confrontare, mentalmente un Domenico Cavalca con un Matteo Bandello, e l’abisso che li separa – abisso non solo linguistico, beninteso, né riconducibile agevolmente alla diversità degli ambienti – farebbe nascere il dubbio, in chi non ne conoscesse la storia, che davvero essi abbiano fatto parte della medesima famiglia.
Proprio questo esempio dei due frati nati a un paio di secoli di distanza, il toscano Cavalca e il lombardo – s’intende, con i criteri di allora – Bandello, può aiutare a tracciare la linea di demarcazione che si è detta, individuando una prima fase in cui l’anima domenicana si espandeva con forza sorgiva e invadeva e pervadeva gli ambienti con i quali veniva a contatto, e una seconda dominata dall’istituzionalizzazione del movimento e dal conseguente venir meno della carica missionaria.
Sono, è chiaro, distinzioni di comodo: una sorta di mappa approssimativa, che traccia linee di confine come strumento per analizzare un territorio; e le distinzioni non devono in ogni caso essere confuse con un giudizio di valore letterario, meno che mai con un giudizio morale: basterebbero le ironie, anzi i sarcasmi, dei novellieri, a cominciare da Boccaccio, sui frati in genere e in specie sulle compagnie di laudesi a essi legate (si ricordi, a titolo d’esempio, la novella di Gianni Lotteringhi «molto spesso fatto capitano de’ laudesi di Santa Maria Novella» a Firenze, Decameron, VII, 1), per evitare letture troppo ingenue. Una simile distinzione, però, conserva un’utilità non trascurabile, e per esempio permette di fare un passo in più e di vedere nella produzione letteraria, diretta o riflessa, dei frati dei primi secoli un aspetto del loro essere Domenicani e Predicatori, e in quella dei loro successori – con l’eccezione colossale del Savonarola, cui è peraltro riservata una sezione specifica di questo volume, ma anche di un Leandro Alberti – un’attività sostanzialmente indipendente, senza legami stretti con la loro professione religiosa; ricorrendo a una formula che certo soffre dei limiti tipici del genere, si può dire che i primi sono Domenicani scrittori, mentre i secondi sono scrittori domenicani: e si vuole intendere, nel primo caso, che l’attività sulla parola è emanazione diretta, e si direbbe necessaria, dello stato religioso.
Gioverà dunque, almeno per comodità di esposizione, raggruppare la materia in due sezioni, e lasciare poi un breve spazio all’appendice costituita dalle avventure umane e spirituali di Bruno e di Campanella. Le due sezioni intendono occuparsi solo di chi si è espresso in volgare: non entrerà dunque nella trattazione, per esempio, il santo priore di San Marco a Firenze, poi arcivescovo della diocesi, Antonino Pierozzi, che pure ha esercitato un’influenza enorme in tutta Europa attraverso il confessionale Defecerunt e la Summa moralis, soprattutto nell’età della stampa. Il taglio, doloroso ma indispensabile, è del resto ampiamente risarcito da altre parti della presente opera collettiva.
1. Domenicani scrittori
Sotto questa etichetta si collocano, almeno per comodità, diversi tipi di comunicazione letteraria: la scrittura vera e propria, cioè quella direttamente eseguita dall’autore, ma anche le reportationes, cioè la trascrizione, in forma più o meno fedele – o più o meno invasiva – di un testo originariamente non scritto e invece pronunciato, come è il caso delle prediche.
A proposito delle prediche, converrà subito dire che esse non rendono neppure da lontano, oggi e per noi, l’effetto che pure dovettero esercitare sugli ascoltatori, e che è documentato da episodi sorprendenti: il più impressionante tra tutti, forse senza possibile paragone, è l’ampliamento a Firenze, voluto dal podestà nel 1244, della piazza di Santa Maria Novella, così che la folla potesse assistere alla predicazione di Pietro da Verona, destinato di lì a meno di un decennio a essere celebrato in tutti i conventi dell’Ordine come san Pietro Martire. Che cosa si potesse udire in un luogo immenso e aperto, rimane poco chiaro, come poco chiara resta l’effettiva comprensibilità di una predicazione, in volgare, pronunciata da un frate di provenienza veneta: e del resto di quelle prediche fiorentine, come di tutte le altre sue, non è stata conservata alcuna traccia documentaria che ci faccia assaporare l’eloquenza di Pietro da Verona. Questo è un punto importante: al successo travolgente si accompagna, e il fatto di primo acchito sorprende, la perdita totale della parola, che si deve supporre vibrante e trascinatrice.
La difficoltà, allora, si biforca in due domande: una che riguarda i motivi del successo, l’altra che ne concerne il carattere effimero; e sono domande che, pur prendendo lo spunto da Pietro Martire, investono l’insieme della predicazione, e non solo quella domenicana.
Il successo era determinato da fattori diversi, non necessariamente legati alla effettiva comprensione, da parte degli ascoltatori, di ciò che il predicatore diceva: la fama dell’eloquenza, l’alone di santità, la novità st...