Il traditore di Venezia
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Il traditore di Venezia

Vita di Marino Falier doge

  1. 168 pagine
  2. Italian
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Il traditore di Venezia

Vita di Marino Falier doge

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Marino Falier è una delle figure più controverse nella storia dei dogi di Venezia. Nato verso il 1285 da una importante famiglia di antichissima origine, che annoverava già due dogi, percorse una lunga e brillante carriera al servizio della repubblica che lo portò a ricoprire in modo quasi incessante numerose e prestigiose cariche. Nel 1354, ormai settantenne, venne scelto come doge con un ampio consenso del corpo elettorale. Al di là di ogni previsione, tuttavia, il nuovo doge non si limitò a svolgere le funzioni per lo più di rappresentanza che la costituzione veneziana riservava al capo dello stato. Appoggiandosi alle classi popolari, si mise alla testa di una congiura destinata a rovesciare lo stato patrizio che governava la Serenissima. I congiurati vennero però scoperti: i capi della cospirazione furono rapidamente giustiziati e lo stesso doge, da loro indicato come il mandante, fu giudicato e condannato a morte. La sentenza venne eseguita con la decapitazione, che ebbe luogo la sera del 17 aprile del 1355 dopo un processo lampo.

Un caso senza precedenti, una storia avvincente che nei secoli ha ispirato letterati e musicisti – da Lord Byron a Donizetti – e su cui ancora fitto è il mistero.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858128978

IV.
Dall’altare alla polvere

1. Le origini della congiura

Durante i mesi della tregua con Genova Falier decise di ordire una congiura per rovesciare il governo veneziano. Quando e come gli sia venuta un’idea apparentemente così balzana, e così poco in linea con quella che era stata la sua carriera pregressa, non è dato di sapere con esattezza, e quello che ci dicono i racconti del tempo lascia molto a desiderare, se non altro per completezza. Secondo un’interpretazione presente nelle fonti a partire dal XV secolo, e in seguito ampiamente riproposta e arricchita di particolari, causa della congiura fu un’offesa fatta al doge da alcuni giovani dell’aristocrazia e non punita adeguatamente dai giudici, così da suscitare in lui un forte risentimento verso i nobili. La tradizione, già presente nella storiografia trecentesca, è raccolta in maniera compiuta dal cronista veneziano Lorenzo de Monacis, vissuto fra 1351 e 1428 e autore di un Chronicon de rebus Venetis, redatto fra 1421 e 1428, il quale ricorda che alcuni «giovanetti nobili» scrissero all’interno del Palazzo Ducale parole ignominiose e che l’ira del doge fu ancora più grande per la modesta punizione loro inflitta1.
Su questa tradizione si inserì in seguito il racconto – che la storiografia moderna per lo più reputa scarsamente attendibile – secondo il quale l’offesa sarebbe venuta da Michele Steno, il futuro doge e allora forse capo del Consiglio dei Quaranta: in occasione di una festa a Palazzo Ducale, infatti, egli sarebbe stato allontanato dal doge per il suo atteggiamento irriguardoso verso le dame del seguito o verso la dogaressa stessa. Steno, per vendicarsi, avrebbe scritto sulla sedia del doge, nella sala del Consiglio, parole lesive del suo onore che, nella lezione più comunemente riportata, suonano «Marin Falier de la bela moier, altri la galde [la gode] e lui la mantien». La troviamo esattamente formulata nelle Vite dei dogi di Marin Sanudo il Giovane, storico veneziano vissuto fra 1466 e 1536, che per questo racconto riutilizza e inserisce nella sua opera una non meglio specificata cronicha antica:
In tempo di questo doxe, siando vegnudo el zuoba di la caza [il giovedì grasso], fu fato iusta il solito la caza [la caccia del toro a San Marco] et, a queli tempi, da poi fata la caza si andava in palazo dil doxe in una di quelle sale et con done si faceva una festizuola dove si ballava sin alla prima campana et venia una colation, la qual spesa feva missier lo doxe quando ne era dogaressa [quando c’era una dogaressa]. Et poi tutti andava casa sua; sopra la qual festa par che sier Michiel Stem, che fo poi doxe, et alhora era molto zovene et povero zenthilomo ma ardito et astuto, il qual era innamorato in certe donzele de la dogaressa, et essendo sul soler apresso le done, par chel facesse certo atto non conveniente, adeo chel doxe comandò che fusse butà zoxo dil soler, et cussì quelli scudieri dil doxe el penze zoso dil ditto soler; unde sier Michiel li parve che li fusse sta fatto troppo grande ignominia et non considerando altramente la fin ma sopra quella passion, fornita la festa et andati tutti via, quela note lui andò e su la cariega dove sentava il doxe in la sala de la udientia, perché alhora li doxi non tenivano pano di seda [seta] sopra la chariega ma sentava in chariega di legno, scrisse alcune parole disoneste dil doxe et della dogaressa, zoè «Marin Falier doxe da la bella moier altri la galde e lui la mantiem». Et la matina fo vedute tal parole scritte et parse una brutta cosa, et per la Signoria fu commessa la cossa alli avogadori de comun con grande efficacia, li qual avogadori subito deteno taia grande per vegnir in la verità chi havia scritto tal letere, et tandem se sape che sier Michiel Stem le haveva scritte et fu per la quarantia preso di retenir, et retenuto confessò che in quella passion di esser sta pento zoso dil soler, presente la sua amanza, lui haveva scritto, unde fo poi placitado in ditto conseio; et parse al conseio sì per respetto la età come per la caldeza di amor condanarlo a compir do mexi in prexon serado, et poi chel fusse bandito di Veniexia et destretto per un anno; per la qual condanason tanto picola el doxe ne prese gran sdegno, parendoli che non fosse sta fatto quella existimation de la cosa che rizerchava la sua dignità dil dogado, et diceva che voleva averlo fatto apichar per la golla o saltim bandirlo im perpetuo di Veniexia2.
La versione venne poi ripresa con piccole varianti dagli scrittori successivi e soltanto a partire dall’Ottocento iniziò a essere messa in dubbio, o anche relegata al ruolo di leggenda. Pompeo Molmenti, raffinato autore di uno studio sulla dogaressa di Venezia e strenuo difensore della Gradenigo, non ha dubbi in proposito; sulla stessa linea si colloca Vittorio Lazzarini, a tutt’oggi il più accreditato studioso della vita di Marin Faliero. E ancora così, indagando sulle cause della congiura, la pensa Mario Brunetti, altro storico di cose veneziane, secondo il quale è da ritenersi estremamente improbabile che la dogaressa fosse «quella specie di Messalina lagunare» che la fantasia di alcuni cronisti si è compiaciuta di descrivere3.
Ma certamente qualche cosa di vero doveva esserci, o forse l’intera storia almeno in parte è attendibile, anche se con ogni probabilità è da considerarsi un fatto accidentale e non la causa scatenante della congiura. Marin Faliero era notoriamente un uomo collerico: si diceva di lui che avesse schiaffeggiato senza tanti complimenti il vescovo di Treviso perché arrivato in ritardo a una cerimonia, e anche che avesse ucciso un bottegaio a Rialto. La prima notizia è fornita nella cronaca inserita nei Diari di Marin Sanudo e da essa l’autore con aria moraleggiante ricava una testimonianza sull’arroganza del doge, a cui è avverso, giustamente punito da Dio per ciò che aveva fatto: «dovendosse far una procession, el vescovo ste troppo a far venir il corpo di Cristo, el dito Falier erra di tanta superbia et arogantia chel dete un bufetto al prefato vescovo, per modo che quasi el caschò in terra»4.
Tra la famiglia Falier e gli Steno, inoltre, non correva buon sangue: nel 1343 Paolo Steno, figlio di Jacopo, si era reso responsabile di una grave violenza nei confronti della famiglia di Pietro Falier di San Maurizio. Aveva infatti abbindolato una serva tedesca di Falier, di nome Beta, convincendola ad aprirgli di notte la porta di casa e a condurlo nella stanza in cui dormiva Saray, una delle figlie di ser Pietro, che aveva violentato, mentre la cameriera e un altro servitore, di nome Zanino da Cremona, la tenevano ferma. Saray Falier aveva sporto denuncia e il 15 settembre Steno fu condotto davanti al tribunale dei Quaranta che, constatata l’enormità del crimine, non andò per il sottile. Steno venne condannato a stare per un anno nelle carceri inferiori e a pagare trecento lire di ammenda; Zanino da Cremona, a sua volta, restò per sei mesi in un carcere inferiore e poi fu bandito in perpetuo da Venezia e dal suo territorio, mentre la serva tedesca, che era riuscita a fuggire, venne condannata in contumacia al taglio del naso e del labbro e ugualmente al bando perpetuo.
L’offesa fatta al doge e la conseguente condanna dei colpevoli è un fatto storicamente accertato, e quindi non un’invenzione dei cronisti, anche se gli estremi cronologici non coincidono e non si fa menzione della dogaressa. Il 10 novembre 1354, quando Falier era in carica da nemmeno due mesi, gli avogadori del Comune proposero infatti al Consiglio dei Quaranta che si procedesse penalmente «per dare il buon esempio» (pro bono exemplo aliorum) a motivo di alcune scritte ingiuriose fatte nella sala dei camini del doge, ritenute «cosa turpe e indecorosa e di grande disonore e vituperio per tutto lo stato». La loro richiesta venne accolta ed essi stessi furono incaricati di arrestare i colpevoli e di interrogarli, per poi portare alla Quarantia il risultato dell’istruttoria. Se fossero stati irreperibili, tutti o in parte, gli assenti avrebbero avuto, come di consuetudine, la possibilità di comparire dinanzi alla Signoria entro otto giorni; in caso contrario sarebbero stati giudicati in contumacia.
La ricerca dei colpevoli ebbe esito favorevole e sei persone finirono in giudizio: Micaletto Steno del fu Giovanni, Pietro Bollani di ser Schiavo, Rizzardo Marioni, Moretto Zorzi, Micaletto da Molin e Maffeo Morosini. Il processo terminò il 20 novembre con la condanna di tre imputati e l’assoluzione degli altri. Esaminati gli atti processuali, infatti, i giudici avevano chiesto
se a seguito di quanto è stato detto e letto vi parrà di dover procedere contro Micaletto Steno del fu ser Giovanni, che nel camino del nostro signor doge, come avete sentito, ha scritto molte parole enormi che suonano a vituperio del signor doge e di suo nipote.
Poi si erano pronunciati contro di lui: «È stato deciso che il suddetto Micaletto Steno stia per tutto il mese presente in un carcere inferiore». Riguardo agli altri accusati,
Fu messo ai voti di procedere contro ser Pietro Bollani di ser Schiavo, che allo stesso modo ha scritto nel camino del signor doge molte cose enormi, come avete sentito. È stato deciso che il suddetto stia in un carcere inferiore fino al giorno di lunedì.
Fu messo ai voti di procedere contro Rizzardo Marioni, che ha dipinto e ha scritto molte cose turpi nel camino del signor doge, come sopra. È stato deciso che il detto Rizzardo debba restare in carcere per tutto il giorno di martedì.
Fu messo ai voti di assolvere questi tre per non essere stati colpevoli di quanto sopra: ser Moretto Zorzi, ser Micaletto da Molin, ser Maffeo Morosini di ser Pietro5.
Le punizioni relativamente miti fecero certo infuriare il doge, ma Falier era persona troppo navigata nella vita pubblica per non sapere che, allorché si trattava di nobili che offendevano la maestà ducale, le pene comminate erano di norma leggere. I numerosi esempi che si possono fare per il Trecento ci dicono infatti che il massimo era di poco più di un mese di carcere e, inoltre, la pena era spesso pecuniaria, mentre soltanto in un caso accertato essa implica l’interdizione dai pubblici uffici per due anni. Ma nulla può escludere che l’anziano doge abbia reagito in maniera spropositata all’offesa indubbiamente ricevuta e non si sia sentito appagato dalle punizioni inflitte. Così come, d’altronde, in assenza di una documentazione certa, niente può impedire di ritenere che nell’ingiuria fosse compresa la dogaressa, i cui facili costumi non sono certificabili ma la cui differenza di età dal marito, di almeno venticinque anni, poteva facilmente prestarsi a un facile sarcasmo, in un mondo spesso attento alla malignità come era ed è quello veneziano, per quanto oggi ne resta.
Comunque siano andate le cose, Falier nei primi tempi del suo reggimento, probabilmente in seguito alla sconfitta di Portolongo, che vide il tracollo della potenza veneziana, pensò di ordire una congiura per rovesciare il governo cittadino e diede a questa un carattere marcatamente classista e antinobiliare servendosi, come potenziale massa di manovra, dei popolani e per lo più dei marinai, fortemente avversi ai nobili, ai quali attribuivano la colpa della sconfitta di Venezia nella guerra con Genova.
Il complotto prese avvio da una circostanza puramente occasionale. Negli uffici navali che si trovavano a pianterreno del Palazzo Ducale scoppiò infatti una lite fra il nobile Giovanni Dandolo, ufficiale addetto all’armamento marittimo, e il popolano Bertuccio Isarello (o Israelo), «paron» di nave e uomo influente fra la gente di mare. Il motivo del disaccordo fu probabilmente la scelta, da parte di Dandolo, di una persona non gradita all’altro; il contrasto degenerò a tal punto che Dandolo schiaffeggiò Isarello e questi, uscito dagli uffici, radunò molti marinai – a quanto pare una sessantina –, che attesero Dandolo con atteggiamento minaccioso nella piazzetta di San Marco. Il nobile chiese aiuto alla Signoria e il doge convocò subito Isarello a Palazzo, rimproverandolo per il suo comportamento e dicendogli la cosa più naturale che un capo di stato potesse dire a un suo concittadino, ossia che la città era governata dalle leggi e i giudici avrebbero risolto la controversia.
Questa, almeno, è la versione riferita da Lorenzo de Monacis, che pare essere la più attendibile, se non altro perché vicina ai fatti. Nelle Vite dei dogi di Marin Sanudo e in altre cronache posteriori si narra un fatto leggermente diverso, ma la cui sostanza è la stessa. Subito dopo la...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. I. La casata Falier
  3. II. Al servizio dello stato
  4. III. Al vertice dello stato veneziano
  5. IV. Dall’altare alla polvere
  6. V. Le conseguenze
  7. Nota bibliografica
  8. Cronologia