Il marxismo occidentale
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Il marxismo occidentale

Come nacque, come morì, come può rinascere

  1. 224 pagine
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Il marxismo occidentale

Come nacque, come morì, come può rinascere

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Nato nel cuore dell'Occidente, con la Rivoluzione d'Ottobre il marxismo si è diffuso in ogni angolo del mondo, sviluppandosi in modi diversi e contrastanti. Contrariamente a quello orientale, il marxismo occidentale ha mancato l'incontro con la rivoluzione anticolonialista mondiale – la svolta decisiva del Novecento – e ha finito col subire un tracollo. Ci sono oggi le condizioni per una rinascita del marxismo in Occidente?

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858129364
Argomento
Economics

III.
Marxismo occidentale
e rivoluzione anticoloniale:
un incontro mancato

1. Il dibattito Bobbio-Togliatti nell’anno di Dien Bien Phu

Per qualche tempo, grazie anche all’enorme prestigio conseguito dall’Unione Sovietica sull’onda di Stalingrado e all’eco immensa suscitata in Asia e nel mondo dalla vittoria della rivoluzione anticolonialista e del Partito comunista in Cina, la tensione latente tra i due marxismi sembra essere un capitolo di storia ormai conchiuso. Si tratta tuttavia di un’apparenza, come dimostra un dibattito che si sviluppa in Italia nel 1954 e di cui sono protagonisti Norberto Bobbio, che si appresta a diventare un filosofo di fama mondiale, Galvano Della Volpe, in quel momento il più illustre filosofo del marxismo e comunismo italiano, e Palmiro Togliatti, segretario generale del Partito comunista e leader di primo piano del movimento comunista internazionale.
A iniziare il dibattito è il primo. Negli anni della Resistenza e in quelli immediatamente successivi – a ricordarlo è lo stesso Bobbio (1955a, p. 199) – egli era «uno di quelli che credevano nella forza ormai irresistibile del partito comunista». E – occorre aggiungere – nella forza irresistibile dell’ondata rivoluzionaria che continuava a crescere:
Ci siamo lasciati alle spalle il decadentismo, che era l’espressione ideologica di una classe in declino. L’abbiamo abbandonato perché partecipiamo al travaglio e alle speranze di una nuova classe. Io sono convinto che se non avessimo imparato dal marxismo a veder la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati. O avremmo cercato riparo nell’isola dell’interiorità o ci saremmo messi al servizio dei vecchi padroni (Bobbio 1954b, p. 281).
Risultato più alto e più maturo della modernità, il marxismo non è qui il pensiero di un singolo autore bensì «il punto di partenza di un movimento di rivoluzione sociale che è tuttora in corso» e che appare inarrestabile: non è possibile «riportare la storia» verso il passato. Chi volesse rifiutare in blocco il marxismo sappia che si accinge a un’impresa donchisciottesca: «deve ripercorrere a ritroso il cammino fin qui compiuto in quattro secoli e rituffarsi nel Medioevo» (Bobbio 1951, pp. 26-7).
Oltre che sul marxismo, nettamente positivo è il giudizio sulla rivoluzione da esso ispirata: la Rivoluzione d’Ottobre è stata protagonista di una radicale «trasformazione del mondo feudale, economicamente e socialmente arretrato». Ne è scaturita «un’onda tumultuosa e sovvertitrice» che prima o dopo conoscerà una decantazione e un incanalamento in un corso più regolare (Bobbio 1951, pp. 24 e 27). Sì, siamo in presenza di «regimi totalitari», ma ciò non può essere motivo di scandalo, perché si tratta di «una dura necessità storica», che grava sul presente ma è destinata a essere superata (Bobbio 1952, pp. 48-9).
L’elogio del marxismo e del comunismo non è pronunciato con lo sguardo esclusivamente rivolto all’irrisolta questione sociale nella metropoli capitalista: si tratta di mettere in discussione la «civiltà occidentale» che, forte del «successo tecnico» da essa conseguito, «si arroga il diritto di essere l’unica possibile forma di civiltà e di considerare quindi il corso della storia umana come suo esclusivo appannaggio» (Bobbio 1951, p. 24). Occorre farla finita con la filosofia della storia che ha presieduto all’espansionismo coloniale dell’Occidente capitalista:
La storia ha una sola direzione, che è la direzione percorsa dalla civiltà bianca, ai margini della quale non vi è che cristallizzazione, arretratezza, barbarie [...] Che non vi sia che una sola civiltà degna di questo nome, e che questa soltanto sia chiamata al dominio esclusivo, è il presupposto implicito e la conseguenza esplicita della espansione coloniale degli ultimi quattro secoli che non ha conosciuto altre forme di contatto con le diverse civiltà se non lo sterminio (in America), l’asservimento in Africa, lo sfruttamento economico (in Asia) (Bobbio 1951, p. 23).
Veniamo al dibattito del 1954. Ora sugli Stati socialisti il filosofo torinese è più riservato: a loro merito va ascritto il fatto di aver «iniziato una nuova fase di progresso civile in paesi politicamente arretrati, introducendo istituti tradizionalmente democratici, di democrazia formale come il suffragio universale e l’elettività delle cariche, e di democrazia sostanziale come la collettivizzazione degli strumenti di produzione» (Bobbio 1954a, p. 164). Il nuovo «Stato socialista» deve però trapiantare sul suo seno i meccanismi garantisti liberali, versando «una goccia d’olio nelle macchine della rivoluzione già compiuta» (Bobbio 1954b, p. 280).
Fin qui si tratta di una presa di posizione che a ragione insiste sul carattere essenziale della libertà «formale» e della sua consacrazione giuridico-istituzionale. Disgraziatamente, il filosofo torinese finisce con l’identificare la causa della libertà «formale» con l’Occidente capitalistico-liberale, facendo astrazione dalla questione coloniale. Siamo nel 1954. Il 7 maggio di quell’anno, a Dien Bien Phu, un esercito popolare guidato dal Partito comunista mette fine al dominio coloniale della Francia sull’Indocina e al terrore e alle infamie a esso connessi e già denunciati con forza, come sappiamo, da Ho Chi Minh. Alla vigilia della battaglia, il segretario di Stato statunitense John Foster Dulles si rivolge così al primo ministro francese Georges Bidault: «E se vi dessimo due bombe atomiche?» (da utilizzare, s’intende, immediatamente) (Fontaine 1967, vol. 2, p. 118). In quello stesso periodo, per fare solo un altro esempio, la Gran Bretagna fronteggia la sfida al suo dominio coloniale in Kenya, rinchiudendo la popolazione civile di questo paese in terribili campi di concentramento in cui la morte in massa di donne e bambini è all’ordine del giorno (infra, cap. VI, § 2).
Si comprende allora la presa di posizione del segretario del Partito comunista italiano: «Quando mai e in quale misura sono stati applicati ai popoli coloniali quei principi liberali su cui si disse fondato lo Stato inglese dell’Ottocento, modello, credo, di regime liberale perfetto per coloro che ragionano come Bobbio?». La verità è che la «dottrina liberale [...] è fondata su una barbara discriminazione tra le creature umane». Oltre che nelle colonie, tale discriminazione infuria nella stessa metropoli capitalista, come dimostra il caso dei neri statunitensi, «per così grande parte privi di diritti elementari, discriminati e perseguitati» (Togliatti 1954/1973-84, vol. 5, pp. 866 e 868).
Il leader comunista non mostra alcun disdegno per la libertà «formale». Certo, la sua realizzazione non può prescindere dalla situazione internazionale e dal contesto geopolitico, dalle minacce terribili che pesano sull’Unione Sovietica e sui paesi di orientamento socialista. Ma, ferma restando la necessità di tener conto di una guerra fredda che, come dimostra il colloquio appena visto tra Dulles e Bidault, è sempre sul punto di trasformarsi in olocausto nucleare, non ci sono dubbi sul fatto che la libertà a torto considerata «formale» dal marxismo volgare è essa stessa essenziale:
I rivolgimenti liberali e i rivolgimenti democratici hanno messo in evidenza una tendenza progressiva, di cui fa parte tanto la proclamazione dei diritti di libertà quanto quella dei nuovi diritti sociali. Diritti di libertà e diritti sociali sono diventati e sono patrimonio del nostro movimento (Togliatti 1954/1973-84, vol. 5, p. 869).
Assieme ai «diritti sociali», è anche e anzi in primo luogo la rivendicazione dei «diritti di libertà» per i popoli coloniali o di origine coloniale a costituire il discrimine tra movimento socialista e comunista da un lato e Occidente liberale dall’altro.

2. Il Marx dimidiato di Della Volpe e Colletti

Nel dibattito aperto da Bobbio, oltre a Togliatti e prima di lui interveniva Della Volpe, in quel momento considerato il più illustre filosofo del marxismo italiano. Una cosa balza subito agli occhi: com’erano diverse le posizioni espresse dal grande intellettuale e dal segretario del suo partito! Al contrario del secondo, il primo non faceva alcun riferimento alla questione coloniale (e neppure allo stato d’eccezione permanente imposto a paesi protagonisti di rivoluzioni guardate con sospetto o ostilità dall’Occidente liberale). Della Volpe seguiva invece una strategia del tutto diversa, concentrandosi sulla celebrazione della libertas maior (lo sviluppo concreto dell’individualità garantito dalle condizioni materiali di vita e reso possibile dal socialismo). In tal modo, per un verso erano svalutate le garanzie giuridiche dello Stato di diritto, tranquillamente degradate a libertas minor; per un altro verso, si finiva con l’avvalorare la trasfigurazione cui Bobbio procedeva della tradizione liberale quale campione della causa del godimento universale per lo meno dei diritti civili, della libertà formale, della libertas minor, della limitazione del potere statale.
Il filosofo torinese esortava a studiare e a «capire il liberalismo», frequentando la scuola di «Locke e Montesquieu», e del «Federalist» (Bobbio 1955b, p. 265). Rimosse erano la storia e la questione coloniale: oltre che azionista della Royal African Company, la società che gestiva la tratta degli schiavi neri, Locke è stato, come ha osservato un illustre storico dell’istituto della schiavitù (D.B. Davis), «l’ultimo grande filosofo a cercare di giustificare la schiavitù assoluta e perpetua». Per quanto riguarda Montesquieu, egli ha invitato a prendere atto della «inutilità della schiavitù tra noi», «nei nostri climi» e dunque a «limitare la schiavitù naturale (servitude naturelle) a certi particolari paesi». Infine, uno dei redattori del «Federalist», Madison, era proprietario di schiavi.
Gli autori da Bobbio additati quali maestri erano la conferma della «barbara discriminazione tra le creature umane» da Togliatti rimproverata al liberalismo. Con particolare enfasi il filosofo torinese rinviava a John Stuart Mill e all’inno alla libertà contenuto nel suo testo forse più celebre: On Liberty (Bobbio 1954a, p. 161). Eppure, proprio in questo saggio vediamo il liberale inglese giustificare il «dispotismo» dell’Occidente sulle «razze» ancora «minorenni», tenute a osservare un’«obbedienza assoluta», in modo da poter essere avviate sulla via del progresso (Losurdo 2005, cap. I, §§ 1 e 3, cap. II, § 4 e cap. VII, § 3). Negli anni ’50 del Novecento il «dispotismo» e l’«obbedienza assoluta» imposti dall’Occidente si facevano ben avvertire in Indocina, in Africa, nel mondo coloniale nel suo complesso; negli stessi Stati Uniti (in ogni caso nel Sud) i neri erano esposti alla violenza sia della polizia locale sia delle bande razziste e fasciste (incoraggiate o tollerate dalle autorità). Sennonché, tutto preso dalla celebrazione della libertas maior, Della Volpe non si preoccupava o non era in grado di mettere in evidenza i clamorosi infortuni di Bobbio.
Disgraziatamente Della Volpe faceva scuola: i suoi discepoli si distinguevano anche loro per la scarsa attenzione riservata alla questione coloniale. Si pensi a Lucio Colletti. Nel suo periodo marxista egli ha dimostrato i limiti di fondo della libertà cara al mondo liberal-capitalistico, facendo riferimento alle «case di lavoro» o «case di correzione» (nelle quali venivano rinchiusi, spesso su semplice provvedimento di polizia, disoccupati e miserabili, tutti coloro che venivano considerati o che erano sospettati di essere «oziosi vagabondi») e definendole «i campi di concentramento della “borghesia illuminata”» (Colletti 1969, p. 280). L’argomento era calzante; peccato che fosse in parte sminuito dal silenzio sui campi di concentramento veri e propri, dalla «borghesia illuminata» riservati ai barbari delle colonie!
In coerenza con tale silenzio, al momento della sua rottura con il marxismo e il comunismo, Colletti tracciava un bilancio catastrofico della vicenda storica iniziata con la Rivoluzione d’Ottobre senza mai fare parola dell’impulso da essa scaturito per la rivoluzione anticolonialista mondiale. La crisi del marxismo – egli osservava nel 1980 – «datava da molti decenni»; per l’esattezza, «un marxista rivoluzionario, come Karl Korsch, l’aveva già identificata nel 1931» (Colletti 1980, p. 73). L’aveva dunque individuata in un momento in cui il sistema colonialista mondiale sembrava essere ancora vigoroso, tanto che Hitler si proponeva di estenderlo anche all’Europa orientale, edificandovi le «Indie tedesche». La rivoluzione anticoloniale successivamente divampata su scala planetaria aveva qualcosa a che fare con il comunismo e il marxismo? Era una domanda del tutto assente nel filosofo felicemente approdato nel mondo liberal-capitalista.
Egli anzi si faceva beffe dell’interesse rivolto da marxisti ostinati e incorreggibili ai paesi «del sottosviluppo», ai «contadini», alle «plebi rurali», a «un soggetto non solo estraneo alla tradizione marxista, ma a cui almeno il marxismo “classico” si era spesso mostrato ostile» (Colletti 1980, pp. 9-10). Come se Marx non avesse dedicato una parte considerevole della sua produzione alla lotta di liberazione nazionale dei popoli irlandese e polacco (costituiti in larga parte di contadini) e come se (assieme a Engels) non avesse aspramente e ripetutamente criticato la classe operaia inglese per la sua sostanziale subalternità al colonialismo britannico! Soprattutto del tutto ignorata era la grande tesi di Marx:
La profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude (MEW, 9; 225).
Ridotto Marx a critico solo delle «forme rispettabili» assunte dal dominio capitalistico e rimossa la questione coloniale, Colletti non aveva difficoltà a tracciare un bilancio manicheo del capitolo di storia iniziato con la Rivoluzione d’Ottobre, della rivoluzione scoppiata, secondo l’analisi già vista di Lenin, per porre fine alla «guerra fra i padroni di schiavi per il consolidamento e il rafforzamento della schiavitù» coloniale. Agli occhi del filosofo finalmente convertito alle ragioni dell’Occidente liberale e capitalistico, era quest’ultimo a incarnare permanentemente la causa della libertà e della tolleranza. È vero, egli non taceva «il massacro di oltre un milione di comunisti in Indonesia» e neppure il «bagno di sangue» che aveva fatto seguito al «golpe dei militari in Cile» e all’«assassinio di Allende» nel settembre 1973 (Colletti 1980, pp. 7 e 65-6). In entrambi i casi, però, non si faceva riferimento alcuno al ruolo degli Stati Uniti, decisi a liquidare il terzomondismo (di cui l’Indonesia di Sukarno, presa di mira nel 1965, era un campione) e a ribadire (in America Latina) la dottrina Monroe. No, il «massacro» e il «bagno di sangue» erano evocati solo per ribadire il fallimento del comunismo e del marxismo, che facevano una figura ben meschina una volta messi a confronto con l’Occidente campione della causa della libertà!

3. «Operaismo» e condanna del terzomondismo

Il disinteresse per la questione coloniale (e neocoloniale) può anche essere rivendicato e praticato in nome di un rigore rivoluzionario che, senza lasciarsi distrarre dai paesi della periferia e da classi per molti versi ancora legate al mondo preindustriale, si concentra sulla metropoli capitalista e sulle lotte della classe antagonista per eccellenza, la classe operaia. È quello che avviene nell’«operaismo» italiano e in particolare in Tronti (2009, p. 58): «Ci deve essere dato atto che non cademmo mai nella trappola del terzomondismo, delle campagne che assediano le città, delle lunghe marce contadine, non fummo mai “cinesi”».
Il testo di riferimento dell’operaismo italiano chiariva in modo inequivocabile, già nel titolo (Operai e capitale), quali erano i soggetti sociali a cui si rivolgeva in modo esclusivo l’interesse di Tronti. Siamo nel 1966. In Vietnam la lotta di liberazione nazionale osava sfidare il mastodontico apparato militare degli Stati Uniti, che l’anno prima avevano svolto un ruolo non trascurabile nella repressione sfociata in Indonesia nel massacro di centinaia di migliaia di comunisti e nella disfatta inflitta al terzomondismo militante di quel paese. In America Latina ferveva la lotta contro la dottrina Monroe, in nome della quale, nel 1961, l’amministrazione Kennedy aveva tentato di invadere e assoggettare Cuba. In sintesi: divampava la lotta tra colonialismo e anticolonialismo, ed essa contribuiva ad alimentare la crisi che, a partire dall’installazione di missili sovietici nell’isola ribelle, spingeva il mondo alle soglie della catastrofe nucleare.
Senza lasciarsi distrarre da tutto ciò, Tronti immaginava «Lenin in Inghilterra» (come suona il titolo di un capitolo centrale del libro). Lasciandosi alle s...

Indice dei contenuti

  1. Premessa. Che cosa è il «marxismo occidentale»?
  2. I. 1914 e 1917: nascita del marxismo occidentale e orientale
  3. II. Socialismo vs capitalismo o anticolonialismo vs colonialismo?
  4. III. Marxismo occidentale e rivoluzione anticoloniale: un incontro mancato
  5. IV. Trionfo e morte del marxismo occidentale
  6. V. Ripresa o ultimo guizzo del marxismo occidentale?
  7. VI. Come può rinascere il marxismo in Occidente
  8. Riferimenti bibliografici