Processo al Nuovo
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Processo al Nuovo

  1. 111 pagine
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Processo al Nuovo

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Il Nuovo ha consumato se stesso perché senza progetto. Con il passato, ha buttato via anche il futuro. I suoi paladini si sono rivelati clamorosamente inadeguati alle sfide, hanno deluso chi voleva cambiare e tradito chi ci aveva creduto. Eppure di una nuova politica l'Italia ha bisogno.Grandi riforme, palingenesi giudiziarie, rivoluzioni liberali, rivolte in Rete, rottamazioni, referendum epocali. Per decenni l'Italia ha inseguito il mito del nuovo inizio. Il Nuovo ha modellato tutte le identità politiche: la sinistra, la destra, il centro. È comparso negli anni Ottanta, si è espresso in tutta la sua potenza all'alba degli anni Novanta, dopo lo scatto felino della storia provocato dalla caduta del muro nel cuore dell'Europa. Ed è diventato senso comune con la Seconda Repubblica: il restyling dei nomi e dei simboli, i modernizzatori contro i conservatori, gli innovatori contro i nostalgici. Nuovo si è presentato il Cavaliere dell'eterno presente. Nuovi i tecnici come Mario Monti. Nuovissimi i cittadini scelti dalla Rete nel Movimento 5 Stelle. E ancor più nuovo il renzismo della rottamazione dove tutto doveva apparire mai visto, mai udito, senza precedenti. Il Nuovo è stato la via italiana al governo e alla politica. Ora sembra smarrito, per incapacità di elaborazione, fragilità culturale, inconsistenza progettuale. Ma nessuna restaurazione del passato è possibile. E l'Italia ha bisogno di una nuova politica, per uscire da questo limbo senza riforme e senza partiti, senza destra e senza sinistra, senza vecchio e senza nuovo. Serve un Nuovo che sia ricostruzione, rigenerazione.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858129784
Argomento
Economics

Ascesa e caduta

Tre alieni a Palazzo

Il Nuovo della Seconda Repubblica, come si sarà capito, non era affatto nuovo. E dopo il suo fallimento politico, economico, culturale ed etico, nel 2011-13 sbarcarono nel Palazzo tre personaggi, loro sì debuttanti assoluti sul palcoscenico della politica. Absolute beginners, al punto di arrivare ai vertici della politica senza aver mai messo piede nei palazzi delle istituzioni, o quasi. Un po’ come aveva fatto Silvio Berlusconi nel 1994, anche se il fondatore di Forza Italia negli anni del far west televisivo, nei corridoi ministeriali e nelle anticamere delle segreterie di partito, aveva incontrato tutti e tutti aveva conosciuto. Non erano certo sconosciuti, i tre alfieri del nuovo. Ma tutti e tre, in modo diverso, comunicavano un senso di estraneità al Palazzo. Ci tenevano a mostrarsi come alieni scesi in terra per salvare il genere italico dall’autodistruzione. Come dimostrò il loro primo passo sul nuovo pianeta.
L’Alieno numero 1, il Tecnico, posò l’orma sul suolo dell’aula di Palazzo Madama alle ore 10.42 dell’11 novembre 2011. Atterrò come un ufo per un incontro ravvicinato del terzo tipo. Il neo-senatore a vita Mario Monti fu accolto dall’assemblea con un timido applauso, vestito di blu (sobrio, si sarebbe detto poi) e sobriamente sorridente. Noi cronisti in tribuna stampa ne registrammo minuziosamente i movimenti, alquanto meccanici. Il primo a stringergli la mano fu il senatore berlusconiano ed ex socialista Ferruccio Saro, che durante la notte precedente, in una riunione drammatica, aveva implorato Berlusconi di lasciare Palazzo Chigi: «Presidente, non ascoltare chi ti consiglia di resistere a tutti i costi! Se Craxi avesse cercato una soluzione politica finché era in tempo avrebbe salvato il Psi, e forse anche se stesso. Invece si fece condizionare da chi lo spingeva a non mollare, chi lo trascinò sulla strada del capro espiatorio, con il poker d’assi contro Di Pietro e i giudici di Milano. Gli stessi che negli anni successivi non sono mai andati a trovarlo ad Hammamet». Poi il leghista Roberto Castelli, un po’ di senatori Pd, l’ex generale Mauro Del Vecchio, l’ex prefetto Achille Serra.
L’ufo si mosse, impercettibilmente, per salutare il novantenne Emilio Colombo, senatore a vita come lui. E si accese solo quando vide Emma Bonino, commissaria europea insieme a lui dal ’94 al ’99. Ci fu un abbraccio e perfino un bacio. Allora anche altri senatori presero coraggio e provarono qualche effusione. Alle 10.49, sette minuti dopo, l’ufo uscì dall’aula, mentre Ciarrapico, il senatore nostalgico del Duce, inveiva contro «cento figli di puttana» che la sera prima l’avevano fischiato per strada, con Berlusconi. Sette minuti senza sedersi, senza sfiorare il seggio del Senato, senza mostrare emozioni. Il Tecnico in politica entrò così. Due giorni dopo ricevette l’incarico di formare il nuovo governo: il primo di larghe intese dai tempi della solidarietà nazionale degli anni Settanta, senza ministri, vice-ministri o sottosegretari che fossero deputati o senatori. Tranne lui, che era stato nominato senatore a vita da Giorgio Napolitano qualche giorno prima.
L’Alieno numero 2, il Comico, entrò dal portone principale del Quirinale a bordo di una monovolume nera, abbassò il finestrino e dichiarò le sue generalità al corazziere di guardia. Era il primo giorno della primavera del 2013, giorno di consultazioni del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in scadenza di mandato, dopo le elezioni del 24 e 25 febbraio, un risultato che aveva scatenato tra gli abitanti del Palazzo lo stesso effetto dello sceneggiato radiofonico interpretato da Orson Welles negli anni Trenta, La guerra dei mondi: il panico.
Il Movimento 5 Stelle, fondato nel 2009 da Beppe Grillo, era passato da zero a otto milioni di voti, battendo il record di Forza Italia nel 1994, e aveva portato in Parlamento 109 deputati e 54 senatori. Nessun altro partito o schieramento aveva la maggioranza alla Camera e al Senato, a cominciare dal Pd di Pier Luigi Bersani che aveva “non-vinto” le elezioni, per ammissione del suo leader. Ed eccoli lì, a colloquio in quella mattina di inizio primavera, il comico venuto a scoperchiare il sistema come una scatola di tonno e l’anziano presidente che aveva negato il boom elettorale. L’anti-politica e la politica, il nuovo più imprevedibile e la conservazione della stabilità e dei rapporti di forza codificati una volta per tutte come regola di vita. Cinquanta minuti, una foto nel cortile del palazzo presidenziale che ha visto papi, monarchi e ora anche giullari trasformati in leader. Davanti alle telecamere sfilarono i capigruppo dei 5 Stelle Rocco Crimi e Roberta Lombardi. Fuori, l’alieno fu inseguito da fotografi e operatori, una pazza corsa di motociclette e scooter nel centro di Roma. Verso il nulla.
L’Alieno numero 3, il Giovane, mise piede al Senato all’ora di pranzo del 24 febbraio 2014. Si accomodò al centro dei banchi del governo, il posto riservato al presidente del Consiglio, seduto tra i ministri Angelino Alfano e Federica Mogherini, entrando per la prima volta in un’aula parlamentare. Fino a qualche ora prima, infatti, aveva indossato la fascia tricolore da sindaco di Firenze. Alle 14.09 gli venne data la parola dal presidente del Senato Pietro Grasso. Si alzò, si abbottonò la giacca, tirò a sé il microfono: «Gentili senatrici, onorevoli senatori, ci avviciniamo a voi in punta di piedi, con lo stupore di chi si rende conto della magnificenza di un luogo simbolo, di essere davanti a un pezzo di storia...».
Esaurito l’omaggio, tuttavia, l’alieno dimostrò subito di non voler pattinare sulle memorie del passato: «Non ho l’età per sedere in Senato. Non vorrei cominciare con una citazione colta della pur bravissima Gigliola Cinquetti, ma è così. Sono qui a chiedere la fiducia con il linguaggio della franchezza, al limite della brutalità. L’Italia è un Paese arrugginito, paralizzato. E io vorrei essere l’ultimo presidente del Consiglio a chiedere la fiducia in quest’aula. Non lo sta chiedendo un governo: lo sta chiedendo un Paese, l’Italia!».
Partirono le prime contestazioni dai banchi leghisti e del Movimento 5 Stelle, ma l’alieno aveva ormai preso sicurezza. La mano sinistra nella tasca dei pantaloni, il tono di voce minaccioso, l’avvertimento beffardo: «Mi hanno detto che al Senato non vi divertivate, vi prometto che con me vi divertirete!». E la conclusione: «Noi abbiamo una sola occasione, è questa. E vi diciamo, guardandovi negli occhi, che se dovessimo perdere, non cercheremmo alibi. Deve finire il tempo in cui chi va nei palazzi del potere, poi, tutte le volte trova una scusa. Se perderemo questa sfida, la colpa sarà soltanto mia». Rilette dopo il referendum del 4 dicembre 2016, sono parole che richiamano la lezione della poesia di T.S. Eliot: il tempo futuro è contenuto nel tempo passato.

Leadership a sorpresa

Mario Monti. Beppe Grillo. Matteo Renzi. Chi più diverso di loro: un economista della Bocconi, un comico, un giovane sindaco? Eppure sono i tre volti della nuova politica, del nuovo, tra il 2011 e il 2013, un biennio decisivo nella storia italiana, di paesaggi sconvolti, crisi sociale, nazione devastata, classi dirigenti in fuga dalle responsabilità. E di leadership in campo a sorpresa, forze inedite e alleanze da riscrivere con l’establishment di sempre. Come in altre fasi di passaggio, il 1943-45 o il 1992-93, in cui tutto diventa possibile per chi riesce a occupare per primo quella posizione privilegiata da cui si governa l’innovazione e si crea un nuovo equilibrio. La condizione dell’egemonia, di un regime, di un potere che non sia una meteora.
Colti nell’attimo fuggente del nuovo inizio, allo stato nascente, Monti, Grillo e Renzi hanno molte più cose in comune di quanto vorrebbero ammettere. Tutti e tre, per dire, al momento di conquistare il palcoscenico vivono in un albergo della Capitale di tutti i vizi e di tutti i mali: Monti e Grillo addirittura nello stesso Forum Hotel che si affaccia sulle rovine del Foro di Augusto, a ricordo della caducità di ogni impero, Renzi in un grande albergo in piazza Barberini dove compila la lista dei ministri del suo governo nei giorni della crisi del febbraio 2014. Una scelta che intende comunicare distanza dal cuore del potere, estraneità ai riti e ai comportamenti dei frequentatori abituali della Roma dei ministeri e della politica.
Un piccolo dettaglio rivelatore. Più in profondità, il Tecnico, il Rivoluzionario della rete e il Rottamatore hanno in comune l’anti-politica. Cavalcano la rabbia e l’indignazione contro i partiti. E si propongono come la soluzione ai mali provocati dai partiti nel corso dei decenni. Raccolgono, e a loro volta seminano, l’idea maggioritaria in una buona fetta dell’elettorato che la vecchia politica sia da rigettare in blocco. E si inseguono a vicenda.
Nel 2011, quando la crisi del governo Berlusconi è ormai in atto, Grillo sul suo blog si appella al presidente Napolitano: «Presidente, in questa situazione lei non può restare inerte. Lei ha il diritto-dovere di nominare un nuovo presidente del Consiglio al posto di quello attuale. Una figura di profilo istituzionale, non legata ai partiti, con l’unico mandato di evitare la catastrofe economica e di incidere sulla carne viva degli sprechi». Sembra il ritratto dell’ex rettore della Bocconi ed ex commissario europeo.
Negli stessi giorni Renzi è riunito alla stazione Leopolda, seconda edizione – ma la precedente era stata organizzata in tandem con Pippo Civati –, e pubblica un programma in cento punti simile a quello del futuro governo Monti: riforma delle pensioni, passaggio al metodo contributivo, contratto unico a tutele progressive, patto di stabilità interno sui costi standard della spesa sanitaria. E ancor più cavalca i temi cari al blog grillino: abolizione dei vitalizi per i parlamentari, abolizione delle province, abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, azzeramento dei contributi per la stampa di partito, fuori i partiti dalla Rai... «Eliminiamo la classe politica corrotta», si legge al punto 13. «Lo strumento è una amnistia condizionata. Al rispetto di 5 punti: ammissione della colpa, indicazione di tutti i complici, restituzione del maltolto, impegno a non fare più politica. In caso di nuovo reato, la pena si somma a quella del reato oggetto dell’amnistia».
Nel 2013 l’inseguimento tra i tre si farà ancora più serrato. Renzi non partecipa alla campagna elettorale da candidato perché ha perso le primarie contro Bersani, ma ha ripetuto in ogni sede la sua idea di politica: la rottamazione della classe dirigente precedente. Noi siamo quelli che non hanno responsabilità, suggerisce: «Siamo la generazione che non deve portare la giustificazione per il disastro».
Monti fonda una lista elettorale a pochi giorni dallo scioglimento ufficiale delle Camere e la chiama Scelta civica. I cittadini che in prima persona «salgono in politica», come il premier-tecnico dice di se stesso. Nello spot elettorale di Scelta civica la voce di Monti propone questo messaggio:
Veniamo da venti anni di promesse tradite e di malaffare con cui la vecchia politica ha messo in pericolo l’Italia. Mi hanno chiamato per prendere le decisioni che loro non avevano il coraggio di prendere. Se facciamo tornare la vecchia politica tutti i sacrifici saranno sprecati. Abbiamo un piano: riforme radicali contro gli sprechi e la corruzione, dimezzeremo i parlamentari. I vecchi partiti non sono in grado di riformare l’Italia, noi insieme possiamo farlo. Non votare il passato, vota per il nostro futuro.
Nelle immagini scorrono mani che si scambiano mazzette e un’interminabile fila di autoblu parcheggiate davanti a Palazzo Chigi, il simbolo del privilegio. Corruzione e sprechi, ovvero la vecchia politica che non può salvare l’Italia. La novità è che Monti, l’uomo dell’establishment, e Grillo, l’uomo delle piazze, usano gli stessi argomenti.
Era già successo qualcosa del genere nel 2007, l’anno di pubblicazione del libro La casta dei giornalisti del «Corriere» Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Luca Cordero di Montezemolo nella sua ultima relazione da presidente di Confindustria di fronte alla platea degli industriali, quel che resta dell’antica razza padrona, aveva accusato la politica di essere un costo per il Paese: «È la prima azienda italiana con 180mila addetti, costa 4 miliardi l’anno, come Francia, Germania, Regno Unito e Spagna messi insieme». Grandi applausi del partito degli industriali («Vai Luca. Valanga di fax e sms in Confindustria», titolò il giorno dopo «Il Sole 24 Ore»). Ma tre mesi dopo a raccogliere i frutti dello scrollone era arrivato Beppe Grillo con il Vaffa-day in piazza Maggiore a Bologna. Più credibile dell’anti-politica chic piovuta dall’alto. Come accadrà nel 2013.

Lo Spaesamento

Non c’è solo l’attacco violento alla vecchia politica a unire Monti, Grillo e Renzi. Nella crisi europea avanza da tempo la ricerca di una ricetta politica che non sia né di destra né di sinistra. Per spiegare il programma della sua lista Monti cita «The Economist»: «True Progressivism: a new form of radical centrist politics is needed to tackle inequality without hurting economic growth...». Renzi potrebbe sottoscrivere; il Renzi del 2011-12, ma anche quello del 2016-17. E Grillo si muove già in un mondo senza destra e sinistra, dove gli ingredienti delle vecchie identità sono dosati in modo tale da dare a tutti l’idea di potersi riconoscere. Partito pigliatutto, catch-all party, lo chiamavano un tempo i politologi un partito così, e c’erano ancora le ideologie.
Nella crisi italiana la loro comparsa sulla scena coincide con il crollo del muro di B., in questo caso tutto italiano, la caduta del muro di Berlusconi, la lunga fine della Seconda Repubblica che passa per scandali, inchieste giudiziarie, attacchi dell’Europa, scossoni parlamentari. E transumanze elettorali. Alla vigilia del 2013 i popoli si rimescolano nelle urne, come i tedeschi dell’Ovest e dell’Est dopo il 1989, l’antico bipolarismo non regge più.
Le strade privilegiate in cui incrociare quello che era diviso sono i gazebo delle primarie del Pd, dove possono votare gli elettori di tutti i partiti nonostante il tentativo di registrarli, e la rete di Grillo, dove non è necessario esibire tessere e appartenenze per circolare indisturbati, almeno nel 2012-13. Mentre i vecchi partiti, inconsciamente, affollano i loro discorsi con metafore di chiusura: il nostro partito, la nostra gente, la nostra Ditta, ripete Bersani. Il recinto nostro e il recinto avversario. «Ogni campo ha il diritto di organizzare i suoi confini identitari senza incursioni corsare», scrive sull’«Unità» il filosofo Michele Prospero contro i renziani che spingono per le primarie aperte a tutti gli elettori. Le ricerche dell’epoca calcolano che 14 milioni di italiani si preparano a cambiare partito, il 40 per cento del corpo elettorale. Voti nomadi, in esodo verso terre promesse. Cittadini delusi, nauseati, furibondi. Un furore che arriva da lontano, dagli anni Ottanta. E che ora può esprimersi senza barriere.
Gli elettori spaesati sono il terreno di caccia dei nuovi arrivati sul mercato elettorale. Sul piano sociale sono il corpo centrale dell’elettorato, il ceto medio aggredito dalla crisi economica, privo di punti di riferimento, assediato dalla paura di perdere il posto di lavoro o dall’impossibilità di trovarlo. Esprimono il rancore verso chi ha fallito e ha lasciato un Paese impoverito, la politica è il capro espiatorio fornito in pasto ogni sera in televisione da chi si candida in nome del cambiamento. Senza questa spinta sarebbe stato impossibile per i nuovi del 2013 arrivare a conquistare i vertici contro i vecchi partiti. Ma nessuno di loro, in realtà, proviene dall’anno zero. Le tre ipotesi di uscita dalla crisi che si inseguono, si confrontano, si scontrano, hanno una storia e vengono da lontano, come si sarebbe detto un tempo.

Il tecnico si fa politico

Molto prima del governo tecnico di Monti c’era stata la proposta del governo dei tecnici e dei diversi del senatore repubblicano Bruno Visentini, poi ministro delle Finanze nel governo Craxi. Per i democristiani e i socialisti negli anni Ottanta era l’anticamera del fascismo. La sinistra comunista, invece, era divisa. Per Berlinguer, all’inizio degli anni Ottanta, i tecnici rappresentavano il superamento dei governi della Democrazia cristiana, i competenti al posto dei corrotti, nella cornice di un patto tra un pezzo di establishment e il Partito comunista della serietà: rigore economico e austerità. Ma quando nel 1993, nel momento più drammatico ...

Indice dei contenuti

  1. Volevamo il Nuovo
  2. Grandi Riforme
  3. Mutazioni
  4. Forza nuovi
  5. Ascesa e caduta
  6. Il nuovo che serve
  7. Bibliografia essenziale