"La lotta di classe esiste e l'hanno vinta i ricchi". Vero!
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"La lotta di classe esiste e l'hanno vinta i ricchi". Vero!

  1. 112 pagine
  2. Italian
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"La lotta di classe esiste e l'hanno vinta i ricchi". Vero!

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Per un certo mondo che conta le politiche egualitarie sono un grave handicap per l'economia e un pericoloso ‘azzardo morale': un grado di diseguaglianza è necessario per garantire lo sviluppo economico. Nella stessa ottica, un elevato tasso di inquinamento iniziale, nella fase del decollo, sarebbe accettabile perché destinato a essere riassorbito con la crescita del benessere e il miglioramento delle tecnologie. A oggi, le diseguaglianze hanno continuato a crescere, la crisi economica globale è gravissima e lo stato ambientale del pianeta continua a peggiorare.

Marco Revelli smonta pezzo a pezzo l'hardware teorico dell'ideologia neoliberista.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858117163
Argomento
Economia

1. Il “paradigma disegualitario” di fine secolo

L’opzione disegualitaria (o, più apertamente, anti-egualitaria) è stata – e in buona misura continua ad essere, anche se più mascherata – parte integrante della dogmatica neoclassica che ha offerto il proprio hardware teorico all’ideologia neoliberista fin dall’origine della sua lotta per l’egemonia, alla fine degli anni Settanta e per tutto il corso degli anni Ottanta del secolo scorso.
L’idea che “un eccesso di eguaglianza faccia male all’economia” – o, più esplicitamente, che “una buona dose di diseguaglianza faccia bene alla crescita” –, ha alimentato le politiche di deregulation prevalse nell’epicentro anglosassone e affermatesi nel circuito della globalizzazione. Ha motivato la rivoluzione fiscale, che ha drasticamente abbattuto la progressività delle aliquote e frenato le politiche redistributive negli Stati Uniti e in Gran Bretagna; e ha generato le dure conditionalities dei Programmi di aggiustamento strutturale (Structural Adjustment Programs) del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, fortemente incentrate sulle priorità del taglio della spesa sociale, sulla rimozione del controllo dei prezzi e la riduzione dei sussidi statali, sulla focalizzazione della produzione sulle esportazioni, sulle privatizzazioni e sul perfezionamento dei diritti del capitale d’investimento estero rispetto alle leggi nazionali. Oltre, naturalmente, ad aver permeato gli insegnamenti economici impartiti da un numero crescente di cattedre delle più accreditate università, nelle business schools, nei think thanks e nelle pubblicazioni di un gran numero di fondazioni.
“L’eguaglianza non è più una virtù” potrebbe essere assunto come il motto che ha contraddistinto la massiccia e articolata rea­zione anti-keynesiana di fine secolo: dopo un cinquantennio nel quale l’eguaglianza era stata, in qualche misura, il valore sociale prevalente – l’“idea regolativa” sulla quale si erano orientate le politiche pubbliche dell’Occidente democratico e le stesse Carte costituzionali dei paesi civili –, si registrava, esplicitamente, un punto di rottura. Una sorta di rovesciamento, che anche là dove l’eguaglianza non veniva identificata come un ostacolo al “progresso economico”, la si retrocedeva comunque da valore finale a funzione strumentale. O la si poneva non più come presupposto, ma, tutt’al più, come conseguenza dello sviluppo, da perseguire con altri mezzi, compreso quello di un’iniziale opzione disegualitaria.
Lo scenario nel quale quella “rottura” si è prodotta era – lo ricordiamo – segnato da una crisi profonda del modello che aveva caratterizzato la parte centrale del secolo, in particolare il trentennio 1945-1975, definito da Eric Hobsbawm come “l’età dell’oro” del suo “secolo breve” e che i francesi chiamano le “trenta gloriose”.
Da un lato la stagflazione – l’intreccio paralizzante di un elevato processo di inflazione e di una altrettanto grave stagnazione – si presentava come un male economico refrattario alle tradizionali politiche anticicliche e offriva l’immagine di un punto di arresto o comunque di un tetto raggiunto dallo sviluppo difficilmente superabile con i mezzi tradizionali.
Dall’altro lato, la cosiddetta “crisi fiscale dello Stato” – caratterizzata da un emergente debito pubblico pur in presenza di una pressione fiscale ai propri massimi – limitava i margini d’intervento delle autorità politiche e delle agenzie pubbliche, lasciando intravvedere nell’insostenibile carico fiscale il principale ostacolo alla ripresa della crescita nei paesi a capitalismo maturo. Per parte sua, la globalizzazione incipiente lasciava intravvedere la possibilità di un’espansione esogena della domanda, grazie all’ampliamento e all’integrazione dei mercati su scala planetaria.
Non stupisce che in un simile contesto si sia strutturato, e sia diventato rapidamente egemone, un paradigma socio-economico orientato alla rottura di tutti i precedenti compromessi sociali – quelli che, fino ad allora, avevano contribuito a formare l’idea prevalente di “società giusta” e che ora apparivano responsabili dell’insopportabile overload delle finanze pubbliche – e basato su una rinnovata centralità del mercato e sulla prospettiva di uno sviluppo trainato prioritariamente dall’offerta (supply-side) – in contrapposizione alle teorie keynesiane che si focalizzavano sulla domanda aggregata (demand-side) – nonché sull’effetto-incentivo di una minore tassazione per la formazione di capitali disponibili all’investimento.
Un paradigma, possiamo aggiungere, nel quale i grandi temi che avevano segnato il lungo ciclo precedente – la questione della piena occupazione, da un lato, e quella della povertà, dall’altro – finivano per assumere una posizione secondaria (così è per le politiche di contrasto alla povertà, ridimensionate con l’argomento dell’“azzardo morale”) o addirittura alternativa (un certo tasso di disoccupazione poteva essere considerato funzionale all’abbassamento del costo del lavoro). Un paradigma, appunto, nel quale l’ineguaglianza cessava di essere considerata un vizio per trasformarsi, entro certi limiti, in risorsa.

2. La teoria del trickle-down e i suoi risultati

La svolta copernicana nel modo di considerare socialmente l’ineguaglianza aveva al centro, come naturale complemento della supply-side economics – e sua copertura morale –, la cosiddetta teoria del trickle-down (letteralmente, “gocciolamento”). Essa nasce da una vecchia intuizione di Georg Simmel, che nel 1904 l’aveva applicata al fenomeno della moda, leggendone la diffusione secondo un processo di trasferimento degli abbigliamenti e dei gusti dalle classi elevate a quelle più basse – di “gocciolamento”, appunto, dall’alto verso il basso – attraverso fenomeni di imitazione e differenziazione. Un’ottantina di anni più tardi, il meccanismo è stato traslato al campo dell’economia per dare un nome alla tesi secondo cui i benefici di una politica economica favorevole agli strati più ricchi della popolazione (si legga “sgravi fiscali”) finirebbero prima o poi per discendere – “gocciolare” – sulle fasce più disagiate e favorire (sia pure in misura differenziata) tutti quanti.
Così come nella metafisica, decisamente inegualitaria, di Simmel l’innovazione e il gusto stanno nelle aristocrazie, allo stesso modo qui l’idea guida è che i soggetti che trainano lo sviluppo economico sono i “vincenti sociali”, ossia coloro che hanno successo: uomini d’affari, grandi investitori, chi dispone di ampia liquidità e di potere finanziario. Se dunque si favoriscono queste figure, si genera un meccanismo virtuoso il quale, spontaneamente, crea ricchezza aggiuntiva e in parte la redistribuisce per una sorta di “forza di gravità” naturale, senza che l’intervento dello Stato giunga a turbare o inceppare il meccanismo.
Alla base della teoria stanno due corollari – o, meglio, due ipotesi di correlazione in forma di diagramma grafico – relativamente semplici ma indubbiamente efficaci per un uso persuasivo: la “curva di Laffer” (di cui si disse, a suo tempo, che la maggiore virtù era “that you can explain it to a Congressman in half an hour and he can talk about it for six months”4) e la “curva di Kuznets” (originata, per la verità, nel campo dell’analisi storica di lunga durata e, solo in seguito, incorporata nella teoria economica).
La prima è pensata – e usata – come arma di combattimento per i fautori di una drastica riduzione delle tasse sui redditi più alti; la seconda, per ridimensionare il problema della povertà rispetto alla priorità dello sviluppo.

La curva di Laffer

La curva di Laffer risalirebbe – come d’altra parte l’origine della supply-side economics – al 1974, al tempo in cui l’allora presidente americano Gerald Ford, di fronte alla “crisi fiscale” del paese, si preparava a varare un piano di ulteriore inasprimento delle aliquote. La vulgata5 narra di un pranzo al Two Continents, noto ristorante di Washington, a cui avrebbero partecipato, oltre ad Arthur Laffer (allora professore pressoché sconosciuto in una business school periferica)6, i due principali responsabili dello staff presidenziale, Don Rumsfeld e Dick Cheney (due personaggi destinati a ritornare carsicamente alla superficie della politica governativa americana, nei momenti più infelici), oltre all’allora editorialista del “Wall Street Journal” Jude Wanniski: “Mentre si stava discutendo della proposta di aumento delle tasse del Presidente Ford nota come ‘WIN’ (Whip Inflation Now) – scrive lo stesso Laffer in una nota autobiografica – io avrei afferrato il mio tovagliolo e una penna e tracciato una curva su di esso illustrando il trade-off tra aliquote ed entrate fiscali. Wanniski lo definì la ‘Curva di Laffer’”7. Laffer usa il condizionale perché confessa di non rammentare il fatto, ricordatogli dallo stesso Wanniski anni dopo. Tra l’altro sono in molti a confermare che la cosa sembrerebbe poco probabile, dal momento che in quel ristorante non si usano napkins di carta, ma preziosi tovaglioli di tessuto, e che un buon conservatore americano non oserebbe mai imbrattarne uno. Ciò non toglie che da allora la denominazione di Wanniski sia rimasta a indicare quella – tutto sommato – banale correlazione che diventerà “ufficiale” all’inizio degli anni Ottanta, quando l’amministrazione Reagan l’adotterà come simbolo della propria, nuova politica economica.
Come si vede nel grafico seguente, si tratta di una curva a campana inclinata lateralmente, nella quale si mette in relazione la dinamica dell’aliquota d’imposta – sull’asse delle ordinate – con la quota delle entrate fiscali – riportate sull’asse delle ascisse –, secondo una sequenza che vede queste ultime crescere proporzionalmente all’aumento delle aliquote fino a un massimo, ossia a un punto di equilibrio (equivalente a quello stabilito dal “teorema di Weierstrass”), in corrispondenza del quale il gettito è massimizzato e oltre il quale le entrate incominciano a decrescere fino ad azzerarsi in corrispondenza di un carico fiscale pari al 100%. L’idea visualizzata dal grafico presuppone l’esistenza di un livello del prelievo fiscale oltre il quale – entrati nella zona definita “prohibitive range” – ogni successivo incremento comincia a funzionare sia come disincentivo all’attività economica (in particolare all’investimento, fino alla sua totale estinzione per un’aliquota pari al 100%), sia come incentivo per pratiche di evasione, elusione e sottrazione fiscale.
Il modellino di Laffer ebbe un clamoroso successo, almeno dal punto di vista “persuasivo”, tant’è che, convinto dall’argomentazione secondo la quale gli Stati Uniti si trovavano ampiamente nel quadrante a destra del “punto di equilibrio”, il presidente Reagan8, all’inizio del suo mandato (qualche anno dopo il famigerato pranzo al Two Continents), tagliò in modo drastico le tasse delle fasce più ricche abbassando il top tax rate dal 70% (per i redditi superiori a 108.000 dollari) al 28% per chiunque avesse un reddito di 18.000 dollari o più, mentre per il corporate tax rate (la tassazione delle imprese) il taglio fu dal 48% al 34%.
Più contrastata, invece, la sua validità dal punto di vista “descrittivo” e soprattutto “predittivo”. E ben più severo il giudizio degli studiosi. Stigliz ad esempio, nel suo libro I ruggenti anni Novanta, liquidò sprezzantemente il modellino di Laffer, definendolo come “una teoria scarabocchiata su un foglio di carta”9. Altri ne mis...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. 1. Il “paradigma disegualitario” di fine secolo
  3. 2. La teoria del trickle-down e i suoi risultati
  4. 3. Il trickle-down alla prova della verifica empirica
  5. 4. Le “giraffe di Keynes”