Guerra e diritto
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Guerra e diritto

  1. 200 pagine
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Guerra e diritto

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La guerra vive, da sempre, un precario equilibrio fra regole e fatti, norme e violenza, furore e rigore. L'autore ripercorre l'evoluzione del confronto tra diritto e fatto bellico, i diversi processi di legittimazione del conflitto armato, delle sue cause e dei suoi fini, e la progressiva conformazione giuridica, con i suoi incessanti tentativi di regolare tempi e modi del 'far guerra'.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858117958
Argomento
Diritto

Capitolo primo. Guerra e diritto

1. Fra ‘ius’ e ‘pólemos’. Genesi di un mito

Nel 1337 la Repubblica di Siena commissiona ad Ambrogio Lorenzetti la decorazione di tre pareti della Sala dei Nove, in Palazzo Pubblico, con l’incarico di raffigurare le Allegorie e gli Effetti del buono e del mal governo in città e in campagna. Ne viene fuori un capolavoro: è la pictorial Summa of government dei liberi Comuni nel Medioevo italiano, dirà George Rowley1, paragonandola alla Summa teologica di san Tommaso d’Aquino e alla summa salvifica della Commedia dantesca.
Il ciclo degli affreschi si dispone su tre pareti. Nella parete di mezzo è collocata in posizione centrale la Pax, simmetricamente posta da Lorenzetti fra la Iustitia e il Bene comune, come figura allegorica che regge un ramoscello d’ulivo in mano e ha posto sotto i piedi un elmo e lo scudo. Sul lato destro della sala sono rappresentati gli effetti del Buon governo, con una straordinaria descrizione paesaggistica del territorio senese nel pieno della sua operosità, garantita dalla tranquilla sicurezza del nuovo ordine sociale. Città e campagna sono infatti dominate da una figura alata, in perfetta unità concettuale e iconografica con la Pax dell’affresco centrale: è la Securitas la quale, unendo idealmente e politicamente la città al suo territorio, srotola un ampio cartiglio, ove si esorta a che «sença paura ognuom franco camini». Nella parete opposta al Buon governo sono dipinti – a guisa di specchio deformante – gli Effetti del mal governo.
Qui troneggia un essere mostruoso, diabolico incrocio fra uomo e animale selvatico: la Tyramnide. Ai suoi piedi giace prigioniera la Iustitia, denudata e trascinata per terra con le mani legate, i piatti della bilancia scaraventati al suolo, distrutti. Alla Tyramnide fanno corona sei figure bestiali che incarnano i vizi politici: Crudelitas, Proditio, Fraus, Furor, Divisio e, infine, Guerra, un’amazzone con lo scudo e la spada sguainata, già pronta a colpire. Nella città, racchiusa dentro le sue fortificazioni, domina il terrore; nella campagna incolta, invece, divampano il saccheggio e la rapina. In alto aleggia una figura infernale, in evidente contrappunto alla Securitas della parete a fronte: è Timor, lo sgomento, la paura. Un terrificante essere demoniaco, il quale ammonisce che «per questa via non passa alcun sença dubbio di morte»2, nella luce fredda di un inverno senza fine.
Il presupposto storico-culturale degli affreschi di Lorenzetti è da tempo oggetto di animate discussioni3. Il suo messaggio politico è invece trasparente: la superiorità ideale dell’ordine repubblicano e l’articolata indicazione, in immagine artistica, di strumenti istituzionali e virtù civili necessari per perseguirlo. Un dato di fondo permea comunque il capolavoro del palazzo senese, affiancando all’altissima forma estetica una consapevolezza che rappresenta il punto d’arrivo della migliore tradizione culturale europea: la corrispondenza fra sicurezza e diritto e, insieme, la certezza che l’ordine, l’ordinamento giuridico e l’espressione politica più sofisticata di quest’ultimo, cioè lo Stato, stanno in contrapposizione, perfetta, con la guerra.
Ordine versus disordine, stato civile versus stato di natura, pace versus conflitti armati, tale dicotomia trova la sua identificazione più palese nella legittimazione dello Stato sovrano, e cioè in quel modello politico, che Hobbes definisce ‘Stato civile’, chiamato a garantire la sicurezza e la convivenza pacifica, e che conosce la più pericolosa insidia per la propria sopravvivenza proprio nella guerra. Un genere di conflitto che, nella sua natura elementare, appare ai più come il ripudio di ogni regola (come spiegherebbe l’etimo stesso del termine, dall’alto tedesco wërran, che significa avviluppare, e quindi pervadere, confondere, disordinare): l’idea della guerra come puro ‘atto di forza’ – cui non fanno ombra le «restrizioni insignificanti» del diritto delle genti – secondo il teorico del Vom Kriege4. Riecheggiano qui le parole, secche e definitive, pronunciate, già duemila anni prima, dal filosofo di Arpino: silent leges inter arma5.
Raffinate elaborazioni di pensiero coincidono con un comune sentire: la pace crea e la guerra distrugge. Dunque, dove c’è guerra non c’è pace, e dove non c’è pace non c’è diritto; anzi, è proprio il diritto a nascere avendo come condizione primaria il mantenimento della pace6. Non solo: a ben vedere la sicurezza, l’ordine, la pace – più che l’obbligatorio precipitato del fenomeno giuridico – rappresentano la condizione necessaria per l’esistenza stessa di un ordine positivo. Un ordinamento può perseguire ogni sorta di fine, l’uguaglianza, la libertà, la difesa della proprietà o al limite il crimine organizzato, ma prerequisito essenziale è l’esistenza di un ordinamento relativamente sicuro, dunque pacifico, al suo interno. Anche se poi ogni comunità evoluta dovrà misurarsi non solo su un orizzonte di efficacia ma anche di legalità, e questa, se possibile, deve trasformarsi in legittimazione politica: si può conquistare il potere con il consenso o la forza, ma alla fine, spiegava Rousseau nel suo Contrat, il più forte non è mai veramente tale se non trasforma «la sua forza in diritto e l’obbedienza in dovere»7.
Dunque la guerra non porta da nessuna parte, non risolve mai nulla, niente crea e tutto distrugge, come scriveva Paul Valéry? Non è esattamente così. Per la verità, sia essa di difesa o di conquista, giusta o ingiusta, un esito minimo obbligato lo presenta, ed è quello di imporre ai contendenti nuovi equilibri militari. Ma poi spesso la guerra schiude anche differenti relazioni civili o di costume. E talvolta pure nuovi modelli di comunità politica. Siamo, in realtà, di fronte a un quadro fatalmente complesso, che mal si presta a definizioni assolute o totalizzanti.
Anzitutto, il fenomeno guerra non è assimilabile di per sé alla mera forza in quanto, se pur atto di violenza nelle sue manifestazioni ultime, è pur sempre violenza collettiva, e che quindi – nella formazione militare, come nella predisposizione delle forze in campo, come pure nella tattica e strategia adottate contro il nemico – collettivamente va ordinata, disciplinata, organizzata8. Un’arte, come si affermerà nel XIX secolo, dotata di sue precise regole, di «una ‘grammatica’ sua propria»9. E poi, nella sua forma più moderna, condotta da gruppi politici ordinati secondo fini generali, essa ha sempre inseguito una qualche forma di legittimazione, se non altro come manifestazione di una giusta pretesa, difesa legittima o strumento di realizzazione di un interesse sovraindividuale, quindi, in senso lato, di ‘diritto’.
Inoltre, alla contesa sul campo di battaglia si annetteva in passato (molto meno oggi) un impressionante ventaglio di qualità che sarebbe arduo definire estranee all’evoluzione civile dell’uomo: il coraggio, la fedeltà, lo spirito di sacrificio, il senso del dovere. Dall’aristeía dei tempi di Omero, passando attraverso la contesa cavalleresca dell’età medievale, sino al primo conflitto mondiale10, la guerra non ha mai mancato di esprimere una funzione ludico-agonale, quindi educativa e culturale11: non per niente bellum e duellum hanno, nel duis (bis) latino, la stessa radice semantica. Tutto ciò cessa però definitivamente con il passaggio dal conflitto individuale alla guerra tecnologica e totale – e perciò disumanizzante e barbara – del XX secolo. Il discrimine è costituito dalla Grande Guerra, prima guerra di macchine e insieme ultima guerra d’individui, in cui il vero eroe diventa il ‘milite ignoto’, non più chi riesce col suo valore a rendere illustre un nome oscuro, ma «colui che seppe meglio disfarsi del proprio»12.
Di più. Vi è nell’antichità chi vede nel conflitto armato il principio stesso della storia, la sua chiave di interpretazione più autentica; evento decisivo del divenire umano, la guerra fisserebbe le differenze fondamentali fra gli uomini: un mito fondativo che taluni eleva al ruolo di dei, altri costringe alla schiavitù: «Pólemos è padre di tutte le cose e di tutto è re: e gli uni fece dei, gli altri uomini; gli uni servi, gli altri liberi»13.
Può darsi che una conclusione così perentoria sul fatto bellico appaia lontana dalla dimensione politica e culturale contemporanea14. Di certo però la guerra ha manifestato per secoli anche una fortissima ambivalenza, che l’ha portata alternativamente – in una formidabile mistura di confusione, casualità e ragione – a distruggere vincoli sociali come a costruirne di nuovi, a demolire come a rifondare la comunità politica15.
Naturalmente lo ha fatto con il suo marchio di fabbrica. I fattori che conducono alla battaglia sono molteplici, più o meno deprecabili, più o meno nobili. Essi sicuramente possono essere ammantati di contenuti politico-ideologici (si combatte per la patria, la classe, il partito), frequentemente anche spirituali (la guerra come esame esistenziale, oscillazione fra la vita e la morte, e dunque destino) e senz’altro psicologico-morali (la guerra come paura, coraggio, impeto e terrore). Ma soprattutto alla fine sono le risorse fisico-materiali (energia, forza, violenza) che nella loro terribile elementarità contrassegnano, e spiegano, ieri come oggi, il fenomeno guerra. Se la guerra rifonda la comunità, lo fa a suo modo: la violenza è nucleo primigenio di istituzioni e leggi, e spesso le spiega.

2. La legittimazione dei conflitti: il diritto va alla guerra con la civetta di Minerva

Tuttavia, l’altra faccia della violenza bellica, la sua carica creativa, non può non tradursi nell’area dell’ordine giuridico anche nelle ipotesi peggiori di distruzione o disfatta militare. Pure qualora il gruppo politico vinto soggiaccia a nuove regole di condotta, anche in tal modo la guerra interagisce con lo ius: è ovviamente la legge del più forte, del vincitore, ma rappresenta comunque l’evento costitutivo di una diversa convivenza sociale e di un differente ordine politico, la fonte primeva di nuovo diritto.
Non solo. Se la guerra diventa strumento per la realizzazione (o la creazione) del diritto, fatalmente finirà essa stessa con l’essere subordinata alle condizioni dello ius: così come i conflitti fra uomini, anche gli scontri fra Stati finiranno con l’essere regolati da norme giuridiche. L’ordine civile è senz’altro un ordine di battaglia, come sosteneva Foucault16, ma in un senso ambivalente, perché non solo la guerra fonda il diritto, ma anche il diritto a sua volta illustra, chiarisce e infine disciplina il fenomeno guerra.
A sua volta, poi, una certa idea di diritto, inteso in senso soggettivo, finisce con l’essere inevitabilmente legata tanto alle ragioni dell’aggredito quanto a quelle dell’aggressore. Se infatti l’aggredito ha di per sé diritto a difendersi, anche l’aggressore troverà sempre una legittimazione, un fondamento, più o meno nobile, alla propria azione, per lo più in una paventata (spesso più fittizia che reale) minaccia altrui, il più delle volte a giustificazione del proprio, naturalmente inconfessabile, desiderio di egemonia e conquista.
Ancora meglio, poi, se questo pericolo virtuale è coniugato con l’ossequio a un’ineludibile, ancorché misteriosa, volontà divina. Ciò che la civiltà occidentale delle origini ha alternativamente individuato nel Dio degli eserciti, che chiama il popolo eletto allo sterminio del vicino, o nel Dio della guerra, quell’Ares (poi divenuto Marte nella tradizione romana) che incoraggia i Greci a una contesa eroica. Un modello di combattimento che è anche politicamente necessario, perché fa emergere dal vortice della battaglia – che non casualmente assume soprattutto il carattere di duelli personali – l’áristos, il migliore. Sino al sacrificio supremo, che è garanzia di immortalità (kalòs thánatos: la ‘bella morte’) nella memoria della cittadinanza17. E poi si fa la guerra anche per ottenere una prova della volontà divina: il riscontro che una delle cause è più forte sottintende che essa è la migliore, perché protetta dagli dei. La lotta diventa così una delle forme di ‘giurisdizione’ dell’antichità, alla stregua del vaticinio sacrale e del processo innanzi a un giudice terzo: insomma, «La bataille sert à éprouver le Destin»18.
E così che far benedire da Dio le proprie insegne si trasforma rapidamente nel topos propagandistico di moltissime imprese militari, senza tema di sfida di ordine logico19 o teologico20, e con un brillante (si fa per dire) avvenire: ancora qualche decennio fa il motto Gott mit Uns ornava i gagliardetti delle SS naziste.
Non è il solo espediente pubblicitario delle guerre: obiettivo della guerra voluta da Dio (e quindi giusta per definizione) non può che essere una pace con giustizia. Perciò lentamente, necessariamente, il connotato religioso della dimensione bellica si colora anche di finalità politiche a sfondo etico, tese a discernere fra il legittimo conflitto, proprio della civiltà cui si appartiene, e lo scontro tribale degli altri, dei barbari. Il fine è sempre assai nobile – assicurare la pace fra le genti – e così anche il più insaziabile conquistatore diventa un idealista inquieto, cui però, per avventura, è impedito ottenere senza armi quanto desidera: come scrive Aristotele, «facciamo la guerra per poter vivere in pace»21.
Su questo abbrivio il suo discepolo Alessandro il ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Capitolo primo. Guerra e diritto
  3. Capitolo secondo. Guerra e Stato sovrano
  4. Capitolo terzo. Guerra e democrazia costituzionale
  5. Capitolo quarto. I conflitti armati nel nuovo disordine globale
  6. Bibliografia