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Origini e struttura della network society

  1. 190 pagine
  2. Italian
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Origini e struttura della network society

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«Le idee che soffiano dalla California hanno un fascino particolare: profumano di possibilità e di democrazia, di orizzonti liberi, di luce vergine e obliqua. E tra le idee donate al mondo dalla patria di Internet, non ha fatto eccezione quella di Chris Anderson, direttore della rivista "Wired" e destinato a proporre una delle ipotesi più accreditate sul potenziale del Web, la coda lunga. La tesi, semplice e intelligente, è che la rete digitale, abbassando drasticamente i costi di distribuzione, stia trasformando un'industria culturale, dedita allo sfruttamento intensivo dei grandi successi, in un sistema più elastico, fondato sulla valorizzazione delle nicchie di consumo».

È perfino un luogo comune quello per cui viviamo ormai in una network society, dalla socializzazione ai modi del quotidiano, dalla produzione al lavoro, dagli acquisti alla burocrazia. Andrea Miconi spiega come Internet è entrata a fare parte delle trame dell'età contemporanea, non soltanto come dirompente novità tecnologica ma come struttura portante della società.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115978

Capitolo 1. Le vie dello spazio

1. La comunicazione sulla lunga durata

In realtà le reti esistevano anche in passato – ha il buonsenso di osservare il più affermato teorico della network society contemporanea – anche se, a causa della propria debolezza tecnologica, sono state a lungo soffocate dalle agenzie verticali, come le religioni, la scuola e le burocrazie [Castells 2009: 16]. Se misuriamo il problema sul lungo corso della storia, aggiunge Armand Mattelart [2001: 132], è un fatto che «le forme sociali che si sono affidate alla struttura reticolare hanno sempre creato squilibri tra le economie, le società, le culture, divise tra loro dalla linea di demarcazione dello sviluppo». Le reti sono sempre esistite, dunque, e per di più hanno agito a favore della differenziazione, dell’apertura delle distanze, e non solo della condivisione delle risorse: e questo capitolo cerca di riassumere il senso di un tale paradosso, e di una così ampia digressione temporale.
Figura 1. La rete dei collegamenti radio-telefonici nel 1937
Fonte: Bown 1937; Hugill 1999.
La figura 1, per iniziare, mostra il sistema dei collegamenti radio-telefonici nel 1937, per come si dispiegava sul pianeta: una rete, appunto, capace di congiungere una decina di città dominanti al grappolo delle proprie province, e ancora articolata attorno alla forza imperiale di Londra. Ogni «economia-mondo», ha scritto Braudel [1979b: 9], «possiede sempre un polo urbano, una città al centro della logistica degli affari», dove convergono «le informazioni, le merci, i capitali, i crediti, gli uomini, gli ordini, le lettere commerciali»; e l’egemonia di Londra, qui, tradisce una regolarità nello sviluppo delle reti, quella di organizzarsi intorno ai centri del sistema mondiale. E naturalmente, i media elettrici sono solo un capitolo di una storia più ampia, che passa, in precedenza, per la rete stradale e per quella postale, per la navigazione, il telegrafo meccanico e la ferrovia. Ma un tale ampliamento del territorio di analisi, che estende la logica delle reti a un arco cronologico enormemente più ampio di quello canonico, richiede anche uno sguardo diverso: quello di un approccio di lunga durata, che si allontani dai dettagli e insista sul funzionamento della struttura, su quello schema di relazioni «stabili tra realtà e masse sociali» [Braudel 1958: 40, 45] che disegna le costanti profonde della comunicazione a distanza.
Il modello che più ha cercato di spiegare la struttura di lunga durata delle reti di comunicazione è quello di Harold Innis, arrivato alla ricerca sui media attraverso la storia dell’economia, e in particolare tramite il concetto di staple, o materia prima. Studiando la storia del Canada, Innis aveva individuato nella richiesta di «beni di lusso», seguita al consolidamento delle metropoli americane [Innis 1956: 4], l’innesco della faticosa esplorazione del territorio, che, all’inseguimento di merluzzi, legname e animali da pelliccia, avrebbe condotto alla scoperta e all’unificazione del paese. Dalle materie prime alle traiettorie del loro sfruttamento commerciale – le vie fluviali per il trasporto del legno, e poi i primi rami della ferrovia – la ricerca di Innis inizia così a ricostruire il ruolo delle infrastrutture di trasporto, fino a individuare nei vettori di spostamento gli elementi decisivi per il progredire di una civilizzazione. Da questa prospettiva materialista, che vincola il costituirsi di una civiltà allo stato dei dispositivi tecnici, economici e territoriali, Innis [1950] fa derivare una peculiare idea di mezzi di comunicazione, intesi a loro volta come staple, o materie prime del sistema. Se una civiltà si fonda sulla gestione dello spazio e del tempo, questa è la tesi, il suo equilibrio dipenderà in modo vitale dai media, che assicurano il controllo di queste due dimensioni fondamentali. In particolare, secondo Innis, i media si dividono in due categorie, quelli leggeri e quelli pesanti, separati dalla natura delle rispettive proprietà fisiche: i primi sono i supporti facilmente trasportabili sul territorio, ma fragili e deperibili alla prova degli anni; i secondi, i mezzi resistenti al tempo ma proprio per questo ingombranti, poco maneggevoli e difficili da trasportare.
L’inclinazione leggera o pesante dei media – definita bias, o tendenza1 – è quindi decisiva per l’equilibrio della civiltà, che può sbilanciarsi di conseguenza verso una o l’altra delle due dimensioni: la prevalenza dello spazio, sostenuta dai media leggeri, e la dittatura del tempo, fissata da quelli pesanti. I primi, infatti, attraversano agilmente le distanze e servono all’estensione delle funzioni amministrative, ma mostrano una scarsa tenuta nel tempo; i mezzi pesanti, all’opposto, sostengono la trasmissione di sapere tra le generazioni, ma insistono sullo spazio di una comunità ristretta e debolmente articolata. I primi favoriscono quindi la specializzazione della burocrazia e l’emanciparsi del potere politico; i secondi, i poteri religiosi e la continuità culturale: per conseguenza, l’egemonia di un mezzo leggero porta alla formazione di un’ampia struttura imperiale, di grande efficacia amministrativa ma di scarsa coesione spirituale, mentre l’affermazione di un mezzo pesante aggrega la civiltà intorno a significati più densi, stabili e condivisi, ma non le consente troppe ambizioni di articolazione organizzativa e geografica. Questa propensione dei media, sintetizza James Carey [1992: 167], si rinforza «in un monopolio quando alcuni gruppi entrano in controllo della forma di comunicazione e identificano con essa i propri interessi»: le reti scrivono insomma solo metà della storia, che viene completata dalle volontà di potenza dei soggetti destinati ad appropriarsene, come la nascita di Internet confermerà in modo inequivocabile. In questo senso, una delle grandi intuizioni di Innis è il concetto di «monopolio del sapere», capace di stringere quel nesso tra gestione della comunicazione ed esercizio del potere che taglia la storia come una costante: sull’asse del tempo, in termini di «manipolazione del consenso» e «controllo sulla percezione soggettiva del passato e del presente», e, sull’asse dello spazio, quale «rete di comando» sul territorio e prolungamento delle funzioni amministrative [Sanfilippo, Matera 1995: 20]. Per Innis, insomma, «la parola e la spada lavorano insieme» [Corsini 1992: 29], e l’età contemporanea, con il suo equilibrio instabile tra la costruzione televisiva del consenso nazionale e l’estensione globale delle sovranità digitali, ce ne fornirà un caso quanto mai chiaro.
L’esempio più semplice di questo conflitto tra le tentazioni dello spazio e del tempo, intanto, è dato dall’Impero romano, a lungo sospeso tra la propensione leggera del papiro e quella pesante della pergamena. Il primo, ampiamente disponibile dopo la conquista dell’Egitto, si presta a una rapida circolazione delle leggi e delle notizie, favorendo così l’annessione delle province e l’allargamento dell’egemonia su territori nuovi e sconfinati: ma la sua natura leggera lo rende anche poco resistente, incline a deperire e a strapparsi, ponendo così ogni generazione di fronte a un vuoto culturale, e scoprendo la vulnerabilità del sistema alla prova del tempo. Nel territorio sfilacciato di questa economia-mondo, per reazione organica, prende così a fiorire la cultura della pergamena: un materiale più ruvido e duraturo, di complicata lavorazione – ma «più compatto e più facile da consultare» [Innis 1951: 36] – che si presta viceversa a una circolazione limitata, e su cui il cristianesimo edificherà i propri monopoli locali del sapere, concentrati nelle piccole aree dei monasteri, e destinati a corrodere dall’interno la macchina del consenso imperiale.
Tabella 1. Il modello di Harold Innis
Fonte: Innis 1950.
Come mostra la tabella 1, lo stesso schema viene applicato a ogni fase della civilizzazione occidentale, che trova nel conflitto tra media orientati al tempo e allo spazio il suo punto di equilibrio o di rottura. Un panorama infinito di guerre e di dinastie, di confini che si aprono e chiudono, di scorribande militari e capricci di principi, ridotto a uno schema scarno e binario: tutte queste fasi sono infatti messe alla prova del modello concettuale ma mai «approfondite» in sé [Godfrey 1986: ix]; e questo perché, lavorando su una cronologia così estesa, Innis è costretto a isolare le grandi costanti della comunicazione a distanza e a interessarsi meno allo specifico di ogni periodo, secondo un filo che ci conduce nel dominio della teoria, più che in quello della storiografia. A Innis, in altre parole, non interessa la storia generale delle civiltà, ma la loro evoluzione dal particolare punto di vista delle tecniche di comunicazione: un solo filo in un’ingarbugliata matassa, che però, se tirato a dovere, può sbrogliare l’intero groviglio.
L’età egizia, per iniziare, è lacerata dalla contraddizione tra la propensione leggera del papiro e le forze oscure del tempo: la pietra, che consegna il sapere al dominio esclusivo delle monarchie assolute, e la scrittura geroglifica, che affida il dono sacro della parola alla casta istruita dei sacerdoti. Di qui il conflitto si sposta a Babilonia, dove la pesantezza della creta lascia il passo alla spinta leggera della pergamena, su cui si scriverà l’egemonia delle città mercantili, strappata con le unghie al clero e al suo cieco controllo sull’educazione, le «scuole e i centri di apprendimento» [Innis 1950: 80]. Il capitolo successivo si svolge nella Grecia classica, dove il circolo magico dell’oralità viene spezzato dalla volontà razionale dell’alfabeto fonetico, che guida la transizione dai tempi mitologici dei re a quelli del commercio, delle leggi e delle colonie [1950: 133-134]. E dopo la caduta di Roma, come detto, l’egemonia della pergamena aveva preso corpo nella civiltà rarefatta dei monasteri, infine destituiti dalla circolazione della carta, che irrompe in Europa nel Medioevo, fissando un presupposto per la fondazione delle più ampie burocrazie del moderno: finché il pendolo della storia riprende l’oscillazione opposta, e la dilatazione dello spazio dovuta alla stampa viene invertita dall’ascesa di un mezzo orientato al tempo, come la radio, che con la sua azione insondabile innesca una «depressione su grande scala» [1950: 248] e apre la faglia tragica del ventesimo secolo.
Il respiro incerto della storia dei media, insomma, che si gonfia e si contrae, nel suo doppio movimento di sistole e diastole, ritmato dall’alternanza tra centralizzazione e decentramento, tra l’estensione delle reti fino ai limiti del possibile, e la rinuncia all’allargamento geografico in nome della stabilità dell’esperienza, secondo una tendenza che gli ultimi anni ci confermano con sorprendente evidenza. Nei termini di Innis, Internet è, infatti, codificabile come un mezzo orientato allo spazio [Muller 2009], per via di un’azione di decentralizzazione del sapere analoga a quella svolta alcuni secoli prima dalla carta, e quindi con comuni rischi di deperibilità2, o per le più generali affinità della rete con le strategie di estensione del controllo sulle periferie, in un «consolidamento del bias spaziale nei network globali delle aziende ad accumulazione flessibile» [Menzies 1999: 322]. Da una parte l’ebbrezza della rete, allora, che incarna l’ambizione globale dei media leggeri, e dall’altra la facile consolazione della Tv, orientata al tempo e alla continuità culturale, che insiste però sullo spazio ristretto e un po’ asfittico degli stati nazionali.
Ora, è chiaro che lo schema di Innis è modellato sui mezzi di comunicazione di natura meccanica, dotati – dalla pietra alla pergamena, dal papiro alla carta – di una composizione materiale riconoscibile; l’elettricità, invece, renderà molto più equivoci gli attributi di leggerezza e di pesantezza, al punto che un mezzo orientato al tempo come la radio, osserva Roger Silverstone [1994: 163], ha una natura tutt’altro che pesante e semmai evanescente, incorporea. Un’interessante correzione del modello, allora, è quella proposta da Peter Hugill, che aggiorna la diade di Innis in termini di media ad alti e a bassi costi di utilizzo, corrispondenti ai mezzi pesanti e leggeri dello schema originale. I media ad alto costo, e quindi ad accesso limitato, agiscono come i materiali pesanti di Innis, dando luogo a «sistemi sociali e di governo gerarchizzati», «gestiti da monopoli» pubblici o privati, mentre le strutture a basso costo consentono una partecipazione più ampia, estesa a chiunque disponga di «un minimo di formazione tecnica», e sfociano in un’architettura di rete più aperta [Hugill 1999: 343]. La vicenda di Internet, ancora, fornirà un caso esemplare di sistema orientato allo spazio, e a costi relativamente bassi, destinato a mettere in discussione l’egemonia dei media generalisti orientati al tempo: con un’enorme estensione dello spazio geografico, infatti, e qualche problema di tenuta intergenerazionale in più. In sintesi:
una società stabile dipende dalla valutazione di un giusto equilibrio fra i concetti di spazio e di tempo. [...] Dobbiamo valutare la civiltà in rapporto al suo territorio e in relazione alla sua durata. La caratteristica del mezzo di comunicazione è quella di creare una tendenza pregiudiziale nella civiltà, volta a valorizzare il concetto di tempo oppure il concetto di spazio; soltanto a rari intervalli queste tendenze sono controbilanciate dall’influenza di un altro mezzo di comunicazione e la stabilità viene così raggiunta [Innis 1951: 86].
Fin qui, il modello di Innis: di rara potenza teorica, ma dalle conseguenze sospette sulla storiografia dei media, e per almeno un paio di motivi. Il primo, più evidente, è tutto nelle abitudini che ne sono derivate: quegli schemi di organizzazione della storia per fasi ideal-tipiche, per passaggi bruschi da un’età a quella successiva, da una dominante all’altra della tecnologia, come nelle letture che definiamo mediologiche dell’evoluzione, con la loro disinvolta messa in sequenza dei millenni dell’oralità, dell’era dell’alfabeto e delle galassie del libro e dell’elettronica3. Un secondo rischio insito nella teoria di Innis è poi connaturato al suo stesso sforzo di rilettura della storia: un esercizio di enorme interesse, come visto, ma non esente dal sospetto di modernizzare le epoche passate, e investirle di un’attenzione un po’ equivoca. A suo modo anche la Roma imperiale era una «società della comunicazione», scrivono ad esempio Philippe Breton e Serge Proulx, capace di «segnare le reti militari» con l’utilizzo di una «specie di telegrafo meccanico» [1993: 32-40]: ed è qui evidente il pericolo di colonizzare, attraverso uno sguardo contemporaneo, lo spirito di epoche dominate da leggi diverse da quelle correnti. Per questo, se Innis insiste tanto sulle similarità tra le diverse fasi della storia, diventa necessario isolare le differenze tra queste ere, e il grande punto di rottura che tutte le accomuna, rispetto alla modernità industriale: la lentezza della comunicazione a distanza, l’imprevedibilità dei suoi esiti, e la pesantezza grave delle sue rotte.
La propensione allo spazio è una tensione costante nello sforzo delle civiltà, come ha mostrato Innis: ma sul corso millenario della storia le reti rimangono a lungo una semplice cerniera amministrativa, che i limiti della tecnologia confinano ai margini del sistema, rendendole incapaci di intaccare gli schemi della vita di tutti i giorni. I network esistono, insomma, ma il quotidiano – il livello di base della struttura sociale, quel fondo di «elementi stabili» che «impacciano» il corso della storia, e in cui vive immersa la gran parte delle persone [Braudel 1958: 45] – ne rimane a lungo impenetrabile, reso indifferente dall’abitudine, pigramente disposto sui propri perimetri, organizzato nel chiuso delle comunità e lungo le linee spezzate della dispersione territoriale. Nella faticosa costruzione delle vie di trasporto, così, per secoli «l’uomo si impadronisce solo parzialmente dello spazio», su cui la topologia delle reti stradali agisce come una geometria astratta e lontana, mentre «l’animale selvaggio» prospera nelle terre di mezzo [Braudel 1979b: 412].
Tra i vari livelli dell’insieme sociale, quindi, il quotidiano rimane a lungo immune a ogni trasformazione, così che l’impianto delle reti, prima della modernità, rimane al servizio esclusivo dei grandi protagonisti della storia: dei bisogni amministrativi degli imperi, come visto, e dell’intraprendenza dei mercanti, che continuano a esplorare le vie della terra e dell’acqua; così che nel ’500, ad esempio, le «merci, comprate a Venezia, verranno spedite e vendute ad Alessandria», ricca di «colli di pepe, di spezie o di droghe» da acquistare, in un vero e proprio «circuito di scambio» e «reciprocità» tra gli angoli più lontani del pianeta [Braudel 1979a: 127]. Un «immenso movimento di uomini, di capitali e di ricchezze», che le città commerciali giocano a intrecciare e a disfare: è ad esempio il caso di «Marsiglia, cui fu dato in mano il commercio col levante», e di Lorient, che «ebbe ben presto il monopolio del commercio con le Indie – privilegio da poco in confronto a quello di Siviglia, che, nel 1503, aveva ottenuto» invece «l’esclusiva del commercio con l’America» [Braudel 1963: 375]. Un fittissimo scambio di mercanzie, di lettere di credito, di informazioni che vanno e vengono, incapace di penetrare il guscio della vita quotidiana: e questo perché «fino al secolo XVIII», annota Braudel, «le navigazioni sono interminabili», «i trasporti terrestri quasi paralizzati»,...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Capitolo 1. Le vie dello spazio
  3. Capitolo 2. Network Society
  4. Capitolo 3. Inclusione, esclusione
  5. Riferimenti bibliografici