1.
Gangster Story:
il fascino della rapina in banca
A un giudice che gli chiedeva perché si ostinasse a rapinare banche, l’imputato recidivo Willie Sutton rispose candidamente: «Perché è lì che ci sono i soldi». È la sintesi fulminante dell’associazione fra banca e denaro che ognuno di noi ha in mente e che il cinema riprende soprattutto attraverso il tema dell’assalto alla cassa. Non a caso, se si interroga Google con la parole «bank» e «movies» le prime cinque pagine sono occupate quasi esclusivamente da film su rapine, che siano quelle del goffo Virgil Starkwell di Prendi i soldi e scappa di Woody Allen, oppure quelle dei western come Il mucchio selvaggio o Butch Cassidy, o dei film sul banditismo degli anni Trenta come Gang o Gangster Story. Clyde, il protagonista di quest’ultimo film, si presenta con tre parole: «Noi rapiniamo banche», come fosse un mestiere come un altro.
Tante variazioni sul tema della rapina non sono casuali: non basta che si tratti di una scena sempre carica di suspence né che i rapinatori debbano dimostrare coraggio e sangue freddo, essendo le banche un luogo protetto e spesso difeso da guardie armate. La rapina in banca è innanzitutto una sorta di tesi di laurea del delinquere. Il protagonista del film di Woody Allen è un ladro compulsivo che ruba qualsiasi cosa gli capiti a tiro: dalle penne, alle borsette, alle gomme da masticare, ma la rapina è il coronamento dei suoi sogni. Lo stesso vale per Butch Cassidy e il suo compare che emigrano fino in Bolivia, considerata l’ultimo paradiso dei rapinatori.
Il cinema narra la vicenda dal punto di vista dei criminali, quasi fosse una lunga ripresa «in soggettiva», come si dice. La conseguenza è che non possiamo non provare tenerezza per Virgil Starkwell che non ne imbrocca una e non riesce nemmeno a scrivere in modo leggibile «Questa è una rapina» sul foglio che consegna al cassiere, trasformando il colpo in una burocratica discussione sull’interpretazione del testo. Sempre per rimanere in tema di foglietti, siamo costretti a sorridere per Butch Cassidy che compita come uno scolaretto «Esto es un robo» perché non spiccica una parola di spagnolo.
Altri film ci portano ancora più esplicitamente dalla parte dei rapinatori. Gangster Story insiste molto sullo stato di necessità che induce al delitto due giovani brillanti e pieni di speranze. Il titolo originale di Gang, Thieves Like Us [Ladri come noi], costringe immediatamente lo spettatore a guardare i ladri come persone, con i loro problemi quotidiani e i loro sentimenti, non necessariamente criminali. Il sanguinoso conflitto a fuoco che conclude questi film ci appare come il compimento di un fato tragico degno di Sofocle, non certo il trionfo della giustizia, e infatti le vittime lo accettano come un giudizio divino. Addirittura Butch Cassidy e Billy the Kid ci appaiono come semidèi della mitologia: il fermo immagine finale dei due con le pistole in pugno che affrontano migliaia di soldati è giustamente diventato oggetto di culto. Comunque non c’è traccia di pentimento nei rapinatori. Virgil ce lo dice a modo suo: quando viene condannato a 800 anni di carcere si consola pensando che con la buona condotta la pena può essere ridotta «anche della metà». Successivamente sintetizza la sua vita in questo modo: «Penso che alla fine il delitto paghi: è un buon lavoro, gli orari sono comodi, non dipendi da nessuno, viaggi molto e conosci un sacco di persone».
Se ci viene facile stare dalla parte dei rapinatori è perché, magari inconsciamente, pensiamo che le banche siano istituzioni che svolgono un’attività disdicevole di cui dobbiamo diffidare «a prescindere» (per usare un intercalare caro a Totò). È il vecchio pregiudizio medievale del «denaro come sterco del demonio», che ha navigato nei secoli fino alla famosa domanda di Bertolt Brecht nell’Opera da tre soldi: «Cosa è rapinare una banca rispetto a fondare una banca?». Un pregiudizio ovviamente rafforzato dalla crisi scoppiata nel 2007 e dalle malefatte di tanti finanzieri che hanno provocato le reazioni popolari culminate nel movimento Occupy Wall Street, che ha scandito contro i banchieri slogan degni del massimalismo sessantottino.
Questa visione solo negativa è respinta con sdegno dagli economisti. In ogni libro di testo la moneta viene rappresentata come il lubrificante indispensabile per far girare il motore del mercato o come l’equivalente della circolazione sanguigna nel corpo umano; la sua introduzione viene paragonata alle grandi svolte della civiltà, come l’invenzione della ruota. La banca è presentata come un’istituzione fondamentale per l’attività produttiva, per il risparmio e gli investimenti, cioè il cuore del processo di crescita di un paese. Un famoso docente della prestigiosa università di Yale, William Goetzmann, ha scritto recentemente un libro che già nel titolo (Denaro. Come la finanza ha reso possibile la civiltà) vuole affermare il contributo fondamentale della finanza al progresso.
Due visioni del mondo finanziario inconciliabili? Niente affatto. Prima di tutto perché non è vero che il cinema ci trasmetta solo una visione negativa e antitetica a quella degli economisti. Vedremo più avanti che anche sul grande schermo è stato riconosciuto il ruolo fondamentale della moneta e del credito. Ma possiamo anche risalire a Shakespeare e al suo Il mercante di Venezia, tradotto in un film del 2004 che si è valso della splendida interpretazione di Al Pacino (Shylock, il banchiere) e Jeremy Irons (Antonio, il mercante).
Quando quest’ultimo chiede il prestito, che gli è necessario nell’attesa delle navi cariche di merci, Shylock impartisce una doppia lezione: prima di tutto dimostra ad Antonio quanto il credito sia necessario per far arrivare le merci sul mercato e, quindi, per la grande rete di commerci su cui poggiava la potenza della Serenissima; e, poi, gli rivela che prestare soldi a interesse ha addirittura precedenti biblici. Ma, soprattutto, Shylock ci offre un’alta lezione morale. Ricorda di essere stato insultato con l’epiteto di «cane rognoso» e preso a sputi sul ponte di Rialto: «Ha tremila ducati da prestare un cane rognoso?». Per questo il dramma è considerato innanzitutto un manifesto contro l’antisemitismo. Il celebre monologo in cui Shylock dice «Non ha occhi un ebreo...», uno dei più nobili del teatro shakespeariano, sarà ripreso da Ernst Lubitsch nel film satirico Vogliamo vivere!, uscito in pieno nazismo, e poi da Mel Brooks nell’altrettanto efficace remake Essere o non essere.
Shylock in quanto banchiere non è un essere riprovevole. Piuttosto, egli è accecato dallo spirito di vendetta (che con la professione del banchiere non c’entra nulla) ed eccede nell’applicare il principio biblico «occhio per occhio», imponendo una macabra condizione: al momento di stipulare il contratto prima chiede quali sono i tassi di interesse correnti, ma alla fine esige la garanzia di una libbra di carne del debitore. Questo sì è riprovevole, ma Antonio non era un modello di virtù cristiane.
Il dramma ci offre anche un’altra lezione: se al debitore qualcosa va storto, è bene procurarsi un buon avvocato capace di destreggiarsi nelle clausole scritte in caratteri minuti. Come è noto, Antonio si salva grazie all’abilità di Porzia che, di fronte ai dottori della legge, mette di fatto Shylock nell’impossibilità di escutere la garanzia: il contratto dice che può prendere una libbra di carne, ma non prevede lo spargimento di sangue cristiano. È il contrario della battuta di Woody Allen in Amore e guerra: «Domani alle sei sarò giustiziato per un delitto che non ho commesso. La sentenza diceva alle cinque, ma ho un buon avvocato».
L’importanza del ruolo della banca è presente in modo diretto o indiretto in molti film. La rappresentazione più leggiadra ma non meno efficace ce la dà Walt Disney nel classico Mary Poppins, nella scena in cui il banchiere vuole convincere il bambino Michael a depositare i suoi due penny in banca. Prima gli prospetta la sicurezza dell’investimento e poi (assecondato dal padre del bambino) gli fa balenare davanti agli occhi le grandi opere «che soltanto il credito può dar»: ferrovie in Africa, dighe in Canada, flotte che solcano i mari, canali che uniscono gli oceani. Per concludere, mette anche in evidenza il contributo della Banca d’Inghilterra alla potenza economica britannica, fino ad affermare che «finché la Banca d’Inghilterra sta in piedi, sta in piedi l’Inghilterra» e, caso mai il ragazzo fosse un po’ tardo, ripete il concetto in negativo: «se crolla la Banca d’Inghilterra, crolla l’Inghilterra».
Difficile immaginare un modo più sintetico e semplice per prospettare il ruolo che hanno avuto le banche a partire dall’Ottocento nel sostenere la grande fase di industrializzazione e affermazione delle potenze nazionali, prima fra tutte quella inglese.
Bastano questi due esempi per capire che il cinema ci consegna una visione della banca che non è antitetica, ma complementare rispetto a quella dell’economista. Innanzitutto perché ci fa vedere la banca dall’esterno, per così dire: con gli occhi dei rapinatori o quelli del bambino a cui viene proposto l’investimento. Ma il motivo fondamentale è che il cinema è un grande specchio, «il riflesso della vita nella vita stessa», come diceva François Truffaut, e quindi mette in primo piano passioni e sentimenti, gli aspetti nobili e quelli sordidi delle vicende narrate. È difficile non cogliere dietro i personaggi che si muovono sullo schermo la società del tempo con i suoi problemi e le sue tensioni. E, come ha insegnato il grande cinema italiano, se si usano i toni della commedia il messaggio può risultare ancora più lampante. Tutti a casa ci fa capire l’Italia dell’8 settembre 1943 meglio di tanti libri di storia e Cabaret, cioè un musical, che dovrebbe essere l’apoteosi del genere «leggero», è altrettanto espressivo della società tedesca ai tempi dell’ascesa di Hitler di un quadro di George Grosz. Troveremo in molti film, in cui la parola «banca» appena compare, una rappresentazione efficace dei problemi della società del tempo collegati alla finanza.
La rappresentazione della finanza nella teoria economica tende ad essere più asettica perché le correnti di pensiero dominanti sono troppo occupate a costruire sofisticati modelli matematici capaci di spiegare l’equilibrio economico generale per mettere in discussione l’attendibilità delle ipotesi semplificatrici che questi richiedono. Sono più preoccupate di considerare come verità rivelata il fatto che le scelte economiche sono compiute da individui razionali e che i mercati sono generalmente capaci di raggiungere autonomamente condizioni di perfezione ed equilibrio. Di conseguenza, le manie speculative, le crisi, i dissesti, i comportamenti vessatori o truffaldini sono considerati come una fastidiosa deviazione da una condizione tendenziale di equilibrio, come un incidente in un percorso di sviluppo comunque positivo.
Va detto che questo vale per la teoria economica dominante e in particolare per quella di stampo neoliberista, non per tante altre correnti di pensiero. Una, storicamente robusta, che ha il suo epigono principale in John Maynard Keynes, ha dimostrato l’instabilità intrinseca dei sistemi finanziari moderni e la loro naturale propensione a provocare crisi con preoccupante regolarità. Altri, come Kaushik Basu, capo economista della Banca mondiale, insistono sul fatto che «l’economia non può essere separata dalla società e dalla politica». Una frase che può apparire più ovvia di quelle dei biglietti dei cioccolatini, ma che è drammaticamente vera perché, come scrive lo stesso autore, l’evoluzione della scienza economica degli ultimi decenni ha fatto sì che «nella frenesia di scoprire verità complicate o, peggio ancora, di complicare la verità, ci sono sfuggite verità semplici».
L’homo oeconomicus di Hollywood è fatto di passioni e sentimenti, nobili e sordidi; intorno ai protagonisti ruota un’intera società, con tutte le sue sfaccettature e le sue contraddizioni. Quando il cinema parla di finanza e finanzieri, normalmente ci presenta il bene e il male (più o meno con la maiuscola) come due facce della stessa medaglia, offrendoci un contributo che completa o addirittura corregge quello dell’economista proprio perché è capace di far vedere le «verità semplici» di cui parla Basu. In fondo, il mestiere del cineasta è quello di saper raccontare delle storie seguendo schemi tanto più efficaci quanto meno convenzionali. Se in Viale del tramonto Billy Wilder è riuscito a farci vivere la fine del mondo del cinema muto dando la parola a un cadavere, altri ci hanno proposto, in forme spesso altrettanto oblique, lezioni sulla finanza che completano, quando non correggono, la visione di molti economisti.
2.
Il colore dei soldi:
oro, banconote, assegni, elettronica
Se c’è una cosa su cui economia e cinema concordano senza riserve è che la moneta è una gran bella cosa. Ce lo dice con tutta la sua prorompente vitalità Liza Minnelli in Cabaret con il ritmo travolgente di Money Makes the World Go ’Round. Il messaggio è forte e chiaro: la moneta tiene la fame fuori dall’uscio e ci consente di comprare qualsiasi cosa vogliamo, da uno yacht a una dolce compagnia. Se i sogni son desideri (come si dice in Cenerentola), la moneta è lo strumento per realizzarli senza bisogno di fate capaci di trasformare una zucca in carrozza dorata. Perché, come diceva Woody Allen, «Se il denaro non può dare la felicità, figuriamoci la miseria». E il suo maestro Groucho Marx aggiungeva: «Nella vita ci sono cose ben più importanti del denaro. Il guaio è che ci vogliono i soldi per comprarle». È esattamente quello che pensano gli economisti, che mettono in evidenza questa straordinaria capacità della moneta di essere la chiave che apre le porte di ogni bene e servizio. La moneta è mezzo di scambio e dunque il cuore pulsante di un’economia di mercato.
I dollari sono verdi come il tavolo da biliardo, ci dice Il colore dei soldi di Martin Scorsese, offrendo a Paul Newman l’occasione di un’altra grande interpretazione dopo Lo spaccone, rielaborando il tema della complessa relazione fra guadagno, realizzazione delle proprie ambizioni e felicità. Proprio questi due film dimostrano che il cinema guarda oltre gli aspetti puramente economici e sa mettere in luce le profonde emozioni che la moneta può procurare. Ovviamente nulla è in grado di far vibrare i nostri sentimenti quanto l’oro, la moneta dell’immaginario collettivo. La rappresentazione emblematica è quella dello zio Paperone che nuota allegro e festoso nell’oro e che ci dice che possiamo accumulare moneta non solo per comprare beni oggi o domani, ma per il puro piacere dell’accumulazione, che è uno degli impulsi naturali più radicati nella nostra mente, soprattutto quando c’è di mezzo l’oro. La moneta è infatti vecchia quanto il mondo civilizzato: l’uomo ha usato i beni più svariati, dalle conchiglie ai semi di cacao, ma una volta scoperti i metalli preziosi, in particolare l’oro, li ha adottati per qualche millennio, creando automaticamente la brama dell’accumulazione. Quando gli aztechi – che conoscevano l’oro ma non gli attribuivano particolare valore – chiesero a Hernán Cortés il motivo di tanto interesse per questo metallo, il conquistatore spagnolo diede una risposta molto sottile: «Perché io e i miei compatrioti siamo affetti da una malattia del cuore che può essere curata solo con l’oro». Zio Paperone non avrebbe saputo rispondere meglio.
Il cinema ci fa capire anche il potere della moneta di acquisire beni immateriali, compreso il più immateriale fra tutti: il tempo. In Chinatown, all’investigatore (Jack Nicholson) che gli chiede: «Che cosa può comprarsi che già adesso non abbia?», il magnate corrotto (John Huston) risponde: «Il tempo, mister Gittes, il tempo». Quasi una chiave per l’immortalità. È la sintesi più efficace che nessuno schema di analisi economica può rivelare e che apre scenari inquietanti sul nesso fra potere e denaro, che è appunto il tema centrale del film di Polanski, su cui torneremo.
Il nome inglese di zio Paperone (Uncle Scrooge) discende dal personaggio Ebenezer Scrooge del romanzo breve di Charles Dickens A Christmas Carol (Racconto di Natale), adattato molte volte per lo schermo. L’ultima versione (prodotta dagli studi Disney) è una felice sintesi tra moderne tecnologie e attori in carne e ossa di primissimo piano: Jim Carrey, Colin Firth e Bob Hoskins. Il regista Robert Zemeckis è rimasto strettamente fedele all’idea centrale del testo, che è la corruzione morale determinata dall’accumulazione del denaro. Il Natale per Scrooge è un giorn...