Il giubileo
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Il giubileo

Una storia

  1. 154 pagine
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Il giubileo

Una storia

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Grazie alla lunga esperienza di storico del cristianesimo, Alberto Melloni ricostruisce il senso del giubileo nella cristianità occidentale: la parabola di un'istituzione che, nata per lucrare indulgenze, diventa oggi con papa Francesco testimonianza di misericordia.Tullio Gregory, "Il Sole 24 Ore"

Un vademecum agile e solido sugli Anni Santi: dal giubileo di Bonifacio VIII nel 1300 – quando eccezionalmente a San Pietro si ottiene l'indulgenza plenaria, e gratis – fino alla 'Woodstock cristiana' di Giovanni Paolo II e poi al concetto di 'misericordia' centrale nel giubileo proclamato da papa Francesco.Marco Ansaldo, "Il Venerdì di Repubblica"

Tutti gli Anni Santi nel racconto rigoroso e appassionato di uno storico autorevole. "Famiglia Cristiana"

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858126851

Sviluppi

1. Lutero

Egilberto Martire – politico e poligrafo della prima metà del Novecento, passato dalla destra del Partito popolare alla propaganda filofascista in nome di un ideale nazionalcattolico di romanità – in un libretto uscito nel 1950, in occasione del giubileo indetto da Pio XII, con la prosa sprezzante dell’apologetica confessionale, descrive l’indomani del giubileo di papa Borgia così:
Dieci anni dopo il giubileo, nel 1510, un frate tedesco veniva pellegrino a Roma. Si chiamava Martin Lutero. Quali furono le sue impressioni romane? Egli le rivelò molti anni dopo, quando già aveva abbandonato il sacerdozio e si era dichiarato nemico della Chiesa cattolica e del Papa [...]. La sua avversione contro la Chiesa di cui era stato sacerdote confonde in una sola frenesia il Papa, l’Italia, Roma. La passione torbida che egli prova in sé e che diffonde nei suoi è insieme teologica e nazionale: Roma è la Babilonia maledetta, l’Italia è la terra dei briganti, della malaria, della empietà.
Una descrizione tutt’altro che originale, che ci conferma come la frattura confessionale del Cinquecento abbia generato due narrative perpetuamente divaricate; e abbia reso impossibile a un apologeta reazionario di seconda fila quattro secoli più tardi, di capire cos’era accaduto davvero allorché le indulgenze lucrabili nell’anno santo vennero vendute porta a porta in Germania per pagare la marmorea magniloquenza della basilica di San Pietro e lo scintillare dei suoi infiniti dettagli d’arte (che, con un colpo di genio tecnologico, sono stati enfatizzati a fine Novecento da una illuminazione anacronisticamente violenta, ma coerente con l’idea di moltiplicare i dettagli e il loro sfarzo).
L’irruenza polemica di Egilberto Martire infatti faceva parte di una consolidata tradizione narratologica: Tommaso Maria Alfani, un domenicano che nel 1725 scrive la sua Historia degli Anni Santi, non la vedeva in modo diverso:
Fu intorbidato questo Anno Santo dall’empia Eresia di Martino Lutero, la quale uscita fuori nel MDXVII, tentava più d’ogni altra cosa, d’abbattere le indulgenze col vano pretesto dell’abuso che se ne faceva.
Lutero, com’è noto, matura già prima del 1517 la sua critica alla prassi delle indulgenze e quindi il rigetto della corrispettiva dottrina; lo fa non a proposito di un anno santo, ma nel momento in cui Leone X, nel 1507, lancia una campagna di indulgenze a pagamento, propagandate da predicatori tanto efficaci quanto avidi.
Sul piano della devozione popolare, il mondo religioso del primo Cinquecento era ancora stabilmente ancorato alla visione classica del purgatorio, rappresentato dalle dantesche file di anime le cui colpe erano state sì assolte, ma che per le inadempiute penitenze attendevano in uno stato intermedio di sospensione: era consentito ai vivi poter riscattare da questa condizione i defunti, come questi “banditori” assicuravano, semplicemente pagando un’applicazione alle loro anime delle indulgenze, nelle forme dettate dalla Chiesa. La strofetta “quando il soldo ’n cassa ribalta, l’anima via dal purgatorio salta” spiegava in modo semplice una dottrina che convinceva a dirottare a questo nobile scopo ingenti risorse, sulle quali frati e vescovi incassavano una provvigione, e che per il resto venivano drenate dalla corte papale e dal cantiere di San Pietro, incrementando lo sfarzo pontificio che altri si procurava andando nel mondo divenuto globale con gli altri fatti del 1517 a prender oro e terre nel nuovo mondo.
Lutero inizia con una denuncia dell’abuso delle indulgenze che è ancora molto prudente nelle ultime delle sue “tesi”:
88. La Chiesa non riceverebbe un maggior bene, se il papa, anziché una sola volta, concedesse cento volte al giorno ad ognuno dei fedeli questo perdono e questa partecipazione?
89. Poiché il papa, per mezzo delle indulgenze, tende alla salvezza delle anime più che al danaro, perché sospende le lettere confessionali e le indulgenze precedentemente concesse, mentre sono ancora efficaci?
90. Soffocare queste pericolosissime argomentazioni dei laici con la sola forza e senza addurre ragioni significa esporre la Chiesa e il papa alle beffe dei nemici e rendere infelici i cristiani.
91. Se dunque le indulgenze fossero predicate secondo lo spirito e l’intenzione del papa, tutte quelle difficoltà sarebbero facilmente risolte, anzi non esisterebbero.
92. Addio, dunque, a tutti quei profeti che dicono al popolo di Cristo: “Pace, pace”, mentre pace non c’è.
93. Salute, a tutti quei profeti che dicono al popolo di Cristo: “Croce, croce”, mentre la croce non c’è.
94. Si devono esortare i cristiani a seguire con zelo il loro capo, Cristo, attraverso le pene, le morti, gli inferni.
Ma, come già traspariva da alcune delle tesi, il frate agostiniano approda ben presto alla denuncia della teologia che motiva le indulgenze. La dottrina di Lutero sulla giustificazione (che dal 1999, per l’accordo cattolico-luterano negoziato e siglato per parte romana dai cardinali Kasper e Ratzinger, è stata riconosciuta come perfettamente accettabile dal punto di vista cattolico) metteva in risalto la sufficienza della grazia che salva l’uomo peccatore e non semplicemente assiste la sua vana lotta per conquistarsi virtù o meriti. Le sofferenze patite dal Cristo e la testimonianza dei martiri non sono dunque una res a disposizione del papa, ma la manifestazione di ciò a cui si aderisce per fede e che in quella fede trova l’unica sicurezza consolante.
Bisogna attendere la sessione XXV del concilio Tridentino per trovare una riforma della prassi cattolica della indulgenza, basata sulla netta distinzione fra pena (che si cancella con l’indulgenza) e colpa (che solo Dio perdona al penitente). Il concilio stabilisce che spetta al sommo pontefice amministrare il “tesoro” e dispensarlo a tutti “piamente, santamente e incorrottamente”, ma domanda di tornare a una “moderazione” antica nel bandire l’indulgenza e condanna ogni tipo di “turpe lucro”, senza eccezione alcuna. Cioè fino al 3-4 dicembre 1563, data di quella sessione tridentina, la questione delle indulgenze rimane oggetto di conflitto, e due anni santi non possono che riproporre il problema della amministrazione materiale di questa pratica. Il primo, quello del 1525, viene indetto da Clemente VII nel pieno della crisi luterana: papa Medici preannuncia il suo giubileo al concistoro il 18 aprile 1524 e domanda una rigorosa osservanza dell’abito ecclesiastico, secondo le regole del Lateranense V, per dare a Roma un aspetto meno mondano e mettendo così la Chiesa al riparo dalle varie accuse.
Ma dall’imperatore Carlo V arriva proprio in quel periodo la richiesta di convocare il concilio e di convocarlo a Trento, con una dislocazione lontana da Roma che già un secolo prima aveva aiutato la ricomposizione dell’unità della Chiesa. Il papa, in realtà, non vuole proprio saperne di un concilio, e per di più a Trento: confida invece sul gioco politico e le relazioni diplomatiche che però gli sfuggiranno di mano. Al suo giubileo del 1525, indetto con bolla del 17 dicembre 1524, non partecipano molti pellegrini; e se Niccolò Machiavelli va a Roma e porta al papa le sue Istorie fiorentine; Lutero invece bersaglierà di critiche la bolla con l’opuscolo Vorrede an den christlicher Leser, auf des “Jubeljahrs” Bullen, in cui impugna il valore del pellegrinaggio e il culto dei santi. D’altronde il tentativo papale di far ispezionare le chiese per essere certi che i confessori si astenessero dall’estorsione (a questu) rivela la debolezza della situazione, che anche storici di corte, come Odorico Rinaldi, il continuatore degli Annali di Cesare Baronio, descrivono come funesta. È evidente che il papa ne è consapevole se mette, come titola la bolla del 1524, l’anno santo tra le sue sollecitudini, Inter sollicitudines. E anche i protestanti hanno le loro, ché nel 1525 la guerra dei contadini che seguono la predicazione di Thomas Müntzer agita l’intero continente e scatena una feroce campagna repressiva dei prìncipi ai quali Lutero fornisce argomenti teologici per cimentarsi nella guerra.
L’incertezza che percorre e segue l’anno santo 1525 finirà nel peggiore dei modi: con la presa di Roma da parte dei Lanzichenecchi, e il saccheggio della città iniziato il 6 maggio 1527; da queste truppe Clemente VII – “il più sventurato dei papi”, secondo lo storico tedesco Ferdinand Gregorovius – si mette in salvo per un soffio, asserragliandosi in Castel Sant’Angelo. Ma l’occupazione della città dà il senso di un’irreparabile catastrofe, nella quale, tra le altre rovine, subiscono profanazione le reliquie più venerande. Cose terribili si raccontano su ciò che subiscono le teste degli apostoli Pietro e Paolo, il cappio di Giuda, la lancia del centurione Longino, le sacre reliquie della Croce, il sudario della Veronica. Reliquie divelte, calpestate, disperse, defenestrate: salvo poi, per alcune di esse, riapparire. Come accade alla Veronica, per la quale nel 1675 il cardinale Francesco Barberini fa costruire una nuova cornice. Lo scempio delle reliquie resta quale traccia di un pellegrinaggio alla rovescia, lasciando quel senso di attesa, che si troveranno di fronte il concilio e il nuovo giubileo “di passaggio” del 1550.
L’anno santo di metà Cinquecento sarà aperto da Giulio III. In vista di quell’appuntamento il predecessore Paolo III era intervenuto (accadrà sovente, anche in seguito) per proibire gli sfratti e l’aumento degli affitti e prima di morire nel 1549 aveva visto Filippo Neri aprire l’ospizio di Trinità dei pellegrini. Ma quando il giubileo si celebra a Roma la fabbrica di San Pietro è ancora in piena attività, Michelangelo è all’opera e il Vasari, che è con lui a Roma, annota i dettagli di una città-cantiere, cavalcando con il Buonarroti da una basilica all’altra. Ma non sono solo le novità urbanistiche a segnare questo giubileo, che per tanti versi si presenta come il “primo dopo che” la riforma è entrata in scena e il primo celebrato “come se” la riforma non ci fosse.
Quello del 1550 è infatti il primo anno santo dopo l’avvio del concilio di Trento, indizio in sé di quanto Roma si sia rassegnata a una soluzione dolorosa e costosa della crisi religiosa. è il primo su cui sorveglia una istituzione giovanissima – la sacra congregazione del Sant’Ufficio ovvero della Inquisizione romana e universale – nata soltanto pochi anni prima, nel 1542, ma che segnerà profondamente il cattolicesimo. è il primo nel quale la Compagnia di Gesù di Ignazio di Loyola (che morirà nel 1556 quando la sua religio conterà ormai mille padri) dà il segnale che la Chiesa di Roma non organizza solo strutture di devozione, ma anche intelligenze e un nuovo rigore spirituale. Se ne sente il bisogno, perché solo pochi anni prima (nel 1542) la fuga del cappuccino Bernardino Ochino in terra protestante aveva sconvolto un’Italia che ne aveva adorato la predicazione, e la Declaratio iubilei futuri Romæ anno MDL di Pier Paolo Vergerio, compagno di Ochino, mostrava quanto gli argomenti usati nel propagandare e bandire indulgenze e giubilei apparissero del tutto fragili a coloro che erano in grado di vagliarne la consistenza (e non a caso fino al 1967 il papato si premura di rifinire e tornire con atti di diverso rango la dottrina “de indulgentiis”).
Ma quello del 1550 è anche il giubileo che rivela la resistenza invincibile della corte rinascimentale ad ogni riforma: è una società che vede il papa ammettere la celebrazione del carnevale, pur vietando che le maschere invadessero le chiese, e lo vede presenziare in teatro alla prima della Cassaria di Ludovico Ariosto e forse anche ai combattimenti di tori, che si svolgono in piazza San Pietro.

2. Il moderno

Bisogna attendere il 1575, sotto il governo del papa bolognese Gregorio XIII, per assistere al primo giubileo “moderno”, al cui inizio presenzia anche Carlo Borromeo. È l’anno santo in cui si rivisitano, all’interno di un cerimoniale semplificato, i passi e gli atti particolari: l’indizione nel giorno dell’Ascensione, il decreto sui prezzi, le norme di ordine pubblico e di decoro cittadino, l’apertura della porta, i riti nelle basiliche, un calendario di canonizzazioni quando possibile, la chiusura della porta col bricco d’oro murato, la cronachistica apologetica sui santi... Non per nulla Paolo Prodi ha scritto che con questo primo giubileo si avverte la sensazione di una “ripresa di Roma” e della sua Chiesa.
La conclusione del concilio di Trento ha infatti fornito il senso di una capacità di riforma della Chiesa romana sulla quale fino all’ultimo era lecito nutrire dubbi. La vittoria della flotta cristiana a Lepanto, avvenuta nel 1571 contro quella soverchiante ottomana, capitanata da Uluj-Alì, era apparsa miracolosa sul piano militare e tuttavia politicamente insufficiente a evitare che l’apostolica e imperiale maestà di Massimiliano II continuasse a pagare una sovvenzione alla Sublime Porta e che gli ambasciatori della corona d’Inghilterra concordassero con il sultano approdi e rotte per le loro navi: eppure aveva acceso l’eccitazione bellica del vincitore e dato il senso di uno scampato pericolo. Quell’evento influenza per secoli un immaginario cattolico che davanti a questioni difficili e al senso di essere soverchiato sogna una nuova Lepanto (sulla modernità, sul comunismo, sul relativismo) che non ci sarà come non ci fu. D’altronde anche il macello degli ugonotti protestanti perpetrata a Parigi dai cattolici nella notte di san Bartolomeo (tra il 23 e il 24 agosto 1572, giustappunto nel giorno del santo protettore dei macellai, e scelto con sbalorditiva noncuranza per una manifestazione di giovani cattolici che circondarono in una lunga catena umana la capitale francese nella GMG nel 1997...) verrà tramandato come una vittoria e uno scampato pericolo alla stregua di Lepanto: e che a quella strage riesca a sfuggire all’uccisione solo chi portava la crocettina d’argento sul petto o sulla berretta (usanza rimasta nel clero e nei fedeli cattolici) è una conferma che i simboli propri dei pellegrini romei continuavano ad avere un loro valore e a caricarsi di altri significati nel tempo.
Gli effetti di questo clima nuovo sul giubileo del 1575 sono vistosi: i romei accorrono numerosi a Roma; e ben 174.367 sono soltanto quelli ricoverati nell’ospizio di Trinità dei pellegrini di Filippo Neri. Il già citato Alfani parlerà di arrivi dai Balcani, dall’Arabia, perfino dalle Americhe; mentre l’abate Caetano, scrivendone la storia un secolo dopo, dice che per la prima volta ci fu una ...

Indice dei contenuti

  1. Prologo
  2. Dati
  3. Ingredienti
  4. Calcoli
  5. Sviluppi
  6. Balzo
  7. Bibliografia minima
  8. Anni santi ordinari e straordinari