Il fuoco sacro di Roma
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Il fuoco sacro di Roma

Vesta, Romolo, Enea

  1. 166 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il fuoco sacro di Roma

Vesta, Romolo, Enea

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Informazioni sul libro

Il più importante archeologo italiano racconta il rito del fuoco pubblico che ha coronato la fondazione di Roma.

A Roma la dea del fuoco pubblico era Vesta. Il suo culto è stato istituito probabilmente da Romolo intorno alla metà dell'VIII secolo a.C. Due secoli dopo Roma incoraggia su questo fuoco pubblico un mito fondativo più cosmopolita: sarebbe stato portato nel Lazio da Enea, che lo avrebbe salvato da Troia in fiamme. Il fuoco dei Romani è stato spento e riacceso dalle vestali ogni primo giorno di marzo nel corso di 1150 anni. Le sei sacerdotesse, strappate da bambine alla famiglia, dovevano conservarsi illibate per almeno trent'anni. In compenso veniva loro riconosciuto un rango elevatissimo ed erano le sole donne che a Roma possedessero una piena capacità giuridica.Andrea Carandini e la sua scuola hanno ricostruito il santuario di Vesta e parte del circondario, contribuendo in modo fondamentale alla comprensione del centro sacrale, istituzionale e culturale della città-stato. Grazie a uno scavo durato un trentennio è stato possibile analizzare la radura o lucus di Vesta, i luoghi di culto dei Lari, di Marte e Ops, di Giove Statore, e conoscere le capanne e le case delle vestali, dei re e dei massimi sacerdoti della città-stato.Raccontare la storia di questo cuore urbano a un vasto pubblico è la ragione del libro. Non sarà più possibile una storia di Roma che ignori le scoperte di questo scavo condotto alla pendice settentrionale del Palatino.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858128602
Categoria
Archeologia

1.
Ragioni e passioni
di un archeologo

Secondo Mary Beard, brillante professoressa di storia antica a Cambridge, sarebbe imprudente ricostruire le fasi del santuario di Vesta a Roma, perché il luogo avrebbe sofferto incendi1. Avrebbe dovuto distinguere la casa (atrium) delle vestali a partire da Nerone e dai Flavi, successiva all’incendio del 64 d.C. e quindi abbastanza ben conservata, dalla radura (lucus) delle vestali precedente quell’incendio, che ha sofferto assai di più le ingiurie del tempo e degli uomini. Ma è possibile sostenere che la Roma prima del 64 d.C. è persa per sempre, che Londra prima della conflagrazione seicentesca è del tutto ignota? Assurdità, queste, per un archeologo! Nonostante distruzioni e ricostruzioni, incendi e terremoti, rimane del passato stratificato quanto basta per intenderlo per chi abbia voglia di ricostruirlo, usando indizi monumentali e fonti letterarie di diverso genere. Mentre mai nulla resta abbastanza per coloro che questo desiderio non provano, che dai monumenti rifuggono per esclusivo amore delle fonti scritte. Infatti sono eccezionali nella città le asportazioni complete, che non abbiano lasciato indizio alcuno.
Bisognerebbe aggiungere che l’archeologo classico tradizionale si fermava generalmente non lontano dalla metà del VII secolo a.C., quando scomparivano i muri costruiti in materiali solidi, perché non giungeva a percepire gli edifici alto-arcaici, realizzati con materiali effimeri, come pali di legno, argilla cruda e strami, che invece gli stratigrafi di oggi sono in grado di identificare, prolungando così di secoli la storia del sito di Roma e consentendo di identificare la transizione tra il centro proto-urbano e la città.
Similmente, in India mancano templi e palazzi in pietra precedenti il nostro Medioevo, perché prima venivano edificati in legno; qualcosa di analogo accade in Egitto, dove per la stessa ragione è raro rinvenire i palazzi dei faraoni. Le città possono essere intese da archeologi curiosi, pazienti e preparati, non da umanisti supponenti che giudicano senza nulla sapere del terreno.
Sono nato in una stanza solatia rivolta al Palatino. Passeggiavo sovente da bambino con i genitori su quel monte e intorno ai nove anni ho fatto due sogni archeologici, che ho capito solo vari decenni dopo2. Da adulto sono tornato sul Palatino per scavarlo, e sono riuscito a farlo nel corso di una generazione, aiutato da centinaia di giovani: l’archeologia sul campo è un lavoro corale. Nessuna prospettiva di vita pratica mi ha mai sedotto, nonostante provenissi da uomini di azione. Così ho fatto una scelta strana, che veniva incontro più alla morte che alla vita.
L’archeologo è un appassionato della totalità del reale che gli uomini hanno lasciato dietro a sé, e più difficilmente si muove nella vita che pullula intorno a lui. Gli è mancato un iniziatore all’attualità e così si è rifugiato nel ventre da cui tutti veniamo, la terra. L’ordine in cui si sono stratificate strutture e oggetti consente all’archeologo di farli rivivere grazie al fatto che lui, per darsi una forma alternativa di vita, si è dedicato a quella di coloro che più non possono competere con lui, resuscitandola. L’ottica dell’archeologo è molto diversa da quella dello storico dell’arte, che estrae dalla totalità le cose irripetibili che hanno un valore estetico3. Così come, quando viviamo, non ci serviamo solo di oggetti sublimi, curando nel quotidiano anche i minimi strumenti, analogamente l’archeo­logo cerca contesti e non antologie, separa a fatica poesia da non poesia. Egli si appropria di questa considerazione di Friedrich von Hayek, del 1988:
Il modo in cui abbiamo imparato a organizzare la nostra giornata [...], a usare gli innumerevoli [...] mezzi e strumenti della civiltà, tanto quanto il know-how della produzione e del commercio, forniscono costantemente le basi dei nostri contributi al processo di civilizzazione. Proprio nel nuovo uso e miglioramento di qualsiasi prodotto offertoci dalla civiltà nascono le idee nuove che alla fine vengono discusse nella sfera intellettuale [...] Il flusso di idee nuove scaturisce in gran parte dalla sfera in cui l’azione spesso non razionale e gli eventi materiali a vicenda si scontrano. Questo processo s’inaridirebbe se la libertà fosse limitata alla sfera intellettuale.
Intorno alla metà degli anni Ottanta, dopo vari scavi in Italia centrale e in Africa settentrionale, ho cominciato a scavare la pendice settentrionale del Palatino, tra l’Arco di Tito e il Foro. L’ho smontata e mentalmente ricomposta nei suoi numerosi periodi e parti grazie all’opera di tanti giovani nel corso degli ultimi trent’anni. Uno scavo archeologico somiglia alla costruzione di una cattedrale alla rovescia: tante mani smontano tante cose a un unico fine: conoscere la storia di un luogo come nessun antico è mai riuscito a farlo, neppure l’eruditissimo Varrone (116-27 a.C.). Infatti il metodo archeo­logico è una scoperta della modernità.
Siamo partiti dall’altura e dai livelli imperiali (quelli medievali erano stati già in parte asportati), là dove il monte Velia si congiunge al Palatino grazie a una sella, e siamo scesi a valle, verso il Foro e i primordi, fino a raggiungere prima il murus sanctus del Palatino di età romulea, con la porta Mugonia, e poi la sacra radura (lucus) di Vesta, che era parte del complesso del Foro: segni vistosi entrambi che Roma era nata4. Lo stretto nesso cronologico tra il murus e il lucus Vestae – indizi principali della città già sorta – costringe a interpretare il murus sanctus in chiave cittadina e statale. Infatti dove è il fuoco comune di Vesta lì è la città e dove le mura cingono il Palatino alle sue radici siamo nel sistema urbano di Romolo. La proto-città, invece, conosceva solamente focolari familiari e di quartiere.
Una radura sacra è una porzione di bosco (nemus) in cui gli alberi sono stati recisi (lucus), consacrata a un nuovo dio o a una nuova dea come Vesta. L’atto recava ai primitivi e sovente sconosciuti numi originari del luogo un oltraggio che andava riparato, espiato con un sacrificio. Sia le mura del Palatino (775-750 a.C.), sia la radura sacra posta subito al di fuori di esse (750 a.C. o poco dopo) e il loro primo periodo di vita rientrano nei secoli VIII e VII: un tempo rimasto in gran parte oscuro fino alla generazione scorsa e che il nostro scavo ha invece ampiamente documentato, grazie alla capacità di riconoscere e scavare le strutture effimere che caratterizzano i primi due secoli della città-stato.
È il tempo in cui Roma è stata fondata da Romolo, prima da solo e poi con Tito Tazio, in seguito perfezionata da Numa e da Tullo Ostilio, distruttore quest’ultimo della montuosa Alba, prima metropoli dei Latini. Anco Marcio, al contrario, già accoglie e preconizza i Tarquini e prefigura la futura potenza della città, ormai egemone nel Lazio e che ha acconsentito di avere al suo fianco una seconda metropoli dei Latini a Lavinium, affacciata sul mare (fig. 35).
Nel 1985 la pendice settentrionale del Palatino era quasi del tutto ignota, soprattutto nelle sue vaste profondità. Il sottosuolo di Roma è ancora in gran parte sconosciuto e là dove è noto viene considerato di rado integralmente, fino al terreno vergine, dove finisce la storia degli uomini e ha inizio quella della terra.
Così la maggioranza dei monumenti emersi, intesi per lo più isolatamente ed episodicamente, attende a tutt’oggi uno studio adeguato e un’edizione scientifica, come per esempio il Colosseo. Storici dell’arte antica e archeologi sfiorano sovente i monumenti più che analizzarli a fondo, quasi pensando che parlino da soli – quale illusione! – e arrestandosi nello studiarli e nel ricostruirli proprio là dove comincia la parte più interessante e affascinante della ricerca, quella in cui la mente dà finalmente un significato alle numerose e in sé noiosissime descrizioni.
Le rovine di Roma, immani e magniloquenti, hanno portato a un’archeologia complessivamente assai pigra, approssimativa e superficiale – quella degli antiquari senza cultura che Leopardi tanto ha criticato nell’infelice soggiorno a Palazzo Mattei –, come se di fronte alle stupefacenti apparenze si potesse rinunciare a curare i dettagli. Eppure l’anatomia di un elefante richiede non meno precisione di quella di un insetto.
Per questa ragione ci siamo dedicati a elaborare un «sistema informativo», un Atlante di Roma antica virtuale, che ha avuto anche una sua versione cartacea5. Esso ha, e continua ad avere, lo scopo di colmare la immane lacuna di sapere venutasi a creare nel corso di oltre un secolo, dopo quell’astro fulgente di intelligenza anticipatrice che è stata la Forma Urbis Romae (1893-1901) di Rodolfo Lanciani. Ci siamo avvalsi delle più sofisticate innovazioni informatiche per servire le più sofisticate necessità metodologiche e storiche, ponendo così fine a 120 anni di studi tanto interessanti quanto minuti e sparpagliati, sostanzialmente inutili per la collettività.
Roma è soggiogata da un numero straordinario e disparato di funzionari che agiscono sul suo patrimonio a volte come feudatari più che come servitori di un bene comune globale. Così Roma antica si è trasformata in un cumulo immane di ...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. I. Vesta e Romolo
  3. 1. Ragioni e passioni di un archeologo
  4. 2. Uno scavo nel cuore di Roma
  5. 3. Hestia e Vesta, il focolare e il fuoco
  6. 4. Accendere un fuoco, fondare una città
  7. 5. Vesta nei miti, prima di Roma
  8. 6. Generare un eroe fondatore
  9. 7. Vesta e i riti fondativi a Roma
  10. 8. Tra Vesta e Vulcano, il Foro
  11. 9. Un bosco e una radura per Vesta
  12. 10. La casa di Vesta e il Prytaneion di Atene
  13. 11. Lares e Penates
  14. 12. Aspetti verginali, matronali e virili delle vestali
  15. 13. Le feste delle vestali
  16. 14. Privilegi regi e giuridici delle vestali
  17. 15. Incarnazioni di Roma e capri espiatori
  18. 16. Il serpente, il dragone, la fine
  19. 17. Serve di stato e spose di Cristo
  20. II. Vesta ed Enea
  21. 1. Formazioni e fondazioni
  22. 2. Piccolo mondo antico
  23. 3. Grande mondo in vista
  24. 4. Grande mondo arrivato
  25. 5. Primo e secondo falso, a Lavinium
  26. 6. Terzo falso, a Roma
  27. 7. Quarto falso, a Roma
  28. 8. Manifesto del Foro di Augusto e visione dell’Eneide
  29. 9. Un programma culturale universale
  30. Bibliografia
  31. Ringraziamenti
  32. Immagini
  33. Referenze iconografiche