L'artificio e l'emozione
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L'artificio e l'emozione

L'attore nel teatro del Novecento

  1. 208 pagine
  2. Italian
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L'artificio e l'emozione

L'attore nel teatro del Novecento

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Luigi Allegri, ripercorrendo le teorie novecentesche sull'attore, da Stanislavskij a Mejerchol'd, da Brecht a Grotowski, le scopre attraversate da due grandi correnti: chi chiede all'attore una partecipazione esistenziale prima ancora che professionale e chi lo considera soprattutto un consapevole utilizzatore di tecniche. Polarizzazioni, entrambe, che recuperano all'attore del Novecento centralità creativa e uno statuto originario di corporeità, grande rimosso del teatro ottocentesco.

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La contrapposizione primaria: “verità” o “artificio”

Il patrimonio comune

Dobbiamo abbandonare l’idea che esistono azioni naturali o innaturali, e suddividere invece le azioni in necessarie e inutili. Se un’azione è necessaria a un certo punto, si può dire che in quel momento è l’azione naturale (trad. F. Marotti).
Nel 1907, nel saggio Gli artisti del teatro dell’avvenire, poi confluito nel 1911 in quella sorta di manifesto del teatro anti-naturalistico che è On the Art of the Theatre, Edward Gordon Craig imposta – e in questa prospettiva genialmente risolve – la questione cruciale del rapporto della cultura teatrale novecentesca con il lascito teorico del Naturalismo. Una volta sganciato il teatro dalla tradizionale funzione di rappresentazione della realtà, una volta abbandonato il traguardo della “naturalezza” come metro di giudizio, l’unico parametro che resta sul campo è appunto quello della “necessità” estetica. Se non c’è più alcun modello da copiare, alcuna realtà quotidiana cui avvicinarsi, resta solo l’intenzionalità artistica a dettare la forma dell’azione. Dovendo trovare un denominatore comune alle teorie novecentesche sull’attore, la posizione così lapidariamente disegnata da Craig potrebbe costituire un buon punto di partenza. Ma forse non si potrebbe andare tanto oltre, nella ricerca di punti sufficientemente condivisi, perché nel Novecento la cultura, non solo teatrale, è assai diversificata e discontinua.
Agli storici piace spesso definire il Novecento come “il secolo breve”, intendendo che sul piano degli avvenimenti storici e politici gli anni della Belle Époque fino alla prima guerra mondiale e alla Rivoluzione russa del 1917 appartengano idealmente ancora all’Ottocento e l’ultimo scorcio, dalla caduta del muro di Berlino nel 1989, sia l’inizio di una nuova epoca ancora non definita. Nel campo specifico della storia della cultura, tuttavia, il Novecento appare un secolo molto lungo, con un profilo frastagliato e una cronologia incalzante, in cui i movimenti e gli eventi si manifestano e si susseguono nel giro di pochissimi anni, con una rapidità prima inusitata. Ma non solo gli eventi, anche le teorie manifestano il medesimo andamento, con fenomeni di derivazione l’una dall’altra, o più spesso di contrapposizione reciproca, ma in un contesto continuo di contemporaneità e di sovrapposizione.
Se poi vogliamo affidarci alla magia delle date simboliche, il Novecento a teatro può addirittura iniziare nel 1896, data della prima dell’Ubu re, come abbiamo visto. Ma più in generale è proprio in quel periodo cruciale tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento che entrano in crisi i linguaggi tradizionali di tutte le arti, dalla letteratura alla pittura, dalla musica al teatro, per cui la ricerca di nuovi linguaggi porta a proposte continue e spesso contraddittorie. Eppure è lì che nascono tutti i fermenti che alimenteranno le forme del Novecento.
Il punto di partenza è la rivendicazione esplicita di dignità estetica e di autonomia creativa per chi opera direttamente sulla scena, regista, scenografo o attore che sia. Il modello tradizionale che viene contestato, e che per molti aspetti ha ancora corso nella cultura corrente, è che la messa in scena non sia che un’attività ancillare e subordinata, rispetto alla scrittura drammaturgica, vero luogo della creazione artistica. È il drammaturgo l’origine e il centro di tutta l’operazione, è nel testo che si trova il deposito di senso, è lì l’“arte”, e tutto quanto è successivo viene appunto dopo, non solo cronologicamente ma anche gerarchicamente, non ne è che una derivazione e dunque non può che essere al servizio del testo.
Se riduciamo questa impostazione teorica a schema, possiamo immaginare il processo come una serie di travasi, dal testo all’ipotesi registica (o comunque all’ipotesi di chi si assume la responsabilità della messa in scena), dall’ipotesi registica alla realizzazione (col lavoro di attori, scenografi, tecnici, ecc.), dalla realizzazione alla fruizione dello spettatore. Ma ad ogni travaso una parte del contenuto si perde, perché il regista non capirà mai tutto del testo che affronta e comunque ne sceglierà consapevolmente una interpretazione parziale; e poi gli attori e lo scenografo, per incapacità o per insufficienza di mezzi, non potranno mai realizzare tutto ciò che era nella mente del regista; e alla fine nessuno spettatore, nemmeno il più colto e consapevole, potrà mai cogliere tutti i significati inseriti da regista e attori nello spettacolo. Col risultato che al termine del processo la quantità e la qualità del senso recuperata dallo spettatore sarà poco o tanto (molto spesso tanto) inferiore a quella prodotta all’origine dal drammaturgo.
È un ragionamento di questo tipo, anche se espresso in maniera meno brutale, che sta ad esempio alla base del sospetto in cui Pirandello tiene il teatro, proprio perché l’esito finale sfugge al controllo del drammaturgo, e risulta alla fine inquinato dalla materialità volgare della scena e degli attori. E non a caso Pirandello usa il termine di «traduzione scenica» per definire il lavoro dell’attore, assimilando appunto questo lavoro a quello ancillare del traduttore, che deve soltanto rendere in un’altra lingua un mondo poetico di cui non è l’autore, vietandosi necessariamente ogni velleità estetica e ogni autonoma valenza simbolica, che si possono apprezzare appieno solo nell’originale. Anche le traduzioni sceniche dell’attore, dunque, più o meno “fedeli” che siano, non potranno che essere inferiori all’originale iscritto nel testo, come Pirandello scrive esplicitamente, nel saggio Teatro e letteratura, del 1918:
Perché, se ci pensiamo bene, l’attore deve fare e fa per forza il contrario di ciò che ha fatto il poeta. Rende, cioè, più reale e tuttavia men vero il personaggio creato dal poeta, gli toglie tanto, cioè, di quella verità ideale, superiore, quanto più gli dà di quella realtà materiale, comune; e lo fa men vero anche perché lo traduce nella materialità fittizia e convenzionale d’un palcoscenico. L’attore insomma necessariamente dà una consistenza artefatta, in un ambiente posticcio, illusorio, a persone e ad azioni che hanno già avuto un’espressione di vita ideale, qual è quella dell’arte e che vivono e respirano una realtà superiore.
«Persone». Come se i personaggi fossero persone reali e come se il palcoscenico fosse il luogo in cui si manifestano i personaggi-persone e non il luogo in cui lavorano gli attori. Basterebbe del resto leggere in questa prospettiva la complicata macchina drammaturgica dei Sei personaggi in cerca d’autore, un testo che ha avuto diverse stesure tra il 1921 e il 1925, con quei Personaggi che vogliono vivere la loro storia “al di qua” dell’interpretazione degli attori, i quali possono solo mettere in bella copia la loro vicenda, «rimessa in bello» come dice una didascalia del testo, ma nella sostanza la immiseriscono «in nome d’una verità volgare, di fatto», come chiosa sconsolatamente il Padre, il personaggio che più di altri sembra riportare le opinioni dell’autore. Pirandello, attraverso le parole del dottor Hinkfuss di Questa sera si recita a soggetto, vorrebbe «personaggi che, per prodigio, assumessero corpo e voce» e direttamente, senza la mediazione degli attori, si presentassero al pubblico, mettendo dunque in comunicazione diretta l’autore e gli spettatori, e così censurando tutto il lavoro teatrale che sta in mezzo, visto come il luogo dell’approssimazione, della perdita di senso, della contingenza degradante, della volgare materialità.
Ebbene, in questo, Pirandello si palesa uomo dell’Ottocento. Perché la cultura teatrale del Novecento, a partire proprio dai teorici dei primi decenni del secolo, individua la specificità del lavoro teatrale proprio in quello spazio che Pirandello vorrebbe rimuovere, quella scena e quel lavoro d’attore che sono appunto il luogo di una creatività autonoma, che risponde ad altri canoni estetici e a logiche che non sono solo quelle della rappresentazione il più possibile fedele delle istanze del drammaturgo. Come argomenta argutamente Gordon Craig, con un ragionamento che è quasi un sillogismo: il testo teatrale è sicuramente arte, e appartiene alla letteratura; il teatro, a sua volta, o è un’arte o non la è; ma se la è non può essere nello stesso tempo un’arte (teatrale) e un’altra (letteraria); dunque l’arte teatrale deve risiedere in un luogo diverso dall’arte letteraria e dunque dal testo drammaturgico.
Oggi useremmo altri termini, ad esempio spenderemmo con meno dovizia il termine “arte”, ma la questione, nei suoi termini generali, è ancora questa. È la scena, dunque sostanzialmente il lavoro dell’attore (e del regista, quando c’è), il luogo in cui il teatro “è”, in cui elabora i suoi canoni specifici. E proprio per questo il modello lineare del travaso progressivo di senso risulta inadeguato e fuorviante. Perché il senso non sta tutto nel momento iniziale, quello del testo, ma viene prodotto ad ogni momento del processo, perché ad ogni momento c’è una creatività specifica che si attiva e apporta senso all’intera operazione. Così lo spettatore potrà sì perdere tanto o poco dei significati del testo ma in compenso acquisirà, in termini di senso e di emozioni estetiche, tutto quanto prodotto dalla creatività, specificamente teatrale, del regista, dello scenografo, soprattutto dell’attore. Tanto che molti protagonisti della cultura teatrale del Novecento rinunciano espressamente alla centralità del testo, a volte lo eliminano del tutto, spesso lo manipolano, lo riducono insomma a mero materiale tra gli altri, al servizio di una creatività che è esclusivamente quella prodotta nell’evento scenico.
Il punto di svolta è proprio nel distacco, tra ultimissimi anni dell’Ottocento e inizi del Novecento, dalla già ricordata posizione di André Antoine, che pure è metteur en scène in senso pienamente moderno, il quale subordinava ogni operazione e ogni invenzione registica alla fedeltà al testo, al cui servizio poneva anche il lavoro degli attori, che del resto, come asseriva, nemmeno erano in grado di comprendere cosa stessero recitando. Nessuna autonomia era dunque prevista per gli interpreti e l’unica rivendicazione di creatività era per il regista, che tuttavia assumeva un ruolo di consapevole illustratore dell’universo teatrale iscritto nel testo. Ma già in quegli stessi anni, o negli anni immediatamente successivi, i teorici e i registi iniziano a porre il problema dell’autonomia della scena in termini molto più ampi, rivendicando spazi di creatività, oltre che per il regista, anche per gli altri operatori della scena, attore compreso, e rifiutando nel contempo questa assoluta dipendenza dal lavoro del drammaturgo.
All’interno di questa questione più generale, un tema interessante, perché significativo, mi pare quello particolare del rispetto delle didascalie, quelle esplicite indicazioni “registiche” che accompagnano i dialoghi in un testo teatrale. La didascalia, che è consueta nella drammaturgia moderna e contemporanea, non lo era affatto quando il problema dell’autonomia della messa in scena nemmeno si poneva. In certi casi perché allo scrittore non si chiedeva che di dettare i dialoghi, mentre l’allestimento era affare di altri, come avveniva, che so, in certi grandi spettacoli del Medioevo cristiano o anche nella pratica di scrittura dell’Ottocento italiano prima della definizione delle regole del diritto d’autore. In altri casi, più frequentemente, perché il drammaturgo sovrintendeva personalmente allo spettacolo, come era prassi per i tragici greci o per Plauto, per Shakespeare o per Molière. È quando le due funzioni si separano e il drammaturgo scrive per così dire a priori, abbandonando il proprio testo all’arbitrio di soggetti che non è in grado di controllare, che la didascalia diventa lo strumento con cui lo scrittore tenta di iscrivere nel proprio testo anche le prescrizioni per ogni messa in scena futura, e dunque specifica dettagliatamente arredamento della scena, costumi, movimenti degli attori, espressione dei volti, intenzionalità con cui devono essere pronunciate le battute.
Già nell’Ottocento la questione impegna gli scrittori romantici come Victor Hugo o gli autori del grande dramma borghese come Ibsen o Čechov, e diviene in certo senso ancora più urgente nel Novecento, almeno per autori come Pirandello, che come abbiamo visto è molto restio ad abbandonare il mondo poetico scaturito dalla sua fantasia alla degradante convenzionalità degli allestitori italiani del suo tempo. Per questo Hugo e Ibsen, Čechov e Pirandello scrivono didascalie sempre più dettagliate, nell’intento di pre-scrivere, oltre alle battute di dialogo, anche la ricostruzione scenica delle proprie opere. Fino all’esito paradossale, nel secondo Novecento, di Samuel Beckett che, con gli Atti senza parole, scrive testi che sono solo didascalia, partitura di gesti e di azioni molto prescrittive senza una parola di dialogo.
In questa sorta di “lotta per la supremazia” tra drammaturgo e operatore della scena, il rispetto o meno delle didascalie diventa un nodo fondamentale. Già Stanislavskij, alla ricerca di un “realismo” sempre più spinto, lo si è visto, fa inquietare Anton Čechov, inserendo nello spettacolo quei rumori di fondo che diventeranno proverbiali, il gracidare delle rane o l’abbaiare dei cani. Oppure entra in scena, interpretando il personaggio di Trigorin nel Gabbiano, con un fazzoletto annodato sulla testa che contravviene alle indicazioni del testo e manda su tutte le furie il drammaturgo. Anche se poi è anche grazie a queste trasgressioni che la pièce ottiene un clamoroso successo, dopo il fiasco di qualche anno prima. Lo stesso Pirandello, che pure non lo riconoscerà mai, trae vantaggio da trasgressive invenzioni registiche, come quando Georges Pitoëff nel 1923 fa arrivare in scena i Personaggi dei Sei personaggi in cerca d’autore da un montacarichi, anziché normalmente dalle quinte come aveva previsto l’autore nella stesura del 1921, ottenendo proprio l’effetto auspicato da Pirandello, di presentare entità che sembrano venire da un altro mondo (e la stesura del 1925 ne accoglierà implicitamente l’indicazione, facendo entrare i Personaggi dal foyer, attraverso la platea).
Un caso esemplare è poi quello di Gordon Craig, che, ancor prima di rivendicarla negli scritti teorici, esplicita la necessità di autonomia della messa in scena trasgredendo clamorosamente le didascalie di un testo giovanile di Ibsen, I guerrieri di Helgeland, messo in scena nel 1903. Ibsen, come suo costume, scrive didascalie molto precise, che prevedono ad esempio, nel primo atto, «un’alta costa, che in fondo scende ripida al mare. A sinistra un capanno di legno, a destra rocce e boschi di conifere. Giù nella baia si vedono gli alberi di due navi da guerra; a destra, in lontananza, isolotti scogliosi; il mare è molto agitato. È inverno; nevischio e bufera». Craig costruisce invece solo una scena di coste grigie e di rocce, praticabili, con un fondale blu. E nel secondo atto, in luogo di una sala da festa piena di porte con al centro «un focolare in muratura» con fuoco ardente, «due tribune per le donne» in fondo e lunghe tavole con panche ai lati, il regista monta una scena circolare senza porte, con le pareti formate da strisce grigie di stoffa, un’ampia pedana rotonda con ai lati una tavola circolare e un’unica grande gradinata frontale.
Questa sorta di prosciugamento dei dati realistici della scena, alla ricerca di una essenzialità simbolica che nulla deve né alle indicazioni dei drammaturghi né alle convenzioni teatrali dell’epoca, diventerà poi un tratto costante dell’azione registica di Craig, come esemplarmente si vedrà nel famoso Amleto del 1911 a Mosca, in cui la scena è costruita solo da pannelli mobili, gli screens, che articolano ogni spazio necessario all’azione. Nel frattempo il regista aveva teoricamente enunciato la sua posizione in un dialogo fittizio tra un regista e uno spettatore intitolato L’Arte del Teatro, scritto nel 1905 e poi confluito nella già ricordata raccolta di scritti pubblicata nel 1911 (tradotta in italiano col titolo Il mio teatro), in cui sostiene: «Quanto alle direttive sceniche, alle descrizioni degli ambienti ecc., di cui l’autore può aver infiorato il testo, [il regista] non ne terrà alcun conto, perché, se è padrone del suo mestiere, non gli potranno essere di alcuna utilità».
Naturalmente, queste rivendicazioni di libertà espressiva, che qui abbiamo esemplificato con le soluzioni registiche della messa in scena, si trasferiscono, per tutti gli operatori teatrali del Novecento, anche alla recitazione degli attori. Pur se con modalità differenti, a volte anche opposte. Sono le mille “idee di teatro” della cultura contemporanea, che si contendono l’eredità dell’ultima grande idea di teatro realmente condivisa e in certo senso universale, che è quella naturalista. Ma nessuna di queste teorie novecentesche riuscirà mai a imporsi sulle altre e a fondare l’idea di teatro del Novecento. Il teatro del Novecento è un mosaico, o un quadro cubista che sovrappone visioni prospettiche diverse e contrastanti, o una sinfonia di dissonanze. Per ragioni di chiarezza espositiva, daremo conto, isolandole l’una dall’altra, delle tessere maggiori di questo mosaico, o dei principali punti di vista prospettici, chiedendo tuttavia al lettore di conservare la consapevolezza della loro parzialità e dell’insieme sostanzialmente contraddittorio che ne risulta.
A mo’ di inquadramento generale, partiremo da quella che mi pare una contrapposizione fondamentale. Da una parte l’attore-interprete, che instaura un rapporto molto stretto col personaggio e per questo si serve di una recitazione che necessariamente fa leva sulla credibilità psicologica, alla ricerca di una “verità” che viene soprattutto dalla sua interiorità. Dall’altra parte un attore che rifiuta la credibilità e la verosimiglianza, cosciente del proprio essere l’agente e il perno di una realtà “artificiale” come il teatro, e dunque propone una recitazione non realistica, basata più sull’azione fisica e sulla corporeità che sulla introspezione psicologica. I campioni di queste due sommarie tipologie sono esemplarmente individuati in Stanislavskij e Mejerchol’d, forse i maggiori teorici (e registi) della cultura teatrale contempora...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Introduzione. Preliminari e perimetri
  3. Le forme della tradizione
  4. La rottura della tradizione
  5. La contrapposizione primaria: “verità” o “artificio”
  6. Il catalogo delle teorie
  7. Il catalogo delle forme
  8. Nota bibliografica