Amazzonia
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Amazzonia

Viaggio dall''altra parte del mare

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Amazzonia

Viaggio dall''altra parte del mare

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Informazioni sul libro

Questo non è un libro di viaggio, un testo giornalistico o un saggio, è un misto. È la storia vera delle storie vere raccolte in anni di viaggi solitari. È l'Amazzonia dall'immensa geografia, foresta-continente, inferno verde e paradiso perduto di banditi e di eroi che cercano un futuro. Ma è anche la vicenda di uno che, dieci anni fa, cominciò a viaggiare, in Colombia, Perù, Bolivia, Ecuador, Venezuela, e soprattutto in Brasile. E non è riuscito più a fermarsi.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858117835
Categoria
Viaggi

1. Città e foresta

Cartina.
Subject: messaggi dall’aldilà (di un mare)
Time: 02:01:23 +0200 (CEST)
From: Yurij Castelfranchi
To: <queridos_b>
CC: <undisclosed recipient>
Mammiferi cari,
un messaggio per voi. In bottiglia, scritto sotto la luce gialla della stazione dei bus di Rio de Janeiro.
A Roma non ho avuto modo di salutare. Alcuni di voi non avevano idea che stessi per viaggiare di nuovo, altri non saranno in grado di ricordare chi sia il mittente. Eppure eccomi, ancora una volta, aldilà di un mare. Ed eccovi, nolenti, iscritti alla mia lista privata, profluvio dei brasi-byte. Decidete se volete lo spamming: chi tace acconsente e riceverà i biglietti in bottiglia. Sono lettere, così, per farvi sentir meno soli sulla zattera che chiamiamo Europa.
Ecco le coordinate. Ieri da Roma verso Madrid. In petto, l’euforia che ti prende quando vedi il mondo scivolar via da un finestrino. Sotto pelle, la paura, blanda, sinuosa, di quando sei sotto esame o decolli in parapendio. Ai piedi, la voglia di lasciare strie sul linoleum degli aeroporti, pestare sul marmo appiccicoso di un fast food, scivolare sull’asfalto sudicio delle bancarelle in strada, sul parquet di un hotel sbagliato. Alle due del mattino lo scalo. Ritardo per arrivare, attesa di ore per il prossimo volo. Nel sonno, un sorriso al mio fianco. La guardo e ci scopriamo uguali nella malattia: Gwen, ventenne di Salisburgo, deve tornare in Brasile. Da sola. Come devo io e come devono tanti, tirati per la collottola da una saudade che ti si annida dentro come un verme solitario. Saltiamo insieme ventimila piedi sopra l’equatore e sbarchiamo a Rio all’alba, nel magone dolce di sentirci di nuovo in Bra: fra amori e omicidi, droga e colibrì. Così lontani da casa, così vicini a una casa che sentiamo in petto. Sappiamo di essere amici, un po’. Non ci rivedremo più.
Assonnato, mi faccio largo, in un zigzaghìo di “no grazie” fra i procacciatori di qualquer coisa. Un tassista, safadinho, vuole portarmi in albergo, in spiaggia, in banca, sulla Luna forse. Poi vuole convincermi che non mi convengono dieci minuti a piedi per cambiare i travel cheques, e che invece gradirò fare mezz’ora in taxi e cambiarli a Copacabana. Rido: “e aí, fratello, ti sembro tipo da Grand Hotel?”. Ride pure lui, non sono più preda. Mi saluta indicandomi il modo per cambiare senza pagare la commissione. Corro in bus per Rio e la ricordo come si ricorda un film vedendone il trailer: i viadotti tristi, con i barboni e i bambini di strada a dormire sotto, la polizia militare in pattuglia, le favelas arroccate. I mercati, arcobaleno di destini, che si agitano a ritmo di musica. Nei pochi secondi del sipario che si apre dal finestrino del bus, guardo dall’alto la gente che corre, vende, tratta, imbroglia. Ovunque bancarelle, tende e baracche annidate le une sulle altre, come in un’incisione di Escher, o come felci, bromelie e orchidee sui tronchi di foresta. Sento e vedo un gridar di megafoni e musiche, amplificatori degni di un rave accesi a vendere spugne, pentole, erbe medicinali. Due vecchietti suonano un samba triste sotto una tenda, poco più in là due giovanotti con la chitarra e il cappello da cowboys a gridare in dupla sertaneja, e poi un palco con il gruppo di forró, pronto per il concerto. Alle dieci del mattino! E, ovunque: un anziano che beve un bicchierino di cachaça, donne a trascinar via bimbi che indugiano a rubare una parolaccia nuova, a chiedere una rapadura, a spiare due ubriachi che litigano. Penso che sì, ora è Bra. Tutto è come da noi, mondo cugino, e tutto è diverso, perché immerso nel giallo e nel blu di un universo profondo e giovane, ricco e ingiusto. Arrivo alla rodoviaria, la stazione dei bus, affollata come ogni giorno dell’anno in ogni città del Brasile. Ragazzi e ragazze col vestito buono, mamme, nonne, bambini: a partire e piangere, salutare, aspettare. Per cercare con lo sguardo lui o lei che arriva – dopo chissà quanto tempo – o che se ne va, chissà fino a quando. E il pop corn dolce, i churros fritti, la baracca che vende il piatto fisso di riso, fagioli e carne. E gli scatoloni di cartone con dentro un regalo, un sogno, un televisore o una vanteria da mostrare a casa.
Salgo sul mio onibus. Vi racconterò di qui, mammiferi amici. Vi porto con me, invisibili. A passeggio per Rio e sulle isole del litorale, a conoscere la foresta atlantica. Poi a São Paulo l’immensa, la selva d’asfalto e acciaio. E a nord-ovest, verso le pianure allagate del Pantanal, grandi più che l’Italia, abitate da mucche, caimani e tuiuiú. È qui che, otto anni fa, scoprii che non ero più me. Divenni un rospoblu, bestia anfibia senza patria ma con tante case. Vi trascino alle boscaglie del cerrado. Poi su, a nord. Nella foresta che è mille foreste, sul fiume che è mille fiumi, nel mio paradiso malarico di latitudine zero. Verrete, se vi va, nascosti nella nostalgia dei fotogrammi che vi manderò. Sono molliche di Bra, francobolli coi disegni imperfetti di un viaggio che ho voglia di raccontare. Per immaginare di non essere solo, per fingere le lettere che non scriverò. Per giocare a dirvi che vi vorrei in queste Terre di Mezzo, a esplorare con me.
Vi scriverò assai, perché la saudade è come il verme solitario: devi darle da mangiare storie, o ti prende al petto col suo morso nero. Ma non vuoi liberartene: amicazzurra, sei suo, hai il suo anello al dito. Vi spedirò spesso due notizie, una buona e una no. E a volte saranno la stessa, perché qui è Bra, terra del rosso e del nero, dove tutto è primavera, molto è tragedia.
Dall’aldilà (di un mare), un abbraccio anfibio.
roSpobLu

Gringo

Buffo. Di nuovo col taccuino fra le mani. Come rivedere un amico dopo anni e trovare che non c’è verso che cambi. Parlare con sé: quanto è raro, su zatterEuropa. Scrivo per raccontare a me stesso il me stesso di oggi. Bassa del dollaro, alta del real. Tutto è più caro del previsto, tutto al di sopra del mio budget. All’ufficio turistico il tizio delle informazioni, sacanagem, non ha voluto dirmi le pensioni sotto i 25 dollari. Peggio per lui. Cerco sulle pagine gialle un ostello. Arrivo in zona che è già sera, scendo dal bus e chiedo. Una ragazza mi spiega gentile.
– Però cammina rapido: quello zaino non è adatto, quaggiù...
«Quaggiù» è una salita buia. Ai lati, baracche di legno, due chioschi, case dirute. Il marciapiede non c’è. In compenso ci sono i rigagnoli di una fogna a cielo aperto. Scarafaggi, rifiuti ammucchiati. Due bulli mi rapinano con gli occhi. Nervoso, cerco un passo tranquillo, tentando lo sguardo di uno che abbia un asso (o un coltello) nella manica. Si fa notte. L’ostello è in realtà un dormitorio per ragazzi che vendono agua de coco in spiaggia. La mia stanza ha la serratura spezzata e dentro siamo in quattro. La puzza è sorprendente, tanto più quando vado per aprire la finestra e vedo che è già spalancata. Lo strato che ricopre il mio materasso non avrebbe potuto immaginarlo un regista splatter. Ipocondriaco, affitto due paia di lenzuola e ci apro sopra il sacco a pelo. Corro a prendere un boccone: mi rapinano fuori o mi rubano tutto in stanza, o entrambe le cose? Torno incolume e mi butto sul letto rassegnato a una notte pessima. Arriva il coinquilino del letto di sotto: un gigante sui vent’anni. Guarda curioso i miei zaini.
– Sei gringo?
– Italiano.
– E sei solo?
Riannuisco, preoccupato.
Mi guarda. Lo guardo. Silenzio. Ha un cappello di paglia, una canottiera pulita e stirata da cui prorompono pettorali firmati Terminator. Si gira. Apre la sacca. Sfila rapido una cosa nera e me la punta addosso. Mi si blocca il respiro.
– Se stai solo e vuoi sentire un po’ di musica – dice serio – te lo lascio qui. Io esco a mangiare.
La cosa nera è un mangianastri con cuffia. Benvenuto in Bra, gringo fifone.

Megadiverso

Si può non essere naturalisti, ma passeggiare in un bosco, in una prateria, su di una spiaggia in Sud America è, inevitabilmente, esperienza stupefacente: la diversità di piante, animali, paesaggi colpisce il più distratto dei viaggiatori. Si trovano in America Latina sei dei diciotto paesi che i biologi chiamano «megadiversi». Sono quelli che, assieme, ospitano oltre due terzi di tutte le specie viventi del pianeta: la cassaforte della biodiversità mondiale. Sono Indonesia, Colombia, Australia, Perù, Messico, Madagascar, Cina, Ecuador, Venezuela, India, Papua Nuova Guinea, Indonesia, Repubblica Democratica del Congo, Filippine, Stati Uniti, Malesia, Sud Africa. E il Brasile.
Se si contano gli animali vertebrati fino ad oggi identificati, con l’esclusione dei pesci, il record mondiale della diversità biologica spetta alla Colombia (con oltre 3300 specie). Ma se si includono le specie di pesci note, gli invertebrati e le piante, la palma della biodiversità spetta, stando ai dati più recenti, al Brasile.
Il paese ospita circa 200.000 specie di organismi, che potrebbero essere solo un decimo di quelle effettivamente esistenti. Vivono in Brasile un decimo delle specie di anfibi e di mammiferi del pianeta, e il 17% delle specie di uccelli. Il paese possiede inoltre la più grande ricchezza in numero di specie di primati (55, delle quali 19 endemiche), di palme (390) e orchidee (2300).
Nonostante il luogo comune che vede nell’Amazzonia il grande scrigno della biodiversità mondiale, essa non è l’unico ospite di tale arcobaleno biologico. Il Brasile, come altri paesi del Sud America, accoglie una straordinaria diversità di ambienti, classificabili in almeno 6 grandi «biomi» e 49 «ecoregioni». Nella classificazione che i biogeografi fanno degli ambienti, i biomi sono la classe più generale sotto la quale raggruppare gli ecosistemi. Un bioma contiene diversi ambienti, accomunati da caratteristiche molto generali: tipo di vegetazione, di clima, di suolo, di adattamento delle specie che vi vivono. Sono biomi, per esempio, la savana, la tundra, la foresta pluviale, anche se esistono moltissimi tipi di savane, tundre, foreste pluviali. Le ecoregioni sono invece una classificazione recente, di maglia più fina, di tutti gli ambienti della Terra, frutto di una ricerca internazionale patrocinata dal Wwf. Gli studiosi hanno definito le ecoregioni come ambienti in cui vivono «comunità naturali che condividono una gran parte delle proprie specie, delle dinamiche ecologiche e delle condizioni ambientali». Ne hanno individuate, nel mondo, 869. In Italia, ad esempio, il Parco Nazionale d’Abruzzo ospita l’ecoregione Pa 0401, «foresta montana di caducifoglie».
In Brasile, oltre al «bioma Amazzonia» (che contiene foreste aperte e foreste dense, foreste inondate, savane, paludi, praterie: 23 ecoregioni diverse), c’è il cerrado, una savana coperta di prati di graminacee, di boschi e boscaglie abitate da alberi bassi, contorti e robusti. Occupava il Brasile centrale e occidentale, ma è stato in gran parte distrutto negli ultimi decenni per far posto a fattorie e piantagioni. Poi c’è il «dominio della foresta atlantica», che occupava il litorale e le regioni orientali del paese e ospita una biodiversità vegetale persino più alta di quella delle foreste amazzoniche: non è fatto solo di foreste tropicali, ma anche di boschi di mangrovie, foreste di conifere e prati (9 ecoregioni diverse). C’è poi il Pantanal la più grande pianura inondata del mondo, abitata da milioni di caimani, uccelli e mucche. E ci sono i grandi prati detti «campi del Sud» e la sterminata caatinga del Nord-est del paese: una splendida steppa arida abitata da avvoltoi, cactus e cespugli spinosi.
Ma tale diversità straordinaria non ha a che fare solo con piante, animali e paesaggi. Il Brasile è anche un megadiverso culturale. Secondo l’Unesco, 13 su 18 dei paesi megadiversi sono fra i più importanti paesi per linguaggi endemici, cioè parlati solo all’interno dei propri confini. Fra questi, il Brasile. Le persone che al censimento si definiscono di pelle bianca (il 55% della popolazione) sono composte di discendenti di portoghesi, italiani, tedeschi, spagnoli, polacchi, alcuni dei quali vivono in piccole cittadine e parlano ancora la propria lingua di origine. Nello stato di Espirito Santo ci sono rubicondi giovanotti che parlano male il portoghese e bene il pomerano, e cittadine dove i discendenti degli italiani fanno ottimi cappelletti in brodo e conoscono danze popolari da noi estinte. Penedo, vicino Rio de Janeiro, è abitata da brasiliani biondi che costruiscono casette di legno e adorano la sauna, come i loro bisnonni finlandesi, che giunsero qui nel 1929. Nel sud del Brasile esistono comunità svedesi, russe, svizzere. In Amazzonia molti parlano giapponese, e ancor più a São Paulo, dove vivono anche comunità coreane, cinesi, sirio-libanesi, arabe. I neri e i mulatti compongono il 44% della popolazione. Alcuni di loro vivono in piccoli villaggi che derivano da antichissimi quilombos: comunità di schiavi fuggiaschi che costruivano minuscole repubbliche o monarchie ribelli nascoste nella selva. Vivono in Brasile minoranze linguistiche catalane, gaeliche, lituane, rumene, ucraine.
Le religioni e le sètte rispecchiano tale diversità di culture e genti. In una cittadina brasiliana di medie dimensioni non è raro incontrare oltre un centinaio di confessioni cristiane diverse: battisti, metodisti, avventisti, luterani, testimoni di Geova, pentecostali, fedeli della Chiesa Universale del Regno di Dio, dell’Assembléia de Deus, della Chiesa del Vangelo Quadrangolare e le infinite loro suddivisioni (chiese battiste «rinnovate», cristiani «unificati», chiesa cattolica «brasiliana», e così via). A queste si aggiungono numerosissime comunità che si ispirano ad Allan Kardec e che praticano lo spiritismo, i culti afro-brasiliani (candomblé e umbanda), e quelli (relativamente recenti) del Santo Daime e dell’Unione del Vegetale (che accolgono in sé elementi del cristianesimo, dello spiritismo e di riti sciamanici basati sull’ayauasca). Specialmente nella regione attorno alla capitale Brasilia (considerata da alcuni mistici un «centro di energia cosmica» e da molti ufologi punto di incontro di extraterrestri di varie provenienze), fioriscono le sètte New Age. E poi, ovviamente, in tutto il paese: islamismo, ebraismo, buddismo.
Infine, gli indios. Costituiscono meno dello 0,5% della popolazione, ma sono detentori di una ricchezza culturale e linguistica straordinaria. Almeno 42 lingue indigene, secondo il database del Summer Institute of Linguistics, si sono estinte in epoche recenti. Ma i duecento popoli indigeni che ancora vivono nel paese parlano, secondo l’Istituto socio-ambientale brasiliano (Isa), centottanta idiomi diversi, anche se quasi tutti in pericolo di estinzione. Secondo l’Isa, solo 11 lingue indigene sono parlate oggi da più di cinquemila persone, mentre 110 sono conosciute ormai da meno di quattrocento persone.
La varietà di tali linguaggi è sorprendente. Appartengono ad almeno due «tronchi» linguistici differenti: il Tupí e il Macro-Jê. Per avere un’idea di quanto profondamente diversi siano questi idiomi, basti pensare che tutte le lingue slave (russo, polacco, ceco, ecc.), ge...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. 1. Città e foresta
  3. 2. Latitudine zero
  4. 3. Genti di foresta
  5. 4. Racconterai solo questo, «gringo»?
  6. Bibliografia
  7. Glossario
  8. Ringraziamenti