Comunicazione interculturale
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Comunicazione interculturale

Il punto di vista psicologico-sociale

  1. 134 pagine
  2. Italian
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Comunicazione interculturale

Il punto di vista psicologico-sociale

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La comunicazione interculturale è comunicazione tra persone che appartengono a gruppi (etnici, ma non solo) o categorie sociali portatrici di credenze, rappresentazioni e valori almeno in parte differenti. Questo particolare processo comunicativo si basa su caratteristiche generali, di tipo psico-cognitivo, e su fattori legati allo specifico contesto dell'interazione. In questo volume sono approfonditi i diversi aspetti e i possibili problemi della relazione tra persone che fanno riferimento a culture differenti e le strategie utili per migliorare la comunicazione interculturale, indispensabile strumento di conoscenza reciproca, di collaborazione e di mediazione dei conflitti.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858114476
Argomento
Psychology

1. Definizioni preliminari e riferimenti teorici generali

1.1. Cultura, comunicazione, comunicazione interculturale

Cultura e comunicazione sono due concetti estremamente complessi e dei quali esistono innumerevoli definizioni. Senza entrare nel dibattito tuttora in corso fra antropologi e sociologi sul concetto di cultura (si veda, in proposito, Crespi, 1996), me la sbrigherò rapidamente distinguendo tra l’aspetto oggettivo di una cultura, inteso come sistema di significati condiviso da un gruppo sociale e accumulatosi nel corso di generazioni, e l’aspetto soggettivo, ossia il bagaglio di credenze, atteggiamenti, definizioni di sé, norme, ruoli e valori che deriva a un individuo dalla sua appartenenza a una data cultura. Gli elementi di cultura soggettiva che si organizzano intorno a un tema centrale sono definiti da Triandis (1996) «sindromi culturali». Sindromi culturali sono, per esempio, il grado di rigore-lassismo o di attività-passività che vengono sollecitati o richiesti da una particolare cultura, così come la tendenza a sopprimere o esprimere le emozioni, o ad attribuire più importanza agli aspetti strumentali (per esempio, eseguire un compito) che a quelli espressivi (curare una relazione sociale). La cultura fornisce al singolo un insieme di conoscenze (è l’aspetto cognitivo) e una guida di comportamento (è il suo aspetto prescrittivo). Di conseguenza, le differenze tra culture nascono da quella parte di conoscenze e prescrizioni che non è condivisa, che distingue un gruppo culturale dall’altro.
È anche importante distinguere la cultura dall’etnia. I gruppi etnici si basano sul riferimento a una comune origine geografica (Cesareo, 2000). Le specificità (e quindi le diversità) culturali possono derivare non solo dall’etnia, ma anche dalla religione, dall’ideologia o da fattori quali l’età, il genere, lo status socioeconomico: per questo motivo si può parlare di una cultura cattolica, di una cultura liberale, di una cultura giovanile, di genere, e così via. Le differenze interculturali, dunque, possono essere sia intra-etniche sia inter-etniche. Aggiungo che, pur tenendo presenti queste due possibilità, ho scelto di focalizzare la mia attenzione sugli aspetti culturali legati più direttamente all’appartenenza etnica, tema su cui oggi convergono nuove e pressanti domande che chiamano direttamente in causa gli scienziati sociali.
Intendendo la comunicazione come un processo nel quale vengono scambiate informazioni tra due o più persone – adotto anche qui una ormai classica definizione minimale, da Watzlawick et al., 1967 –, la comunicazione interculturale può essere considerata come uno scambio di informazioni tra persone che appartengono a gruppi o categorie sociali che sono portatori di culture almeno in parte differenti. Se ne coglie immediatamente la complessità: è una relazione tra persone che non condividono lo stesso sistema di significati. Va aggiunto che una cultura non costituisce un mondo statico e limitato geograficamente ma un universo fluido, in continuo cambiamento; con il tempo, conoscenze condivise e comportamenti possono decadere e altri possono prenderne il posto. Di conseguenza, anche le relazioni interculturali vanno considerate processi dinamici, in continuo mutamento.
Un’ultima precisazione terminologica appare necessaria, cioè la distinzione tra gli studi transculturali e gli studi incentrati sulle relazioni interculturali. I primi si basano sulla ripetizione della stessa ricerca in diversi contesti culturali allo scopo di effettuare confronti o verificare la generalità di qualche fenomeno. I secondi approfondiscono invece, come intende fare questo mio lavoro, i processi di interazione fra persone appartenenti a universi culturali differenti. Se farò spesso ricorso a studi transculturali, sarà soprattutto allo scopo di comprendere quando e in che misura similarità o differenze possano facilitare o ostacolare la comunicazione.

1.2. Due sindromi fondamentali: individualismo e collettivismo

Le dimensioni collettivismo e individualismo (Hofstede, 1980) costituiscono due sindromi culturali che permettono di cogliere alcune importanti differenze tra i comportamenti sociali delle varie culture del pianeta. Secondo Triandis (2003), nelle culture collettiviste – vengono considerate tali la maggior parte delle culture asiatiche e latino-americane – è più probabile che le persone: 1) facciano riferimento al sé collettivo (che deriva dall’appartenenza a un gruppo) e pensino al rapporto tra se stessi e il proprio gruppo (famiglia, collaboratori, tribù, correligionari, nazione ecc.) in termini di interdipendenza piuttosto che fare riferimento al sé individuale (che riflette un sé indipendente) e vedere se stessi come individui autonomi e indipendenti dal proprio gruppo (Markus e Kitayama, 1991); 2) diano priorità agli obiettivi del gruppo rispetto ai propri; 3) aggiustino il proprio comportamento più sulle norme del proprio gruppo che sugli atteggiamenti individuali; 4) concepiscano i rapporti sociali più come relazioni basate sulla comunanza di intenti e modi di sentire che come relazioni di scambio (do ut des). In altre parole, nelle culture collettiviste le persone prestano particolare attenzione ai bisogni degli altri e rimangono in rapporto tra loro anche quando non ne traggono particolari benefici. Si è anche visto che questi quattro aspetti sono tra loro collegati (Triandis e Gelfand, 1998).
Il modello culturale contrastante – che si è affermato (con la modernità?) nell’Europa occidentale e settentrionale, nel Nord America (Messico escluso), in Australia e in Nuova Zelanda – è di tipo individualista. In questo caso le persone tendono a: 1) fare riferimento al sé individuale e a pensarsi come indipendenti dal proprio gruppo; 2) dare priorità agli obiettivi individuali; 3) utilizzare gli atteggiamenti piuttosto che le norme come guida al loro comportamento sociale; 4) prestare particolare attenzione ai propri bisogni personali, trascurando le relazioni interpersonali che non consentono loro di ottenere benefici.
Poiché la cultura ci plasma, chi è cresciuto in una cultura individualista sarà incline a prestare più attenzione agli individui e ai processi interni agli individui (quali atteggiamenti e credenze), mentre chi è cresciuto in una cultura collettivista tenderà a prestare maggiore attenzione ai gruppi, ai ruoli, alle norme, ai doveri e alle relazioni intergruppi. In alcune culture collettiviste i pronomi «io» e «tu» vengono usati molto raramente (Kashima e Kashima, 1998), mentre nelle culture individualiste vengono usati abbondantemente: in inglese e in francese, per esempio, è difficile scrivere una lettera senza farne uso. Gli individualisti sono positivi circa l’«io» e il «noi», mentre i collettivisti sono a volte ambivalenti verso l’«io», ma molto positivi circa il «noi». L’individualismo compare nelle società che sono al tempo stesso complesse e permissive, mentre il collettivismo caratterizza le società meno complesse e più rigorose (Triandis, 1994). Gli individualisti occidentali considerano il conformismo in termini negativi e l’«unicità» come un valore, mentre nei paesi collettivisti orientali il conformismo è sovente considerato un fattore di armonia e la diversità connotata negativamente come «devianza» (Bond e Smith, 1996; H. Kim e H.R. Markus, Deviance or uniqueness, harmony or conformity? A cultural analysis, 1998, manoscritto non pubblicato, cit. in Triandis, 2003).
Se la cultura ci indirizza e ci influenza, esiste comunque un margine di autonomia per il singolo: individualismo e collettivismo, infatti, possono essere considerati non solo come due sindromi culturali ma anche come due variabili di personalità (spesso rispettivamente definite come idiocentrismo e allocentrismo). Pertanto, sia nelle società individualiste sia in quelle collettiviste è possibile incontrare persone che mostrano una tendenza dell’uno o dell’altro tipo. Secondo Triandis, inoltre, gli esseri umani, pur avendo una predisposizione a rispondere agli stimoli ambientali in modo coerente con la loro cultura, sono spesso condizionati in larga misura dalla situazione: quando il proprio gruppo è minacciato dall’esterno, per esempio, la maggior parte delle persone diventa collettivista. Fattori esterni e interni al gruppo possono favorire una tendenza piuttosto che l’altra.
In particolare, la tendenza verso il collettivismo sembra aumentare quando: a) l’individuo sa che la maggior parte delle altre persone presenti nel contesto sono collettiviste e pertanto prevale la norma sociale che preme verso il collettivismo; b) l’appartenenza dell’individuo al gruppo è particolarmente evidente, come avviene quando una persona si trova a dover rappresentare il proprio gruppo (per esempio, è delegata dalla sua nazione in un contesto internazionale); c) la situazione enfatizza gli aspetti che le persone del gruppo hanno in comune (per esempio, gli obiettivi comuni); d) la situazione enfatizza la comune appartenenza (per esempio, tutti indossano la stessa divisa); e) il gruppo è impegnato in un compito che richiede cooperazione tra i membri.
La tendenza verso l’individualismo sembra invece aumentare quando: a) le altre persone presenti nella situazione sono e si comportano come individualisti, rendendo saliente la norma che preme verso l’individualismo; b) la persona è indotta dalla situazione a focalizzarsi sulla sua differenza dagli altri come quando, per esempio, indossa un abbigliamento diverso dal resto del gruppo; c) il compito è di tipo competitivo (Triandis, 2003).
Più recentemente si è anche rilevato che le culture e gli individui collettivisti e individualisti si diversificano in base all’importanza che attribuiscono alle relazioni sociali orizzontali o verticali (Chen et al., 1997; Triandis, 1995, 1996). In altre parole, sia l’individualismo sia il collettivismo possono essere orizzontali, quando viene enfatizzata e data per scontata l’eguaglianza, prestando poca attenzione a classi e status sociale, o verticali, quando viene enfatizzata l’importanza della gerarchia e dello status e viene considerato come «naturale» il fatto che chi è in alto nella gerarchia sociale abbia più potere e più privilegi di chi sta in basso. La combinazione della dimensione orizzontale-verticale con quella individualismo-collettivismo dà luogo a quattro diverse sindromi culturali: l’individualismo orizzontale, per il quale viene enfatizzata l’indipendenza, il potenziamento del sé, la fiducia in se stessi, l’individualismo verticale, per il quale si valorizzano, oltre all’indipendenza, il potere, la competizione, l’essere meglio degli altri, il collettivismo orizzontale, per il quale sono considerati importanti l’interdipendenza, la benevolenza e l’uguaglianza tra i membri del gruppo, e infine il collettivismo verticale, che enfatizza, oltre all’interdipendenza, il conformismo e il peso della tradizione. L’asse orizzontale-verticale dà conto di alcune diversità valoriali che sono state riscontrate tra persone appartenenti a culture diverse che condividono la stessa sindrome fondamentale (individualismo o collettivismo). Per esempio, in una ricerca che ha preso in considerazione gli appartenenti a due culture considerate individualiste, quella statunitense e quella danese, si è riscontrato che i partecipanti americani hanno attribuito molta più importanza dei danesi al raggiungimento del successo e alle sue manifestazioni (Nelson e Shavitt, 2002). È proprio la diversità lungo l’asse verticale-orizzontale a spiegare questa differenza: la sindrome culturale individualista degli Stati Uniti, infatti, è più orientata in senso verticale mentre la sindrome culturale della Danimarca, anch’essa individualista, è più orientata in senso orizzontale.
Ricondurre a quattro sindromi fondamentali le molteplici differenze tra le culture del nostro pianeta può apparire troppo riduttivo, e perciò vengono continuamente proposti nuove modifiche e ulteriori distinguo a queste suddivisioni. In effetti una meta-analisi sul tema (Oyserman et al., 2002) non solo ha rilevato la scarsità di dati riguardanti numerose culture e la necessità di ulteriori indagini sulle differenze tra sindromi culturali, ma ha anche messo in luce come l’importanza delle relazioni sociali non sia maggiore nelle culture collettiviste che in quelle individualiste: gli americani degli Stati Uniti, per esempio, pur confermandosi complessivamente individualisti, attribuiscono grande importanza alle relazioni amicali e ai rapporti familiari. Il nocciolo della sindrome collettivista sembra dunque essere non tanto la «relazionalità», quanto piuttosto la ricerca dell’armonia con gli altri e il senso del dovere verso il gruppo. Si aggiunga che una recente ricerca ha mostrato che l’individualismo che caratterizza il mondo anglossassone (il Regno Unito e, soprattutto, gli Stati Uniti) si appoggia su riferimenti valoriali assai diversi da quelli che promuovono l’individualismo nei paesi dell’Europa continentale (Schwartz, 2004). Ma su questi temi torneremo successivamente.
Pur essendo pienamente consapevole dello stato provvisorio degli studi in quest’area – così come della difficoltà di ricondurre a categorie universali l’enorme gamma di differenze che caratterizza l’apparato valoriale e normativo della specie umana –, assumerò la distinzione tra sindrome individualista e collettivista, e i suoi addentellati, come base di questo lavoro. Essa costituisce, infatti, a tutt’oggi l’approccio teorico più soddisfacente e parsimonioso per analizzare gli aspetti culturali che entrano in gioco nella comunicazione.

1.3. Un quadro generale dei processi psicosociali

La comunicazione interculturale si basa su processi che si suppongono universali e su fattori specificamente connessi alle culture che entrano in rapporto e alla relazione tra di esse. Facciamo ora riferimento ad aspetti di carattere generale – che appaiono trasversali alle culture – dal punto di vista della psicologia sociale. Considerando generali questi fenomeni non s’intende certo sostenere che siano uguali in tutte le culture. Il loro maggiore o minore peso varia in rapporto a una serie di fattori di diverso genere. Per esempio, il processo di categorizzazione sociale – uno dei processi di cui parleremo nel prossimo capitolo – può essere più o meno utilizzato a seconda dell’importanza che una persona attribuisce alla propria appartenenza di gruppo, del fatto che la relazione con l’altro gruppo sia più o meno competitiva, della salienza che assumono nello specifico contesto le differenze tra il proprio gruppo e quello esterno, e così via.
Secondo Mackie e Smith (1998), all’interno dell’area psicosociale è possibile distinguere tre aspetti, non necessariamente posti in sequenza causale: la percezione, la valutazione e il comportamento. Due fondamentali processi entrano in gioco in ciascuno di questi aspetti: a) la costruzione (e interpretazione) della realtà, alla quale contribuiscono sia le esperienze individuali sia l’esperienza e il consenso sociali; b) la reciproca influenza tra l’individuo e il contesto sociale (o gruppo). Il modo in cui tali processi si sviluppano è collegato al tipo di motivazioni e di processi cognitivi che prevalgono in una determinata situazione. Le motivazioni fondamentali sono almeno tre: 1) il desiderio di avere una comprensione sufficientemente accurata di ciò che ci circonda, del mondo intorno a noi; 2) il desiderio di essere in relazione con gli altri; 3) il desiderio di mantenere positiva o di migliorare l’immagine di se stessi e di tutto ciò che è collegato al sé (il proprio gruppo, il proprio partner, i propri valori, i propri atteggiamenti, e così via).
Costruzione della realtà e processi di influenza sono anche condizionati da tre fondamentali caratteristiche dell’elaborazione cognitiva: 1) il conservatorismo, ossia la resistenza a cambiare rappresentazioni mentali e modelli di azione sociale una volta che questi sono stati costruiti o utilizzati; 2) l’accessibilità, il meccanismo per cui le informazioni che sono al momento disponibili, in memoria o socialmente, hanno un impatto particolarmente forte; 3) la profondità dell’elaborazione, fattore che varia a seconda della situazione in modo tale che gli output del processo (giudizi o comportamenti) sono a volte basati su scorciatoie cognitive (le euristiche), mentre altre volte sono il risultato di una elaborazione impegnativa.
Considereremo nei prossimi capitoli i tre diversi aspetti (percettivo, valutativo e comportamentale) in rapporto alla comunicazione interculturale. In particolare, i processi fondamentali di costruzione della realtà e di influenza sociale saranno considerati alla luce delle motivazioni e delle modalità d’elaborazione che vengono facilitate o stimolate dalle diverse culture e dai diversi contesti.

Parte prima. Processi cognitivi, motivazioni e differenze culturali

2. Le impressioni dell’altro, dell’alt...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione. Un’interdisciplina
  2. 1. Definizioni preliminari e riferimenti teorici generali
  3. Parte prima. Processi cognitivi, motivazioni e differenze culturali
  4. 2. Le impressioni dell’altro, dell’altro gruppo e di se stessi
  5. 3. La formazione dei giudizi e dei pregiudizi
  6. Parte seconda. Il contesto, la relazione e il comportamento di comunicazione
  7. 4. Il contesto della comunicazione e la relazione tra i comunicanti
  8. 5. Il comportamento di comunicazione interculturale: barriere, incomprensioni e strategie per sormontarle
  9. 6. Possibili conseguenze della comunicazione interculturale
  10. Conclusioni. Per una competenza comunicativa interculturale
  11. Riferimenti bibliografici