Cittadinanza europea
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La cittadinanza europea ha compiuto vent'anni e quasi nessuno se n'è accorto. Eppure, a chi si è spostato all'interno dell'Unione, ha permesso di godere di diritti fondamentali nell'ambito di ordinamenti diversi da quello di provenienza: dalla non discriminazione nelle prestazioni sociali fino al ricongiungimento familiare anche per le coppie omosessuali. Proprio perché sovranazionale, è uno strumento giuridico potenzialmente innovativo che ha maturato una dotazione propria di diritti. Ma la crisi, causa di nuovi importanti flussi migratori intraeuropei, ne ha messo in luce anche la fragilità. Questo libro invita a prendere consapevolezza del suo contenuto e dei suoi possibili sviluppi, progressivi o regressivi.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858112045
Argomento
Economia

1. Cittadinanza e nazionalità: ieri e oggi

1. Nella cultura giuridica europea, la cittadinanza denota tradizionalmente l’ascrizione di un soggetto a uno Stato nazionale. Da ciò deriva, da un lato, la difficile distinzione tra cittadinanza e nazionalità, termini comunemente usati come sinonimi; dall’altro, il precario equilibrio fra la cittadinanza come status fondato sui diritti e la cittadinanza come appartenenza (Baccelli 1994).
Dal punto di vista giuridico-formale la cittadinanza indica la distinzione del cittadino dallo straniero (Cordini 1998, p. 4). Nell’ambito del diritto essa coincide, quindi, con uno status specifico cui fanno capo un insieme di diritti e doveri stabiliti da un ordinamento giuridico positivo. In senso politico, invece, la cittadinanza indica «una più ampia ‘appartenenza’, intesa come ‘unione spirituale’ dei cittadini nello Stato» (ivi, p. 20), un’appartenenza quindi al popolo-nazione. Già con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 la cittadinanza e i diritti a essa collegati vengono a dipendere (quod existentiam) dal ruolo centrale della nazione e dalla legge da essa prodotta: la Dichiarazione ruota infatti intorno a due temi che si vogliono complementari, quello della nazione e quello del cittadino in quanto soggetto dei diritti. È nel vincolo primario tra soggetto e nazione che il cittadino in quanto tale prende a esistere; solo in un secondo momento la cittadinanza si viene a concretizzare in una serie aperta di diritti.
La convivenza fra questi due elementi che caratterizzano il campo semantico della cittadinanza non è stata, però, sempre pacifica. La ricostruzione storica dimostra come la cittadinanza sia stata segnata, soprattutto fino al secondo conflitto mondiale, proprio dal difficile equilibrio fra diritti, come forma e contenuto della cittadinanza, e appartenenza nazionale, sovrapposta alla cittadinanza.
Se il legame fra cittadinanza e sovranità ha costituito un elemento imprescindibile per la formazione dello Stato moderno, esso diviene centrale nel XIX e XX secolo quando lo Stato diventa determinante per l’identità della persona, tanto da rendere possibile l’esercizio dei diritti individuali solo nella dimensione statualistica. Andare al di là di tale dimensione, come è avvenuto in seguito all’istituzione della cittadinanza dell’UE, rappresenta, quindi, una rottura storica, se si tiene conto che in Europa la cittadinanza dalla modernità al 1992 è stata costantemente associata all’ordine statale, meglio, ad un solo ordine statale.
Sebbene la nozione di cittadinanza abbia assunto nel corso degli ultimi due secoli significati diversi in relazione all’organizzazione dello Stato, né la cittadinanza degli Stati centralizzati né quella dello Stato federale né la più recente esperienza costituzionale sudamericana di cittadinanze plurinazionali, introdotte in Bolivia ed Ecuador, possono essere usate come termine di paragone per l’istituto europeo. Tutte e tre – e, ovviamente, a maggior ragione la prima – rimangono collegate alla forma Stato, mentre – lo ribadiamo ancora – il legame del soggetto con la comunità politica nazionale (Stato) non sussiste nell’Unione Europea, che è struttura sovranazionale. Nemmeno la cittadinanza federale può costituire un termine di paragone perché in tale tipo di Stato è lo status federale a prevalere sulla cittadinanza interna pur non annullandola, mentre nell’ordinamento dell’UE la cittadinanza europea non ha vita propria ma si determina in relazione alla cittadinanza nazionale. Infine, la terza nozione di cittadinanza non costituisce un utile termine di paragone poiché, pur mosse dall’intento di difendere «l’unità nella diversità» – obiettivo che anche l’Unione Europea si propone –, le recenti riforme costituzionali che hanno stabilito il carattere plurinazionale degli Stati di Bolivia e Ecuador hanno uno scopo peculiare alieno all’esperienza del nostro continente: riconoscono la cittadinanza plurinazionale per porre in essere un atto di «post-colonialità» che rompa finalmente con l’eredità coloniale di quei paesi e coinvolga i popoli indigeni rafforzando la democrazia partecipativa.
2. All’inizio del XXI secolo è necessario capire se questo nesso tra cittadinanza e Stato-nazione sia destinato a perdurare oppure no. In altre parole, se sia un legame necessario oppure contingente, se l’equazione tra cittadinanza e nazionalità sia inconfutabile anche nell’attuale condizione di crisi del sistema statale. La cittadinanza europea dovrebbe dimostrare il contrario: ha creato le condizioni affinché una rottura semantica, e quindi anche materiale, fra i due lemmi prima o poi si possa dare, evidenziando che la cittadinanza non può essere più limitata all’appartenenza a una comunità nazionale. In questo momento, tuttavia, assistiamo a una coesistenza di regimi diversi. Da un lato, nello spazio europeo, in termini giuridici, si è messo fine alla dicotomia cittadino-straniero quando si tratti di cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea (peraltro se ne è prodotta una nuova, quella che distingue fra cittadino comunitario e «l’extracomunitario», oppure, per dirla con il filosofo francese Étienne Balibar, fra «tipi diseguali di ­stranieri»). Dall’altro, la stessa cosa non può dirsi in termini definitivi per la dicotomia cittadinanza-nazionalità, che appare dura a morire dato che la cittadinanza europea non si è definitivamente spogliata delle nazionalità statali.
Solo nell’ipotesi del valore contingente del nesso fra nazionalità e cittadinanza, però, è possibile adeguare il concetto di cittadinanza alle mutate condizioni strutturali determinate dal sistema dell’UE.
La lingua italiana non è la sola in cui manchi una netta distinzione sia di significato sia d’uso dei due termini, e questa sovrapposizione anche concettuale non è priva di risvolti materiali, dal momento che la nazionalità è stata lo strumento per eccellenza dell’esclusione e dell’inclusione, o dell’inclusione forzata, che ha caratterizzato la cittadinanza dalla seconda metà dell’Ottocento a tutto il Novecento. Questo strumento ha determinato materialmente l’impossibilità per coloro che non appartenevano alla nazione di essere riconosciuti dallo Stato che ne era espressione, tranne nei casi di inclusione, attraverso un’assimilazione forzata, nella cultura socialmente dominante o comune.
Anche il termine «popolo», nel linguaggio politico, ha finito per diventare equivalente a quello di «nazione», sebbene quest’ultima non indichi una comunità politica bensì una comunità connotata socio-culturalmente, definita in termini etnici, linguistici, culturali, religiosi o storici. Sul piano storico, il nesso Stato-nazione è contingente, dal momento che i processi di formazione degli Stati e delle nazioni sono diversi e cronologicamente non contemporanei, intrecciandosi solo a metà Ottocento, quando la nazione assume un ruolo determinante nel consolidamento degli Stati. D’altro canto, sulla base di questo nesso «trovato» o «inventato», la nazione è diventata la legittimazione implicita della convivenza all’interno dei confini di uno Stato, a tal punto da rendere difficile ipotizzare, addirittura pensare, la possibilità che la cittadinanza prescinda dall’appartenenza nazionale.
La sovrapposizione e la confusione tra un istituto giuridico (la cittadinanza) e una nozione socio-culturale (la nazionalità) ha dato vita implicitamente a un’idea di «cittadinanza nazionale», che è un ibrido improprio e gravido di conseguenze. L’utilizzo dei due termini come sinonimi – così come far coincidere popolo e nazione – mostra la predominanza che è venuta ad avere la cittadinanza intesa (impropriamente) come «appartenenza», sulla cittadinanza (correttamente) intesa come «contenitore di diritti» (e quindi come partecipazione, essendovi tra i contenuti della cittadinanza anche, se non in primis, i diritti politici), modificando le condizioni di legittimità della stessa. I diritti non sono più attributi immediati del soggetto, ma intervengono come elemento successivo nel rapporto che lega l’individuo alla comunità, soprattutto quando l’idea di nazione degenera nelle varie forme di nazionalismo. Il difficile equilibrio fra la cittadinanza come status fondato sui diritti e la cittadinanza come appartenenza si spezza quando il protagonismo del soggetto inizia a perdere valore rispetto alla logica dell’appartenenza nazionale.
3. Eppure, in linea di principio, la cittadinanza moderna si afferma come progetto omni-includente che aveva alla base l’idea dell’uguaglianza fra tutti gli uomini o, meglio, dell’eguale libertà di tutti gli uomini. L’affermazione della naturale uguaglianza tra gli esseri umani nega la pretesa «naturalità» di qualsiasi rapporto gerarchico, lasciando così aperta la possibilità «teorica» e «pratica» di «lottare», in nome del principio dell’universale, contro rapporti di subordinazione costruiti artificialmente (subordinazioni di genere, di razza, di classe). È stato il passaggio dagli status di «nascita» del «lungo medioevo» alla finzione del diritto moderno – che concepisce un soggetto giuridico unico e universale, astratto e omogeneo – a permettere di ritenere come la personalità giuridica non potesse più essere qualcosa di invariabilmente legato alla fissità dei ruoli sociali di antico regime, consentendo di qualificarla come «qualcosa di potenziale» e quindi di mobile (Margiotta 2005). Questa novità, che, pur non annullando i ruoli sociali, rende mobile la relazione fra gli individui e tali ruoli, segna il passaggio dai cosiddetti privilegi di status ai cosiddetti diritti di status, a quella nuova formula giuridica, cioè, che assume significato universale: «tutti gli x hanno diritto a y», ovvero anche allo status di uguaglianza.
Dal punto di vista teorico, infatti, la cittadinanza moderna nasce dall’idea giusnaturalistica che svincola i diritti da qualsiasi appartenenza socio-politica per collegarli direttamente al soggetto come tale. Prima, infatti, di essere indissolubilmente connessa alla nazionalità, la nozione di cittadinanza è concepita all’interno di una visione universalistica: il giusnaturalismo pensa l’individuo, libero e uguale, svincolato da qualsiasi forma di appartenenza e di dipendenza al fine di spezzare le gerarchie della società ordinata per ceti. I diritti – qualificati idealmente come diritti umani, universali – divengono attributi immediati del soggetto e il «soggetto di diritti» diventa il protagonista dell’ordine, perché quest’ultimo è pensato «artificialmente» in funzione del primo: non è più l’ordine socio-politico a produrre le singole individualità ma è il «soggetto di diritti» a diventare il perno centrale dell’ordine (Costa 2005, pp. 33-45). Per implementare questi diritti, però, è necessaria la costruzione di un ente razionale e artificiale: lo Stato sovrano-rappresentativo, forma storica specifica di organizzazione della politica. La sovranità viene piegata a funzione di salvaguardia dei diritti naturali, cioè alle esigenze autoconservative del singolo (proprietario della propria persona, con Hobbes, e anche di beni materiali con Locke). Per emanciparsi dai vincoli di dipendenza personale è quindi necessario un movimento di assoggettamento al sovrano (Mezzadra 2004, pp. 14-16): l’uguale soggezione e obbedienza degli individui all’identico potere sovrano viene data in cambio della loro protezione e sicurezza.
All’universalistica uguaglianza degli uomini fa da contraltare l’istanza particolaristica della sicurezza che sta a fondamento dello Stato sovrano (Zolo 1994, pp. 14 sgg.). L’individuo, nel giusnaturalismo, viene pensato in termini atomistici, indipendentemente dalla sua appartenenza a un corpo sociale o politico, ma la teoria giusnaturalistica non perde l’esigenza di pensarlo come riferito a un ente collettivo, che è lo Stato impersonale. La soggettività che si libera dalle molteplici appartenenze della tradizione si ricollega, alla fine, a un’unica appartenenza, quella alla nazione, che rappresenta l’entità politica nuova che assicura concretamente l’uguaglianza dei soggetti: «la nazione coincide con la somma dei soggetti giuridicamente uguali» e diviene l’unico detentore legittimo del potere sovrano (Costa 2005, p. 50). La legittimazione dello Stato astrattamente inteso viene fornita dalla nazione e la nazionalità, come condizione preliminare per l’acquisizione della cittadinanza, avrà il sopravvento sul principio di universalità della soggettività. In altre parole, la cittadinanza e i diritti ad essa collegati finiscono per dipendere dalla nazione sovrana e dalla legge che essa produce e, di conseguenza, la cittadinanza torna a essere uno status che precede i diritti. «L’uomo», scriverà Hannah Arendt (1999, p. 403), «si era appena affermato come un essere completamente isolato, emancipato da qualsiasi autorità o vincolo, come un essere che portava in se stesso la sua dignità senza riferimento a un ordine superiore più vasto, che già si riduceva a membro di popolo».
4. Storicamente è dalla Rivoluzione francese che il «soggetto di diritti» viene identificato dall’ordinamento giuridico dello Stato nella figura del cittadino e la cittadinanza diviene il presupposto dell’uguaglianza formale e della tutela dei diritti civili, politici e poi sociali (Marshall 2002). Ma ai rivoluzionari francesi dell’89 ancora interessa l’appartenenza a una nazione intesa come comunità politica: il riconoscimento dei diritti, che nella Dichiarazione riguarda sia l’uomo che il cittadino, viene mediato dall’appartenenza alla comunità. Si tratta, però, di una comunità che non si basa su un’identificazione a base etnica, culturale o storica, bensì sulla condivisione dei medesimi ideali politici e del valore di partecipazione insito nell’idea di appartenenza di una comunità politica. È ancora la partecipazione politica a definire i contorni di tale appartenenza a fine Settecento, e la nazionalità è «l’espressione di un modo d’essere politico» (La Torre 2001, p. 94).
A partire dalla Restaurazione il popolo cessa di indicare un corpo politico e assume il significato di «unità storica», quindi di nazione: un concetto ambivalente quest’ultimo, perché da un lato avrà una funzione di emancipazione dando il via alle lotte di indipendenza nazionale contro i poteri dinastici, dall’altro si tradurrà presto nelle forme dei nazionalismi fanatici tardo-ottocenteschi e, poi, del primo Novecento.
La Rivoluzione francese crea le condizioni per lo sviluppo della democrazia, trasferendo la sovranità dal re alla nazione e facendo dei cittadini, quali membri della nazione, i titolari della sovranità, ma allo stesso tempo –aprendo la strada alla rapida ascesa dell’idea di nazione, che, definendo le condizioni dell’appartenenza, creerà una frontiera che diventerà impenetrabile tra i cittadini-nazionali e gli stranieri – riserva solo ai primi il godimento dei diritti. Si aggiunga che l’equazione membro della nazione=cittadino non si traduce immediatamente con l’effettivo riconoscimento a tutti degli stessi diritti visto che, solo per fare un esempio, tra l’affermazione della sovranità nazionale e l’affermazione del suffragio universale maschile e femminile passerà più di un secolo. L’immaginata omogenea comunità nazionale, che doveva veicolare concretamente l’uguaglianza dei soggetti, evidenzia immediatamente le diseguaglianze di status e di diritti, fondate sulla discriminazione di genere, di classe, di razza, di religione. Uguali come cittadini nazionali in quanto diversi dagli «altri», i membri della nazione saranno diversi fra loro quanto alle determinazioni politiche, economiche e sociali. Si arriva ad avere un’appartenenza priva di diritti, che finisce per qualificarsi solo come posizione di subordinazione al potere sovrano, rendendo la cittadinanza, per alcuni, uno status privo di diritti. Ciò spiega la tensione esistita non solo ai confini «esterni» della cittadinanza, ovvero per ottenerne la titolarità, ma anche dentro ai confini «interni»: prima per ottenere il pieno godimento di tutti i diritti collegati alla cittadinanza, poi per ampliare lo spettro di questi diritti: da quelli civili a quelli politici e sociali.
Siamo qui in presenza di una tensione fondamentale insita nell’istituto della cittadinanza: essa riconosce solo ad alcuni soggetti l’uguaglianza e la libertà della condizione di cittadino (Balibar 2012). Da un lato l’universalismo della formula collegata all’istituto («tutti gli x hanno diritto a y», dove x è il titolare della cittadinanza e y i diritti a esso riconosciuti) si presta a essere normativamente definito dalle leggi dello Stato, e dunque ridimensionato: ogni presunzione di universalismo di fatto decade, perché si introducono limitazioni ed esclusioni. Dall’altro lato però, l’affermazione di principio resta e su di essa si può sempre far leva (o almeno tentare di farlo): il «preteso» universalismo può essere sempre invocato da coloro che normativamente non sono stati definiti come x o da coloro che, sebbene definiti come x, non hanno la titolarità di tutti i diritti collegati alla cittadinanza (l’y). La tensione permanente tra la condizione di uguaglianza e le concrete disuguaglianze che strutturano la società, tra l’apparenza dell’universale (anche come appartenenza alla nazione come universale concreto) e la realtà dell’esclusione, è ciò che rende ragione, storicamente, delle «lotte per l’accesso alla cittadinanza», da un lato, e delle «lotte per i diritti di cittadinanza», dall’altro (Margiotta 2005).
La cittadinanza, caratterizzandosi come accesso ai diritti, o come il «diritto ad avere diritti» secondo la formula della Arendt, costituisce comunque, almeno fino alla fine del secondo conflitto mondiale, l’unica possibilità reale di godere dei diritti fondamentali. Realtà che, presente in nuce nel discorso sulla cittadinanza, mostrerà tutti i suoi risvolti tragici quando lo status dei cittadini discenderà interamente dalla loro appartenenza al medesimo popolo-nazione-razza. Se nell’Ottocento la cittadinanza era diventata inequivocabilmente nazionale («si è cittadini di uno Stato in quanto si appartiene alla nazione costitutiva di quello Stato», Grosso 1997, p. 243), nella fase dei totalitarismi essa tende definitivamente verso l’appartenenza al popolo-nazione-razza e lo Stato diventa lo strumento a tutela della razza: al primato del soggetto si contrappone definitivamente il primato del popolo, come comunità di sangue (e, talvolta, anche di «altare»).
Definita a sua volta come uno status, una condizione riconosciuta attraverso la legge dello Stato-nazione, è stato possibile che la cittadinanza fosse assoggettata alla violenza discriminatoria, razzista e distruttiva prodotta dal culto dell’omogeneità biologico-sociale ed etico-politica dei regimi totalitari. I diritti, durante i totalitarismi, diventarono appannaggio solo di coloro che erano riconosciuti dall’identità nazionale come membri a pieno diritto della comunità diventata «padrona» dei criteri di determinazione della nazionalità, tanto che la «snazionalizzazione» degli ebrei fu un’arma efficace della politica dei governi e diventò la condizione essen...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. La cittadinanza europea compie vent’anni (e nessuno se ne è accorto)
  2. 1. Cittadinanza e nazionalità: ieri e oggi
  3. 2. Aspettando il cittadino europeo: lo «straniero privilegiato» dal Trattato di Roma al Trattato di Maastricht
  4. 3. I casi giurisprudenziali che hanno reso celebre il cittadino europeo
  5. 4. Il cittadino europeo e i suoi diritti: da Maastricht a Lisbona e oltre
  6. 5. La mancata armonizzazione: cittadini, doppi cittadini e migranti
  7. Conclusioni
  8. Riferimenti bibliografici
  9. Ringraziamenti