1. Lingua e cultura
Durante un corso di lingua inglese nel Galles frequentato
da persone adulte provenienti dall’Italia, dal Giappone e
dalla Finlandia, l’intenso lavoro in aula veniva ogni tanto alleviato
da gite all’aperto. Era stata programmata una gita al Monte Snowdon
per il mercoledì, ma il martedì era piovuto tutto
il giorno. La sera, alle dieci, i finlandesi suggeriscono
di rimandare la gita, e il direttore del corso acconsente.
Non appena lo annuncia agli altri, gli italiani cominciano
a protestare: ma come, sospendere la gita! L’avevano sognata
(per saltare le lezioni), era inclusa nel costo del corso,
qualche goccia di pioggia non fa male a nessuno, e i finlandesi
non sono comunque gente forte e robusta? Un po’ imbarazzato,
il direttore consulta i giapponesi, che rispondono molto,
molto gentilmente: se gli italiani vogliono andare, ci vanno
anche loro; ma se la gita è sospesa, sono contenti di lavorare
in aula. Gli italiani prendono in giro i finlandesi, questi tacciono
ma per non perdere la faccia cedono. La gita si fa come
in programma, con partenza alle 8.30. Piove per tutta la notte
e non accenna a smettere neppure durante la colazione.
Alle 8.25, seduti nell’autobus ci sono 18 finlandesi imbronciati,
12 giapponesi sorridenti e nessun italiano. Si parte puntuali,
la pioggia continua, la nebbia nasconde il panorama, la gita
è un disastro. Tornando per il tè delle cinque, si trovano
gli italiani già seduti ai tavoli. Saggiamente erano rimasti a letto.
Quando i finlandesi gli chiedono perché, rispondono:
ma perché pioveva... (adattato da Lewis 2000: 1-2).
In questo primo capitolo discutiamo di lingua e di cultura, due dei concetti chiave che ci servono per inquadrare tutto quello che segue. Potremmo non farlo e andare diritti a discutere di interculturalità e di pragmatica, lasciandone l’interpretazione all’intuizione del lettore: dopotutto chiunque sa che cosa siano la lingua e la cultura – anzi si può avere l’impressione che più si tenta di analizzarle più sfuggano, soprattutto la cultura, che rispetto alla lingua è stata meno studiata in modo sistematico dalla tradizione del pensiero occidentale. Infatti un’autorevole recentissima raccolta di saggi di argomento molto simile a quello trattato in questo libro, intitolata Intercultural discourse and communication. The essential readings, che sarà senz’altro letta largamente e che peraltro raccomando volentieri, decide di non discutere né «il contenzioso problema della cultura stessa» né «l’ideologia della lingua di per sé» (Kiesling e Paulston 2005: xiii). Ne discutiamo qui, invece, non perché riteniamo di potere contribuire alla risoluzione della contenziosità del problema cultura o dell’ideologia lingua, ma perché – come spero di poter dimostrare – l’interculturalità e la pragmatica toccano l’essenza vitale del nostro essere individuale e collettivo, e mi pare perciò opportuno almeno tentare di avvicinarci fin dall’inizio all’origine di questa nostra essenza, che sta appunto nella natura della cultura e della lingua. Se il tentativo comporta il duplice rischio che questioni complicate rimangano oscure o che vengano invece rese eccessivamente semplici, lo corriamo.
Sebbene sia evidente che tra cultura e lingua ci sia un nesso molto stretto, l’esatta natura di questo nesso è difficile da determinare e altamente controversa. Né potrebbe essere altrimenti, dato che sono già estremamente complesse le due nozioni prese individualmente. Incominciamo dunque a vedere che cosa hanno in comune, poi a trattare dell’una e dell’altra separatamente (cfr. §§ 1.1-1.2), per soffermarci infine sui due aspetti della lingua particolarmente interessanti per la nostra discussione interculturale: la lingua in rapporto al pensiero e la lingua in rapporto all’identità (cfr. §§ 1.3-1.4).
Se la cultura è l’intero modo di vivere di un popolo (Williams 1981: 11), la lingua è senz’altro parte della cultura. Quindi cultura e lingua hanno molti aspetti comuni. Ne nominiamo solo i tre fondamentali:
• non-natura
• conoscenza
• comunicazione.
Anche se la capacità di apprenderle – osservando, imitando, provando, sbagliando, interagendo – è biologica, né la cultura né la lingua fanno parte della nostra eredità biologica. Quindi, nella contrapposizione tra natura (innata) e cultura (acquisita), dai grandi filosofi tedeschi Immanuel Kant (1724-1804) e Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) in poi, tutte e due sono considerate non-natura. Siccome vengono apprese, cultura e lingua sono il prodotto dell’apprendimento, e questo non può non essere che conoscenza. In questo senso conoscitivo e cognitivo, né l’una né l’altra sono fenomeni materiali; la cultura non consiste – o almeno non consiste solamente – di oggetti, sentimenti e comportamenti, e la lingua non consiste – solamente – di suoni, parole e strutture. Ma sono tutte e due piuttosto una realtà mentale: è l’organizzazione di tutte queste cose che permette di percepirle, di metterle in relazione l’una con l’altra e di interpretarle (Goodenough 1964: 36). Come realtà mentale organizzatrice, la conoscenza culturale e linguistica è non solo staticamente proposizionale ma anche dinamicamente procedurale. Questo vuole dire che chi vive la cultura e parla la lingua, oltre che conoscere le ‘cose’, condivide anche il modo di pensare, di interpretare il mondo, di fare inferenze e predizioni, ecc. Come realtà mentale o sistemi di segni mentali, appresi e quindi trasmessi e condivisi, sia la cultura sia la lingua sono comunicazione. In questo senso semiotico e sociale, vivendo la cultura e parlando la lingua, per quanto ci sforziamo, non possiamo non comunicare. Poiché quello che comunichiamo è la rappresentazione mentale della realtà, cultura e lingua permettono di stabilire relazioni simboliche tra individui e collettività, e di connettere individui, collettività, situazioni e oggetti con altri individui, collettività, situazioni e oggetti.
Lingua e cultura – tutte e due come non-natura, conoscenza e comunicazione – non sono però la stessa cosa. Da una parte, infatti, c’è chiaramente molta cultura che non ha niente a che fare con la lingua. Per esempio, il rubinetto dell’acqua e La tempesta del Giorgione sono due oggetti culturali, e il sorriso e l’inchino sono due comportamenti culturali; e in questi oggetti e comportamenti la lingua non c’entra. Dall’altra, nella nozione di cultura come pratica cognitiva-interpretativa e sociale-comunicativa della realtà, la lingua occupa un posto assolutamente privilegiato perché è il migliore sistema di classificazione e comunicazione dell’esperienza di cui disponiamo, l’espressione più alta della cultura. Non per niente stiamo usando la lingua per discutere sia della cultura sia della lingua stessa.
Da ora in poi – mai dimenticando che la lingua è parte della cultura – le terremo separate, avendo per così dire da una parte la lingua e dall’altra la cultura, ma – ed è inevitabile – intendendo quest’ultima a volte come (a) l’intera cultura comprensiva della lingua, altre come (b) quello che resta una volta che le abbiamo tolto la lingua – anche se, per abbreviazione, in questo senso (b) continuiamo a chiamarla ancora cultura (Wierzbicka 1986: 368). Perché, se vogliamo studiare il nesso tra lingua e cultura, bisogna in qualche modo non solo separarle, ma anche operazionalizzare queste entità troppo complesse, e vedere se si possono mettere in relazione (diretta?) specifici elementi culturali con specifici elementi linguistici. E questo vuol dire parametralizzarle, parcellizzarle, l’una e l’altra, in elementi osservabili. L’analisi è compito dell’analista, ma nessuna teoria e nessuna metodologia di analisi renderanno mai conto di tutta la realtà e di tutte le sintesi che ognuno di noi opera quotidianamente vivendo la cultura e parlando la lingua.
1.1. La cultura
Dalla fine dell’Ottocento, fa testo la classica definizione dell’antropologo inglese Edward Burnett Tylor (1832-1917), secondo cui:
La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società (Tylor [1871] 1970: 8).
Poi studiosi diversi ne sottolineano e interpretano aspetti diversi. Da una parte, per esempio, Goodenough (1964: 36) insiste sul valore mentale, conoscitivo della cultura:
la cultura di una società consiste di qualunque cosa uno deve sapere o credere per operare in modo accettabile ai suoi membri [...]. La cultura, essendo quello che la gente deve imparare, diverso dall’eredità biologica, deve consistere del prodotto finale dell’apprendimento: conoscenza, nel senso più generale, anche se relativo, del termine.
Dall’altra, Rossi-Landi (1973) la concepisce come sistema di mediazione tra l’uomo e l’ambiente, e in questo modo recupera molta della fisicità trascurata da un’interpretazione più cognitiva. Come mezzo o strumento, infatti, la cultura tipicamente media: tra l’uomo e il suo cibo ci sono la forchetta e la cucina (cfr. Montanari 2004), tra l’uomo e la pioggia c’è l’ombrello, ma anche tra uomo e uomo ci sono il gesto e la parola, e tra l’uomo e se stesso c’è il pensiero.
Da un’altra parte ancora, per Bourdieu (1990) la cultura non è né qualcosa di semplicemente interno, presente nella mente individuale, né qualcosa di semplicemente esterno all’individuo, presente nei rituali o simboli tramandati dalla società, ma piuttosto qualcosa che esiste come habitus, un sistema di disposizioni con una dimensione storica attraverso cui l’individuo partecipa in attività che gli permettono di sviluppare una serie di aspettative sul mondo e sul suo modo di stare al mondo (cfr. Duranti 1997: 44-45). Viene così tentata una conciliazione della dicotomia tra il soggettivismo e l’oggettivismo che divide oggi le scienze sociali (cfr. § 3.4): il soggetto, attore umano, può esistere culturalmente e funzionare solo come partecipante in una serie di attività abituali, routinizzate, che sono sia presupposte sia riprodotte dalla sua azione individuale.
Nello studio della cultura ha sempre avuto grande importanza la dimensione comparativa, anche se poi non si è mai risolta la disputa tra chi la sostiene evidenziando gli aspetti diversi tra le varie società e chi invece l’avversa sottolineandone gli aspetti comuni. Una seconda dimensione su cui ancora non si placano le divergenze è quella del livello di analisi: se si possa capire meglio la cultura con indagini a livello micro che scavano a fondo un solo tema (come può essere quello della parentela) tra un piccolo gruppo di individui, o con indagini a livello macro che mettono in relazione tra intere nazioni costrutti già compositi (come possono essere la religione o il prodotto interno lordo). Una terza disputa riguarda la metodologia di ricerca: se sia meglio un’analisi di tipo qualitativo o una di tipo quantitativo. Queste dimensioni si intersecano a vicenda dando luogo a diverse strategie di ricerca, anche se di fatto alcuni abbinamenti risultano privilegiati. Per esempio, una ricerca etnometodologica di grana fine ...