La laurea negata
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La laurea negata

Le politiche contro l'istruzione universitaria

  1. 160 pagine
  2. Italian
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La laurea negata

Le politiche contro l'istruzione universitaria

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In un mondo in cui i livelli di istruzione superiore sono decisivi per il progresso economico e l'inclusione sociale, l'Italia sta operando da dieci anni un forte disinvestimento sull'università. Per la prima volta dall'Unità si sono ridotti gli immatricolati. È cresciuto il costo degli studi. L'università italiana è diventata ancora più povera nel confronto europeo. Un'intera generazione di studiosi è stata costretta alla precarietà o alla fuga. Inoltre, processi di valutazione estremamente discutibili stanno riconfigurando il sistema, principalmente a danno degli atenei del Centro-Sud. Tutto questo ha gravi conseguenze per i giovani italiani di oggi e di domani. Una vicenda che deve interessare tutti i cittadini, non solo gli esperti.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858132128

1.
Uno sguardo d’insieme

Questo libro ha l’obiettivo di mettere in luce ciò che è cambiato nell’istruzione universitaria italiana in seguito alle scelte compiute nell’ultimo decennio. Dà un giudizio complessivamente negativo di quanto è avvenuto. Con le scelte che sono state operate e le trasformazioni che ne sono scaturite si sono fatti grandi passi verso un paese con minori livelli di istruzione, minori opportunità per i giovani; verso un sistema dell’istruzione superiore e della ricerca più angusto e più debole, con squilibri territoriali profondi e crescenti.
Non è un libro per gli addetti ai lavori. Questi temi non riguardano solo gli universitari. Hanno conseguenze profonde su tutti i cittadini italiani: conseguenze economiche, sulla capacità di irrobustire aree di ricerca che rafforzano le sue imprese e alimentano il suo sviluppo; sociali, sulla possibilità di contrastare il protrarsi delle disuguaglianze tra famiglie e individui e accrescere la mobilità; civili, sulla formazione delle classi dirigenti e sulla partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica; territoriali, sul ruolo degli atenei come protagonisti dei processi di trasformazione delle società e delle economie regionali.
È opinione diffusa, e condivisibile, che in Italia siano indispensabili processi di riforma in diversi campi. Troppo poco si discute però su quali siano le necessità, le esigenze di rinnovamento e di adeguamento ai tempi che si vogliono soddisfare. Si danno per scontate, ma così non è. Le finalità delle riforme possono essere molto diverse, a seconda dell’indirizzo politico con cui vengono promosse. Nel secondo dopoguerra avevano obiettivi di fondo comuni: attuare il dettato costituzionale, ampliare i diritti e le opportunità dei cittadini; i riformisti si contrapponevano ai conservatori. Oggi non è più così. E, come nel caso dell’università, le riforme possono ridurre quei diritti e quelle opportunità; possono far compiere al paese un percorso all’indietro.
È anche molto importante capire – come si proverà a fare – chi fa le riforme: chi ha deciso, e con quali modalità, i passi che sono stati compiuti. Solo in parte sono stati discussi e deliberati dal Parlamento. Per una parte molto rilevante sono stati definiti da ristretti gruppi di persone, anche in conflitto di interessi. Con un insieme di norme e provvedimenti che hanno prodotto un quadro straordinariamente complicato, scarsamente intellegibile agli stessi interessati, e del tutto incomprensibile per i cittadini, privati della capacità di comprendere – e quindi di giudicare – quel che è successo.
Meglio una cattiva riforma che nessuna riforma; chi si oppone alle riforme è sempre conservatore. Due affermazioni diffuse, ma assai discutibili. Nelle pagine che seguono si proverà ad argomentare che i cambiamenti dell’ultimo decennio hanno significativamente peggiorato la situazione dell’università italiana, e che su molte questioni era certamente possibile immaginare interventi alternativi senza lasciare le cose come stavano. Se l’Italia realizza le riforme come nel caso dell’università, cambia ma peggiora. Va all’indietro, come il gambero.

Austerità e riforme strutturali

Il nuovo secolo non è stato, finora, un periodo positivo nella storia economica dell’Italia. Già nei primi anni l’andamento dell’economia non era apparso particolarmente buono. Le interpretazioni più accreditate ne attribuiscono la causa a questioni strutturali. L’Italia è un paese con crescenti difficoltà dovute ai cambiamenti dell’economia internazionale: colpito più di altri dalla concorrenza dei paesi asiatici emergenti, in particolare della Cina; meno di altri capace di trarre profitto dalla diffusione delle nuove tecnologie; privato dall’adozione dell’euro della valvola di sfogo di un deprezzamento della valuta per rilanciare le esportazioni, come avvenuto fino a pochi anni prima; con tassi di crescita della produttività molto bassi e un’ampia, persistente disoccupazione; appesantito dalle inefficienze diffuse del suo settore pubblico, ma anche da vaste aree di economia privata sottratta o posta al riparo della concorrenza. Emergeva, già all’inizio del secolo, la convinzione che non fossero più sufficienti piccoli aggiustamenti, ma occorresse mettere mano ad alcuni elementi di fondo del modello italiano, fare alcune riforme.
Con la grande crisi avviatasi nel 2008 è cominciato il periodo economico peggiore della storia unitaria: la recessione è stata la più forte di sempre, maggiore di quella degli anni Trenta del Novecento. Produzione e occupazione si sono contratte più che negli altri paesi, la ripresa è stata più lenta, è cresciuta ancora molto la disoccupazione (specie fra i giovani) e si sono approfondite le disparità territoriali e individuali. Larghe fette della società, soprattutto i ceti medi, hanno percepito e lamentato un malessere profondo. La crisi migratoria ha accentuato insicurezza e disagio. L’idea che siano necessari interventi profondi, di riforma, si è fatta più diffusa.
Sì, ma quali riforme? In che direzione portare il paese? Dalle regole dell’austerità europea sono venute indicazioni molto chiare: il problema principale dell’Italia è il suo elevato debito pubblico; la priorità per rilanciare lo sviluppo è ridurre la spesa pubblica. Poco importa che questa ricetta si sia rivelata, specie nella sua fantasiosa versione dell’“austerità espansiva” sostenuta da alcuni economisti italiani, fallace: per molti anni politiche fiscali molto restrittive si sono accompagnate ad un aumento (e non ad una diminuzione) del debito pubblico espresso in percentuale del PIL, proprio perché hanno favorito il prolungarsi di una estenuante recessione. L’altro mantra, insieme a quello dell’austerità, è stato quello delle “riforme strutturali”: un’agenda di interventi di de-regolamentazione e ri-regolamentazione, di semplificazioni e sburocratizzazioni, di privatizzazioni, in cui si sono mescolate esigenze e proposte di natura e portata molto varia. L’attenzione politica e mediatica è stata tutta sul fare “le riforme”, come se gli indirizzi e i contenuti fossero ovvi; assai meno su quali, sul come e sui loro effetti di lungo periodo. I tagli alla spesa e le riforme strutturali sono diventati il faro per guidare il cammino del paese. Il viatico per un rilancio garantito dalla riduzione delle tasse.
Quanto e dove tagliare, quanto velocemente cambiare sono divenuti il principale ambito di competizione nelle proposte dei movimenti politici. Questo è avvenuto per più motivi.
Hanno contribuito a queste tendenze le convinzioni granitiche di molti esperti, con un ruolo importante come commentatori sulla stampa o in televisione o come consulenti politici, per cui solo un grande bagno purificatore nel liberismo può far sopravvivere il paese, con la riduzione del suo settore pubblico (detestato a priori, non riformabile, da combattere frontalmente).
Ha contribuito il grande sostegno popolare per la lotta alla corruzione: fondamentale, certo, ma alimentata da un vento populista per cui tutte le istituzioni pubbliche sono permeate dal malaffare, e occorre sempre diffidarne, se possibile commissariarle con l’intervento degli “onesti”.
Hanno contribuito le paure di molte famiglie di vedere ulteriormente aggravate le proprie condizioni economiche, e quindi il desiderio di vedere ridotta la pressione fiscale: con benefici nell’immediato sul reddito disponibile, ma senza preoccuparsi troppo delle conseguenze della riduzione di spesa su strade, scuole, ospedali che pure utilizzano. Un’attitudine alimentata dal declino delle speranze di un rilancio del paese nel suo insieme, dalla sfiducia, dal pessimismo: non importa quel che succede all’Italia; importa solo quel che succede alla mia famiglia e ai miei figli, al massimo alla mia città.
Hanno contribuito, ancora, le pulsioni di egoismo territoriale delle aree più ricche del paese, già emerse da tempo, e che trovano nuova linfa nella battaglia affinché i tagli alla spesa si concentrino nelle aree più deboli, riducendo la contribuzione dei cittadini più agiati al finanziamento dei grandi servizi pubblici nazionali.
Ha contribuito il sistema dell’informazione, alle prese con un calo fortissimo di audience (e di incassi, almeno per la carta stampata) e di credibilità, che in alcuni casi si è lanciato, sperando di recuperare qualche lettore e spesso con scarsa competenza, nella sistematica denigrazione dei grandi servizi pubblici.
Intendiamoci. Il peso di un debito pubblico così grande, la necessità di finanziare il pagamento degli interessi, le preoccupazioni che essi generano in un sistema finanziario internazionale con una mobilità dei capitali molto alta sono problemi seri. La crisi dello spread (la differenza nei tassi di interesse sui titoli pubblici italiani e tedeschi) è lì a ricordarcelo. È vero anche che il settore pubblico italiano presenta larghe sacche di inefficienza e problemi rilevanti di equità, produce sovente servizi di modesta qualità per i cittadini e le imprese, e mostra fenomeni corruttivi diffusi, persistenti. Vi è necessità di una sua progressiva, sensibile, reingegnerizzazione. Ma una parte rilevante della proposta politica e dell’azione di governo non ha teso ad affrontare questi nodi guardando al futuro. Ha guardato al presente, sollecitato consenso attraverso parole d’ordine accattivanti ma vuote, con provvedimenti molto visibili e di impatto immediato, senza occuparsi troppo delle conseguenze di lungo termine. L’aggiustamento di bilancio è avvenuto tagliando gli investimenti pubblici, la spesa che serve a mantenere e ammodernare il capitale pubblico – i boschi come gli acquedotti –, a realizzare le grandi reti e i servizi di comunicazione e di trasporto indispensabili nell’economia contemporanea, a modernizzare e potenziare le città italiane, che sono i luoghi delle nuove idee e delle nuove imprese. Ancora nel 2016 gli investimenti pubblici erano di un terzo inferiori rispetto alla media 2000-09; nel 2010-15 ne sono venuti a mancare per 75 miliardi. E ancor più che l’investimento sul capitale fisico è stato tagliato quello sul capitale umano e sulla ricerca.

Un pensiero unico

È in questo quadro che l’Italia ha compiuto, a partire dal 2008, una delle scelte che più peseranno sul suo futuro: quella di comprimere e distorcere il proprio sistema universitario pubblico.
Il processo è stato avviato prima delle politiche di austerità e dell’enfasi sulle “riforme strutturali”. Ma dal clima politico-culturale cui si è accennato ha tratto forte alimento. La volontà politica del ministro Tremonti di colpire finanziariamente le università ha incontrato gli interessi di alcuni atenei a definire un sistema su più livelli di qualità, in cui essi fossero al vertice. Le parole d’ordine neo-liberali, derivate in particolare dall’esperienza del Regno Unito, sono penetrate anche in ambienti del centro-sinistra “moderno”. L’idealizzazione di un centro riformatore, composto da pochi “illuminati”, in grado di assestare una severa punizione alle autonomie e di portare il sistema sulla strada giusta, ha mescolato l’idealizzazione della concorrenza di mercato applicata al sistema universitario con l’esercizio di un forte potere gerarchico.
Il sistema è stato radicalmente trasformato da una valanga di norme. Il Parlamento ha approvato una legge di riforma (la “Gelmini” del 2010) di portata piuttosto ampia, ai tempi del governo Berlusconi. Ma i suoi effetti sono stati amplificati e precisati da un vasto insieme di provvedimenti successivi. Cambiato il governo, non sono mutate per nulla le scelte politiche; anzi, un filo coerente si è dipanato attraverso l’azione di esecutivi apparentemente di indirizzo ben diverso: da Berlusconi a Monti, a Letta, con forte slancio con Renzi. Come se questi governi avessero idee identiche sul presente e sul futuro di una istituzione così complessa e articolata come l’università. Come se non ci fossero più differenze sui grandi temi che le politiche universitarie coinvolgono: l’universalismo dei diritti, costi e benefici dei servizi pubblici, lo sviluppo territoriale, gli indirizzi per la ricerca. Condividendo un pensiero unico che ha attraversato tutto il decennio.
Un pensiero che corrisponde a una narrazione sommaria: l’università italiana, come si vede dalle classifiche internazionali, è scadente e i suoi professori non sono promossi per merito; lavorano poco e in modo antiquato: fanno poca ricerca sugli standard internazionali; gli studenti sono troppi, e molti sono pigri, “fuori corso” e vogliono studiare sotto casa. Non vale quanto costa allo Stato. È un prodotto dell’Italia del passato, della Prima Repubblica, della spesa pubblica e delle assunzioni facili. Occorre allora praticare la valutazione e premiare il merito; selezionare diversamente i docenti e incentivare gli studenti a muoversi e a frequentare gli atenei migliori; è necessario sostenere i corsi di laurea moderni e utili, legati direttamente al mondo del lavoro. Disboscare la rete delle università; concentrare le risorse finanziarie su alcune, di eccellenza, e fare in modo che le altre costino molto meno alla collettività.
Una comunicazione che strizza l’occhio all’Italia preoccupata dalla crisi e attenta al proprio particolare. “Risparmio”, per tutelare il portafoglio del contribuente; “merito” al posto della spesa pubblica a pioggia del passato, per combattere i corrotti e i fannulloni; indicatori “oggettivi” e tecnici al posto di scelte politiche; la tutela degli interessi dei territori più forti.
Una piccola élite ha messo in pratica questi indirizzi: alcuni dei ministri che si sono succeduti, specie quelli provenienti dalle file delle università; alcuni dirigenti apicali del ministero; alcuni consulenti della presidenza del Consiglio; alcuni docenti chiamati a guidare la nuova Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca, l’Anvur. Come sta avvenendo per altre importanti politiche pubbliche (ad esempio i criteri di finanziamento degli enti locali), l’effettivo potere decisionale è stato di fatto sottratto alle rappresentanze parlamentari e concentrato nelle mani di pochi esperti. Essi, apparentemente, sono immuni dai condizionamenti deteriori della politica, sanno quel che serve al paese, operano in base a criteri oggettivi di efficienza e di merito. In realtà, sono orientati dalle proprie convinzioni politico-ideologiche, in ossequio alle quali costruiscono gli indicatori e le norme: che presentano però sempre come scelte tecniche, mascherandone i criteri di selezione e le conseguenze politiche.
Il processo di trasformazione dell’università italiana non è scaturito da un progetto trasparente che sia stato valutato con attenzione almeno dalle classi dirigenti del paese e sia stato oggetto di discussioni parlamentari. Di cui siano stati soppesati i pro e i contro o analizzate le conseguenze a medio e lungo termine. Nelle rare volte in cui è stata approvata una mozione parlamentare, sono stati espressi indirizzi diversi rispetto alle politiche in corso. Ma ciò non ha prodotto alcun effetto. Si è proceduto per decreti e regolamenti. Negli ultimi anni le decisioni più importanti sono state incluse nell’insieme assai composito delle norme delle Leggi di Stabilità, non discusse nel merito e approvate con la fiducia. La stessa Corte Costituzionale, chiamata in causa a seguito di un ricorso di una università sulla definizione di uno degli indicatori più importanti, ha sottolineato come scelte così radicali non possano essere prese nelle “chiuse stanze” ma debbano essere soggette a scrutinio e valutazione delle Camere. Solo con il governo Gentiloni, nel 2017, il furore riformatore sembra essersi un po’ arrestato, ed è stata apportata qualche opportuna correzione. È stata gettata un po’ di sabbia negli ingranaggi: ma i meccanismi messi in moto continuano a produrre i loro effetti. Senza un forte intervento politico, li produrranno ancora in futuro.

La trasformazione dell’università

L’università italiana aveva problemi di quantità e di qualità. Era molto più piccola, in comparazione con gli altri paesi avanzati. Mostrava criticità nel suo funzionamento: se ne parlerà, di volta in volta nelle prossime pagine. Le riforme l’hanno portata in una direzione estremamente discutibile: l’hanno fatta diventare di dimensione inferiore, ma non di migliore qualità. Nel giro di pochi anni l’Italia ha percorso a grandi passi all’indietro il cammino verso un maggiore livello di istruzione superiore della sua popolazione. L’università italiana, per la prima volta nella sua storia, è diventata più piccola: di circa un quinto. La riduzione è stata maggiore di quanto non sia avvenuto negli altri comparti dell’intervento pubblico. Né ha paragoni negli altri paesi colpiti dalla crisi. Va comparat...

Indice dei contenuti

  1. 1. Uno sguardo d’insieme
  2. 2. Perché l’università è importante
  3. 3. Risparmiare sull’istruzione
  4. 4. Meno studenti, pochi laureati
  5. 5. Buone e cattive università?
  6. 6. Valutare per migliorare?
  7. 7. Istruzione e sviluppo regionale
  8. 8. Cambiare strada
  9. Nota bibliografica