I sovversivi
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I sovversivi

In terra di mafia la normalità è rivoluzione

  1. 160 pagine
  2. Italian
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I sovversivi

In terra di mafia la normalità è rivoluzione

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Per ricostruire l'etica pubblica bisogna andare a cercare le storie di chi, in questi anni, l'ha difesa alzando un presidio di civiltà contro chi voleva consegnare il nostro paese alla malavita e al malaffare. Ecco allora l'esempio dell'amministrazione palermitana dei beni confiscati alla criminalità organizzata che, con una gestione manageriale, riesce a riscuotere milioni l'anno di affitti, del monsignore che nega i funerali ai mafiosi, di quelle librerie che diventano luoghi di incontro e ritrovo per tutti coloro che non si rassegnano. Perché in terra di mafia anche un libro, perfino un libro, può diventare simbolo di ribellione alla subalternità e alla rassegnazione.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788858110294

I. Non tutti i sindaci sono uguali

Il sindaco di Gela è un tipo tranquillo. Anzi, per meglio dire, mite. Almeno apparentemente. Non ha affatto la faccia di un capopopolo. E neppure gli atteggiamenti. Tutto l’opposto del suo predecessore Rosario Crocetta, che Anna Maria Cancellieri, ministro dell’Interno del governo Monti, ha definito «un profeta solitario nel deserto» per la sua lotta contro la mafia all’inizio degli anni Duemila in quella che allora veniva definita una piccola capitale della criminalità organizzata. Crocetta è passato alla storia per essere un tipo vulcanico. Riconfermato sindaco di Gela, lascia l’incarico per andare al Parlamento europeo, dove è stato nominato vicepresidente della Commissione speciale antimafia costituita anche su sua sollecitazione. Anche da candidato alla presidenza della Regione siciliana ha fatto di tutto per non smentirsi. E poi, da presidente dei siciliani, ha sin da subito messo il dito nella piaga: la corruzione dell’apparato burocratico, le infiltrazioni mafiose e un sistema che ha da sempre favorito il malaffare. Dichiarazioni reboanti. E in queste cose, si sa, la comunicazione ha un valore che va oltre ogni immaginazione. Serve a far capire che l’aria è cambiata. Sarà poi la storia a giudicare se è cambiata veramente.
L’avvocato Angelo Fasulo, attuale primo cittadino di Gela, ha invece un tono di voce così dimesso che a volte è necessario uno sforzo per poterlo sentire. Ti appare subito come la giusta compensazione di Crocetta, agit-prop in servizio permanente effettivo, eccessivo, artefice di grandi rotture prima di tutto culturali, in una città da troppo tempo abituata al sangue e alla prepotenza di due mafie, la Stidda e Cosa nostra, a lungo alleate anche per la gestione del potere e dei traffici economici in questa appendice di Sicilia: fino a qualche tempo fa, estorsioni e appalti nell’indotto della raffineria dell’Eni, nella gestione della raccolta dei rifiuti solidi urbani e nei lavori pubblici del Comune.
Serviva un messaggio forte in questa terra segnata a fondo dalla guerra di mafia e dall’azione quotidiana di giovani assassini capaci di tutto, e l’ex sindaco è stato in grado di darlo avendo compreso che l’antimafia (o forse la gran parte dei cittadini onesti di Gela) aveva bisogno di un linguaggio eccessivo per disinnescare il fascino del potere e della violenza che le famiglie mafiose continuavano a esercitare.
Fasulo si è trovato a gestire questa difficile eredità, un Comune con 800 impiegati, divenuto simbolo dell’antimafia ma con una governance amministrativa, dice lui, tutta da costruire. Il lavoro che aveva e ha davanti è arduo: fare del Municipio un punto di riferimento per la gestione della normalità in una città che vuole darsi un’identità moderna, ordinata, positiva. Crocetta era riuscito a polarizzare intorno a sé il mondo dell’antiracket, il cui protagonista è stato senza ombra di dubbio Renzo Caponetti, un uomo gentile e dimesso, un imprenditore che ha raccolto l’eredità del gioielliere Gaetano Giordano, ammazzato il 10 novembre del 1992 per essersi opposto al racket e aver denunciato i propri aguzzini. E a Giordano è dedicata l’associazione che Caponetti guida: è grazie a questo impegno che Gela ha raggiunto il primato in Italia per numero di denunce contro racket e usura. «L’associazionismo antiracket nella città – afferma Francesco Crimaldi, amministratore delegato della società proprietaria della clinica Santa Barbara fondata qui da Enrico Mattei – ha operato in questi anni nel silenzio. Conta 400 aderenti con 120 casi di denunce da parte degli imprenditori e il risultato di alcune sentenze di condanna passate in giudicato».
C’è voluto il tempo necessario a segnare una cesura con il passato, con quel retaggio di mafia che Gela si porta dietro sin dall’insediamento dell’Eni e dal patto scellerato degli anni Sessanta con gli uomini di Cosa nostra da parte dell’imprenditoria locale e non solo quella. Altri tempi: persino i procuratori della Repubblica negavano che la mafia esistesse e pertanto appariva normale stringere patti o fare alleanze con i mammasantissima. Così, se Crocetta è il più noto tra gli esponenti politici siciliani, Fasulo – secondo il giudizio dei suoi concittadini – è più concreto o meglio, per sua stessa ammissione, è uno che aspira alla concretezza. Sua, per esempio, l’iniziativa di adottare un modello di organizzazione per il Comune sulla base del decreto legislativo 231/2001, che prevede solo per i soggetti giuridici privati regole di governance societaria stringenti e definite per prevenire le infiltrazioni criminali (mafiose e non) e i rapporti deviati con i rappresentanti della pubblica amministrazione ai fini della lotta alla corruzione: un passo avanti e innovativo nella distribuzione delle responsabilità per il contrasto alla criminalità. Il modello 231 prevede infatti una precisa divisione delle mansioni e pone i funzionari di fronte a scelte altrettanto precise, mettendoli allo stesso tempo al riparo dal ricatto, dalle minacce, dalle promesse: in una amministrazione di circa 800 dipendenti e in cui ha lavorato la moglie (licenziata da Crocetta) di Daniele Emmanuello, ritenuto uno dei più crudeli esponenti di Cosa nostra, è una vera e propria rivoluzione.
Le ricadute, con la nuova governance antimafia, sono indubbie soprattutto per quanto riguarda l’attribuzione degli incarichi ai professionisti, l’espletamento di gare d’appalto o gli affidamenti diretti alle imprese. Così come sono indubbie le ricadute di un altro importante atto varato dall’amministrazione di Gela: il pagamento delle fatture dei fornitori per ordine cronologico di arrivo. Si rompe un meccanismo: quello dei privilegi, del favore, della collusione e a volte anche della corruzione. Quanti sono gli enti pubblici, locali e non solo, che hanno adottato questi criteri per pagare i fornitori? Al Sud non più di dieci o al massimo venti, secondo una stima attendibile.
Gli atti amministrativi, declinazione naturale della norma, fanno paura ai mafiosi perché tagliano il cordone con gli affari, impediscono le speculazioni e sono in grado di cambiare le cose prima ancora che arrivino nelle mani della mafia: nel momento in cui sono ancora atti legali e non sono direttamente collegabili a questa o a quella famiglia criminale. I mafiosi e i loro consiglieri conoscono bene questi meccanismi; in provincia di Caltanissetta, a pochi chilometri da Gela, la famiglia mafiosa dei Di Cristina (Francesco sarà nominato poi sindaco dagli americani) cominciò a praticare l’infiltrazione nel Comune (di Riesi, in quel caso) sin dai primi decenni del Novecento inserendosi nei ranghi del Partito popolare appena fondato da don Luigi Sturzo. Il Comune è il primo livello politico di controllo del territorio per i mafiosi, che attraverso questo controllo acquisiscono consenso da far valere poi sui tavoli della politica che conta.
A Gela, per anni, è accaduto che la gente costruisse abusivamente, speculando sull’edilizia oppure semplicemente investendo negli appartamenti edificati in una notte con il tufo giallo i propri risparmi o le rimesse provenienti da una vita di sacrifici nelle fabbriche della Germania o di chissà dove. Quell’abusivismo ha abbrutito Gela, ha alimentato quartieri ghetto, ha contribuito a costruire la fama di una città fuori dalle regole: negli ultimi quarant’anni sono mancati un piano regolatore generale e strumenti di programmazione del tessuto urbano.
Case senza servizi, prive di qualsiasi presupposto per una loro regolarizzazione, che la cattiva politica ha trovato il modo di sistemare, di rendere abitabili: palazzi, non semplici catapecchie. Un costume che lentamente la semplice applicazione delle regole sta smobilitando, grazie all’alleanza con la Procura della Repubblica guidata da Lucia Lotti, magistrato di origine toscana per anni in prima linea a Roma in delicate indagini sulla mafia, che ha scelto di venire a vivere in questa appendice di Sicilia. «Un luogo molto distante dalle descrizioni che ne fanno i media nazionali», la definisce. Già.
Il cambiamento di Gela è stato riassunto da Lucia Lotti in un fascicoletto di formato A4 in cui qualche tempo fa ha sintetizzato in numeri brutali questa piccola rivoluzione: quei fogli contengono il numero di sequestri delle abitazioni costruite abusivamente e dicono che in tre anni l’abusivismo edilizio nella città si è ridotto di 2/3. Tra luglio 2008 e giugno 2009 i procedimenti per abuso edilizio erano 323 nel comprensorio e 284 nella sola Gela; l’anno dopo i procedimenti si sono ridotti a 237 nel comprensorio e 182 nella città e tra luglio 2010 e giugno 2011 addirittura a 112 in tutto il Gelese e 95 nel centro abitato. L’amministrazione ha avviato le prime demolizioni grazie all’intesa con un’impresa nata da risorse confiscate alla criminalità organizzata e ha emesso un’ordinanza in cui si vieta, così come previsto dalla legge, la fornitura di acqua, luce e gas agli abusivi. «È capitato che per le demolizioni di immobili abusivi le ditte non si presentavano alle gare e questo non deve più succedere – dice Lucia Lotti –. La demolizione va fatta perché il territorio deve recuperare la sua dignità nel campo urbanistico».
Fasulo ha approvato il piano regolatore generale e preparato il piano di mobilità e quello dei trasporti. «Questo consente di tracciare i confini di quello che può essere fatto – sostiene il sindaco –. Naturalmente, adesso occorre lavorare sul piano culturale». Ma il problema, per le demolizioni, è diventato soprattutto il reperimento dei fondi necessari visti i costi elevati per la bonifica delle aree. Intanto alla repressione si accompagnano azioni di riqualificazione del tessuto urbano: il nuovo Palazzo di Giustizia, opera certamente meritoria ma in sé disgraziata perché c’è il sospetto che contenga cemento depotenziato di origine mafiosa, ospita al suo interno le opere di un’artista spagnola vincitrice di un bando al quale hanno partecipato artisti italiani e stranieri.
Ma il cambiamento più difficile è proprio quello culturale: «non è facile far prendere consapevolezza del fatto che è finito il periodo dell’abusivismo e che occorre rispettare le regole. Occorre capire che la sola proprietà di un terreno non dà il diritto di costruire», afferma il sindaco. A quello del primo cittadino si affianca il parere di Ignazio Giudice, giovane e battagliero sindacalista della Cgil, oggi segretario della locale Camera del Lavoro: «Le speculazioni nell’edilizia sono sempre dietro l’angolo, ci vuole un cambiamento di approccio con la città. I gelesi devono amare la città e per amarla non la devono imbruttire. Ma soprattutto servono regole nuove: nel caso di denunce degli operai, per esempio, bisogna trovare il modo di tutelare la fascia più debole, che è appunto quella dei lavoratori. Una tutela che deve avvenire sempre e ovunque siano collocate le aziende: anche quelle che fanno parte delle associazioni antiracket devono rispettare le regole e rispettare i lavoratori. Anzi proprio queste a maggior ragione devono rispettare i lavoratori. Credo che una città normale si costruisca anche con queste azioni di controllo, che possono essere affidate alle associazioni antiracket perché si può essere illegali senza per questo essere mafiosi».
Crocetta, cui va riconosciuto il merito di aver avviato una stagione di cambiamento nella sua città, ha fatto tanta strada politica fino a diventare presidente della Regione siciliana, ovvero a occupare il posto che fu di Salvatore Cuffaro, finito in carcere con una pesante condanna per aver favorito la mafia; un posto che fu di Piersanti Mattarella, il presidente ucciso dai mafiosi per aver avviato una coraggiosa stagione di riforme. Arrivato alla presidenza della Regione sulla base di un programma che lui definisce rivoluzionario, Crocetta ha subito fatto capire di che natura fosse la sua rivoluzione: «Caccerò la mafia dalla Regione», ha dichiarato. Tra i primi effetti dell’impegno del governatore rosso: una lettera di minaccia recapitata al presidente dei costruttori palermitani Giuseppe Di Giovanna, con pesanti riferimenti all’esponente politico gelese.
Cacciare la mafia dalla Regione significa mettere alla porta i comitati d’affari, gli intermediatori, i parassiti della spesa pubblica. Cambiare tutto. Crocetta ha avviato un maxipiano di rotazione partendo dagli assessorati più esposti sul piano delle inchieste: quello della formazione professionale, settore che assorbiva oltre 300 milioni l’anno e in cui è stato scoperto un ente in odore di mafia e funzionari che dirottavano le risorse pubbliche sui propri conti correnti, e quello dell’energia, sul quale il giornalista Giuseppe Oddo ha condotto una documentatissima inchiesta pubblicata dal quotidiano «Il Sole 24 Ore»: «Le richieste di autorizzazione delle imprese non venivano mai protocollate: erano accatastate negli stanzoni e persino nei bagni», racconta una fonte anonima all’inviato del quotidiano economico a proposito di pratiche corruttive e di personaggi mafiosi ai quali era consentito entrare e uscire dall’assessorato. «C’era un caos organizzativo voluto: 15-16 mila istanze che aspettavano di essere esaminate, alcune addirittura dal 2006, e corsie preferenziali per amici e raccomandati». Da gestire soprattutto le autorizzazioni per la costruzione di nuove centrali elettriche da fonti alternative e rinnovabili (eolico e fotovoltaico). «Un impianto eolico di taglia medio-piccola può fruttare fino a 1,5 milioni di utile al mese», spiega nell’articolo il cronista prendendo atto di come un sì o un no possano avvantaggiare un disonesto a danno di un gruppo industriale serio. E quella del governatore è stata la più evidente delle rivoluzioni normali, considerato che è stato fatto ciò che è giusto: applicare la legge. Una norma, frutto di un lavoro di collaborazione con una commissione guidata dall’ex procuratore antimafia Pier Luigi Vigna, morto nel 2012, e approvata dall’Assemblea regionale, prevede infatti che vi sia in tutti i dipartimenti della Regione siciliana la rotazione periodica del personale, il rispetto dell’ordine cronologico nella trattazione delle pratiche, l’identificazione di coloro che accedono ai pubblici uffici. E ancora: formazione dei dipendenti sui rischi di infiltrazione mafiosa nella pubblica amministrazione, soprattutto per i dipendenti del settore degli appalti, urbanistica ed edilizia. In particolare, spiegò all’atto della pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale» della Regione siciliana l’assessore del tempo, il magistrato Caterina Chinnici, figlia di Rocco trucidato dalla mafia, «l’articolo 15 della legge 5/2011 ha concentrato l’attenzione della pubblica amministrazione regionale sulla formazione, prevenzione e su ogni altra attività utile che possa impedire infiltrazioni della criminalità organizzata nella macchina burocratica. Le norme richiamate hanno un duplice scopo, da un lato tutelare il dipendente dall’esposizione a ingerenze esterne e dall’altro codificare una serie di misure minime, dalla rotazione periodica del personale al rispetto dell’ordine cronologico nell’istruttoria delle pratiche alla regolamentazione per l’accesso negli uffici pubblici, per elevare il livello di impermeabilità dell’amministrazione».
Resta però il fatto che nell’amministrazione regionale non riescono ad attecchire un paio di norme di buon senso oltre che dal sicuro effetto anticorruzione: il pagamento dei fornitori per ordine cronologico è una di queste norme, suggerite più volte dagli imprenditori all’amministrazione.
Gela è solo una delle estremità di un triangolo: le altre sono Niscemi e Vittoria. Aree diventate zone predilette per le scorribande e le guerre sanguinarie della Stidda e degli stiddari nella loro furia scissionista nei confronti di Cosa nostra e tra loro, per il dominio della fascia che va da Vittoria fino ad Agrigento: e non si tratta di aree dell’entroterra siciliano interessate da pesante arretratezza, come si potrebbe pensare, ma di territori in cui c’è un’agricoltura florida. Da qui arriva la gran parte dell’ortofrutta italiana e qui, a Vittoria, si trova uno dei più grandi mercati ortofrutticoli europei alla produzione.
A Niscemi, per dire, c’è una coltivazione intensiva di carciofo violetto ma ci sono anche coltivazioni serricole di livello industriale e lo stesso avviene a Vittoria. Il Comune di Niscemi, che è stato sciolto più volte per infiltrazioni mafiose, è stato governato per cinque anni, dal 2007 al 2012, da un’amministrazione di centrosinistra con a capo Giovanni Di Martino, un avvocato schierato a difesa delle vittime di mafia e da sempre in prima linea contro la criminalità organizzata: per il suo impegno di primo cittadino è stato anche minacciato.
Niscemi è un paese simbolo, nel male e nel bene. È il paese in cui la frana, ferita aperta nel cuore della terra argillosa indispettita dalla violenza degli uomini, si è mangiata interi quartieri. È il paese in cui i militari dell’Allean­za atlantica, le forze degli Stati Uniti, hanno deciso di costrui­re il Muos (Mobil User Objective System) nel cuore di una riserva, la cosiddetta Sughereta: tra le aziende al lavoro per la posa del basamento in cemento vi è stata anche un’impresa sospettata di collusioni con la mafia. Niscemi è un simbolo perché qui qualche anno fa un gruppo di cittadini, per evitare che la mafia incendiasse per l’ennesima volta l’edificio scolastico, ha deciso di barricarsi nelle classi: se bruciano la scuola bruceranno anche noi, così dicevano. Lo diceva anche Enza Rando, avvocato e a lungo amministratrice a Niscemi, oggi responsabile dell’Ufficio affari legali di Libera e legale di numerosi testimoni di giustizia. Gli incendi si fermarono e la scuola è ancora lì.
Da amministratore, Di Martino ha avviato almeno tre livelli di azione per contrastare la mafia. Ha provato con i suoi collaboratori a cambiare alla radice il tessuto connettivo di questa cittadina scossa dai lutti. Ha provato a creare un Osservatorio sulla legalità perché, spiega, è importante «l’analisi storica ed economica del fenomeno mafioso nella nostra città. Solo attraverso la conoscenza approfondita degli atti è possibile costruire un progetto di mutamento di questo cancro. Con questo strumento abbiamo voluto fare dell’antimafia l’ennesimo percorso di cittadinanza attiva, dove i cittadini, in ogni espressione, sono protagonisti consapevoli di quello che accade tutti i giorni a Niscemi. Gli obiettivi dell’Osservatorio sono di accrescere e diffondere la cultura della legalità e della democrazia, nonché di potenziare il monitoraggio degli investimenti pubblici e rendere più efficace la trasparenza degli atti relativi alla pubblica amministrazione». In fondo l’Osservatorio è anche un modo per promuovere un primo nucleo di associazione antiracket che, ovviamente, un Comune non può assolutamente intestarsi. Insieme alla costituzione dell’Osservatorio, il Comune ha approvato una delibera che prevede, per le imprese che denunciano il racket mafioso, incentivi e premialità nella partecipazione agli appalti, con l’esenzione dalle tasse locali, mentre nel caso siano accertate collusioni si può arrivare alla revoca delle autorizzazioni del Comune. Altra azione fondante della politica dell’amministrazione guidata da Di Martino è stato l’impegno, messo nero su bianco in una delibera, della costituzione di parte civile del Comune in tutti i processi di mafia. Ma è l’applicazione della norma sulle «white list» – ovvero la verifica non solo sull’impresa che ha vinto l’appalto ma anche sui suoi fornitori, che secondo la direttiva del Ministero dell’Interno devono essere «certificati» dalla Prefettura – ad aver infastidito le cosche: il giorno dopo l’applicazione – il caso riguardava un lavoro per la realizzazione di un’area artigianale – Di Martino è stato preso di mira e gli hanno bruciato la macchina. «Siamo stati il primo Comune d’Italia a recepire la direttiva ministeriale – racconta – la quale prevede che l’azienda assegnataria dei lavori pubblici ha l’obbligo di comunicare da subito le imprese di cui si dovrà avvalere nella realizzazione di un lavoro». Gli sgherri mafiosi evidentemente non hanno gradito.
Del resto, non ci vuole molto a farseli nemici. Basta un po’ di attenzione per la buona amministrazione e per le regole, perché è proprio per far sì che le regole non vengano applicate ma interpretate che i mafiosi piazzano negli uffici più delicati – e l’area tecnica è quella maggiormente esposta – professionisti di loro fiducia.
Nei Comuni è facile rendersi conto di quanto sia complicato amministrare bene e seguire le regole. Dove la tradizione mafiosa si è consolidata, il rischio che si corre è di ritrovarsi in casa funzionari collusi, che lì sono e lì fanno di tutto per rimanere: non è frequente il trasferimento di funzionari nei Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa.
In questa parte di Sicilia, nel ricco Sudest, l’altra punta del triangolo è quella occupata da Vittoria. Qui c’è, come abbiamo detto, il più grande mercato ortofrutticolo del Mezzogiorno, e qui è ancora viva l’eco delle parole di un sindaco, Francesco Aiello, che sulla rappresentanza del potere nelle campagne ragusane ha costruito la sua carriera politica fino ad occupare lo scranno di assessore regionale all’Agricoltura: negli anni Ottanta, prima, e ancora recentemente nell’ultima versione del governo guidato da Raffaele Lombardo, dimessosi dalla presidenza della Regione siciliana perché coinvolto in una pesante inchiesta sulla mafia catanese. Oggi è il giovane sindaco Giuseppe Nicosia a guidare quello che fu il Comune più rosso della Sicilia, per la connotazione comunista dell’amministrazione pubblica e perché il paese è stato terreno di guerra mafiosa con gli stiddari, gli scissionisti di Cosa nostra, caduti a centinaia. Tutto, qui, ruota attorno all’agricoltura e al mercato ortofrutticolo: non si tratta necessariamente di mafia, ma non si può escludere che la mafia abbia un ruolo predominante. Nicosia si è messo in luce non solo per una serie di atti amministrativi che puntano alla trasparenza delle gare, ma anche per aver avviato un percorso di bonifica del mercato ortofrutticolo cui ha dato un contributo notevole la guardia di finanza co...

Indice dei contenuti

  1. Epigrafe
  2. Prologo
  3. I. Non tutti i sindaci sono uguali
  4. II. Quando i libri diventano ribelli
  5. III. Il coraggio aiuta a far cassa
  6. IV. Professionisti e galantuomini?
  7. V. Cacciare i mafiosi dal tempio
  8. VI. Senza banchi e lavagne non c’è antimafia
  9. VII. C’è un giudice a Vibo Valentia
  10. Conclusione
  11. Fonti