Le teorie del significato
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Le teorie del significato

  1. 170 pagine
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Le teorie del significato

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Che rapporto sussiste tra significato delle parole, verità degli enunciati e uso che ne facciamo per esprimere e comunicare le nostre credenze sul mondo?

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858122716

Teorie del significato

1. Il compito della teoria del significato

Siamo ora in grado di formulare in modo più preciso quali siano i compiti della teoria del significato.
(A) La teoria del significato si propone, innanzi tutto, di rappresentare il contenuto delle frasi producibili nello scambio linguistico. L’ipotesi di fondo è che ciò che il parlante capisce (il contenuto dell’enunciato che ha asserito, poniamo) e ciò che l’enunciato prodotto comunica a chi ascolta (il contenuto appreso da colui che accolga come vera l’asserzione) possano coincidere, e coincidano di fatto nella comunicazione riuscita. La teoria del significato cerca di illustrare quale sia questo contenuto comune, come sia possibile rappresentarlo e quali nozioni occorra impiegare a tal fine. All’interno di questo programma possiamo distinguere due articolazioni principali, di cui diremo fra poco, che differiscono fra loro su come sia da rappresentare il contenuto.
Per afferrare bene la portata della formulazione (A), vale la pena di metterla a confronto con un’altra proposta.
(B) La teoria del significato considera il linguaggio come un oggetto astratto e ne indaga la sintassi e la semantica, indipendentemente dall’uso che se ne potrebbe fare nella comunicazione. Una teoria di questo genere si propone di studiare l’architettura dei significati, senza occuparsi di ciò in cui consiste capire e usare frasi dotate dei significati così costruiti. Questa concezione, come David Lewis (1975) ha osservato, è alla base di molta semantica formale, nella tradizione che va da Rudolf Carnap a Richard Montague.
Se ci atteniamo ad (A), abbiamo di fronte a noi almeno due alternative, a seconda che si ritenga che la rappresentazione del contenuto delle parole proferite, fornita dalla teoria, debba rendere conto del modo in cui la comprensione si manifesta nell’uso che ne viene fatto nel ragionamento e nella comunicazione, o possa ignorare questo requisito. Possiamo pertanto distinguere due modi diversi di concepire il compito di una teoria del significato:
(A1) Offrire un modello capace di rappresentare il contenuto degli enunciati producibili nello scambio linguistico.
(A2) Illustrare l’architettura di quel complesso di conoscenze (teoriche e pratiche) che effettivamente presiede all’uso di enunciati muniti di un determinato contenuto.
La differenza più cospicua fra queste due impostazioni consiste nel fatto che la seconda cerca una risposta alla domanda circa quali siano le conoscenze effettivamente in possesso del parlante, mentre la prima si propone di offrire una rappresentazione teorica (fra le tante che potrebbero rendere ugualmente bene conto dei fatti osservati) del contenuto di quel che viene detto, senza indagare sul corredo di conoscenze e abilità cui il parlante effettivamente attinge quando usa la sua lingua per comunicare con gli altri. Questa differenza spiega come mai il requisito di manifestabilità delle conoscenze possedute da colui che sa parlare una lingua ha un’importanza determinante nel programma di Dummett. La teoria del significato deve cercare di rispondere anche a questa domanda e non deve solo rendere conto della pubblicità del linguaggio e del pensiero, aspetto, questo, enfatizzato da Davidson. Per Dummett il requisito della manifestabilità piena è particolarmente cruciale per mettere a fuoco in che consiste la comprensione del significato di enunciati le cui condizioni di verità trascendono per principio le nostre capacità di giudizio e di accertamento. Per accostarsi a questo tema occorre premettere alcune osservazioni sul concetto di verità.

2. Il predicato «vero»

Per schema decitazionale (letteralmente: che sopprime le virgolette di citazione) si intende quello esemplificato dal seguente enunciato:
(D) «L’acqua è un composto» è vero se e solo se l’acqua è un composto.
La caratteristica saliente degli schemi decitazionali in senso stretto è quella di menzionare, racchiudendolo fra virgolette sul lato sinistro del bicondizionale il medesimo enunciato che usano sul lato destro. La forma logica di (D) è quella di un bicondizionale («se e solo se») materiale, alla cui sinistra figura il nome dell’enunciato che è usato sul lato destro. Per nominare l’enunciato lo abbiamo racchiuso fra virgolette di citazione; avremmo però potuto usare anche altri mezzi, come, ad esempio, una descrizione strutturale che specifica di quali vocali e consonanti l’enunciato è composto, in quale ordine, e con quali intervalli fra le parole. Nell’interpretazione «materiale», il doppio condizionale è vero se e solo se gli enunciati che unisce sono o entrambi veri o entrambi falsi. La portata intuitiva di questo schema è la seguente: l’asserire che l’acqua è un composto e l’attribuire il predicato «vero» all’enunciato «L’acqua è un composto» stanno fra loro in una relazione assai stretta: ogniqualvolta affermiamo di un enunciato specifico, racchiuso fra virgolette, che è vero, possiamo anche usare l’enunciato (senza virgolette) con forza assertoria, e viceversa (cfr. Tarski, 1944). Per «forza assertoria» (seguendo Frege, 1918 e Austin, 1962) intendiamo qui, grosso modo, l’intento del parlante di impiegare un enunciato dichiarativo dell’italiano per dire qualcosa di vero (oltre che di rilevante, interessante, a proposito ecc.) all’ascoltatore.
A prima vista i due lati del bicondizionale fanno la stessa asserzione, eppure hanno forma linguistica diversa: il primo contiene le virgolette e il predicato di verità, l’altro no. Che cosa aggiunge il predicato «vero» al contenuto dell’asserzione fatta? Vi aggiunge qualcosa di sostanziale o qualcosa che potrebbe essere tranquillamente omesso, in quanto ridondante? Rispondere a questa domanda richiederebbe un saggio a se stante. A ogni modo, con molta approssimazione, si può dire che la parola «vero» può aggiungere molti guai, se non si delimita accuratamente il tipo di enunciati cui viene applicata, e quindi aggiunge qualcosa di sostanziale. Una morale da trarre dai paradossi semantici, il più celebre dei quali è quello del Mentitore, è che occorre scrupolosamente evitare che nell’enunciato fra virgolette ricorra la parola «vero» o altre espressioni semantiche ad essa imparentate, o, se vi ricorre, deve trattarsi di un predicato di verità che appartiene a un livello di linguaggio immediatamente inferiore a quello in cui figura la parola «vero» presente in (D). Insomma, bisogna evitare che si formino enunciati come «‘‘Ciò che sto dicendo adesso non è vero’’ è vero». Infatti, una breve riflessione mostra che enunciati simili danno luogo ad antinomie: la supposizione che l’enunciato sia vero conduce a concludere che esso è falso, e viceversa. Tarski (1936) prende proprio lo spunto dall’innocente schema (D) per mostrare come esso conduca a risultati paradossali. L’idea alla base della soluzione di Tarski è che il linguaggio oggetto L (logicamente irreggimentato, cioè tradotto nel simbolismo della logica del primo ordine con l’identità) non contiene il predicato di verità. Il predicato «vero» appartiene al metalinguaggio, in cui disponiamo di risorse sintattiche e logiche sufficienti per formare un nome che designa un enunciato del linguaggio oggetto (ad esempio, attraverso l’impiego delle virgolette e di un dispositivo di concatenazione), che figura appunto alla sinistra del bicondizionale, e la traduzione dell’enunciato nel metalinguaggio, che è l’espressione che figura usata alla destra del bicondizionale. Tarski, in altre parole, dà per acquisito che si possa dire se un enunciato del metalinguaggio traduce (esprime la stessa proposizione di) un enunciato del linguaggio oggetto. Se il metalinguaggio è un’estensione del linguaggio oggetto, ossia è la lingua italiana arricchita di simboli logici e matematici, avremo a che fare con bicondizionali esteriormente simili a (D), ma per lo meno non paradossali. Un’altra ragione per cui il predicato «vero» va trattato con cautela è legata ai teoremi di incompletezza di Gödel, i quali mostrano, molto approssimativamente, che in una teoria formalizzata in grado di esprimere l’aritmetica di Peano è possibile costruire enunciati che sono intuitivamente veri, ma che non sono dimostrabili con gli strumenti disponibili nella teoria formalizzata. La morale da trarre da questa parentesi semi-tecnica è di diffidare dell’apparente banalità dello schema (D): le apparenze ingannano.
Una resa più disciplinata di (D) è fornita dal seguente schema:
(V) e è vero-in-I se e solo se p.
Dove le lettere «e» e «p» indicano, rispettivamente, il nome descrittivo-strutturale dell’enunciato di I (la lingua italiana) «L’acqua è un composto», e la sua traduzione nel metalinguaggio. L’intero schema (V) appartiene al metalinguaggio, che in questo caso è l’italiano arricchito di logica, teoria degli insiemi, dispositivi sintattici (le virgolette di citazione) e nozioni semantiche (designazione e soddisfacimento). La traduzione, ricordiamolo, consiste nell’enunciato usato, ossia senza virgolette. Lo schema (V), battezzato da Tarski «Convenzione (V)» (in inglese: «Convention T», dove «T» sta per l’iniziale della parola «Truth» (verità), e non per «Tarski»), può essere usato per caratterizzare l’estensione del predicato «vero-in-L» per una L specifica.
Notiamo anche che il predicato «vero», poiché gode di queste interessanti proprietà decitazionali, è un dispositivo di «ascesa semantica» – nel senso in cui Quine (1960, § 56) usa questo termine. L’ascesa semantica consiste, grosso modo, in questo: che nell’attribuire una proprietà semantica (l’essere vero, appunto) a un enunciato, diciamo qualcosa della realtà su cui l’enunciato verte. Il predicato «vero» non è eliminabile da tutti i contesti in cui ricorre, ma tutt’al più da quelli in cui gli enunciati ai quali è attribuito sono dati, come nell’esempio precedente, e non descritti, come ad esempio in «Il primo enunciato che pronuncerò il giorno del mio sessantesimo compleanno» – descrizione che, com’è ovvio, potrebbe risultare vuota per svariati motivi (potrei non raggiungere il sessantesimo compleanno o decidere di tacere tutto il giorno). Anche per formulare generalizzazioni come «Tutti gli enunciati che esemplificano il principio di non contraddizione sono veri» l’impiego della parola «vero» è essenziale. Vi sono infiniti enunciati che esemplificano questo principio e non possiamo enumerarli tutti. Insomma, per queste e altre ragioni, l’ascesa semantica non è solo utile, ma è pressoché inevitabile.
La congettura (errata) che il predicato di verità sia eliminabile senza residuo in tutti i contesti (tesi di ridondanza, formulata da Ramsey, 1927) non va confusa con la tesi «deflazionista» (sostenuta da Paul Horwich, 1990) che riconosce al predicato di verità il merito esclusivo di rendere possibili proprio quelle cose necessarie per l’ascesa semantica e, inoltre, modi di «argomentare» come il seguente: Tutto quel che Maria ha asserito nelle ultime due ore è vero; Maria mezz’ora fa ha asserito (la proposizione) che Carlo ha smarrito gli occhiali, ergo: Carlo ha smarrito gli occhiali. Inoltre, secondo Horwich, la verità, in senso stretto, va attribuita a proposizioni e non a enunciati. La posizione di Horwich (1990) va distinta, a propria volta, dalla concezione «minimalista» sostenuta da Wright (1992). Wright sostiene che il predicato di verità indica una proprietà sostanziale di asserti. Egli però è propenso ad accogliere una nozione pluralistica di verità, modellata sui diversi ambiti di discorso, ferma restando una serie di requisiti «minimi» che qualsiasi predicato di verità deve soddisfare in tutti questi casi. L’elemento «pluralistico» interviene nelle condizioni di giustificazione e di accettazione. Fra i requisiti «minimi» che un predicato di verità deve soddisfare vi è, naturalmente, l’ottemperanza allo schema decitazionale, l’indicazione di una corrispondenza fra il contenuto dell’asserzione e i fatti rappresentati, l’assunto (impegnativo) che il convergere verso la medesima assegnazione di valore di verità a un’asserzione da parte di tutti coloro che sono cognitivamente equipaggiati, garantisca la verità della medesima1. La disputa fra Blackburn (1993 e 1998) e Wright (1992 e 1998), che tocca tangenzialmente anche la controversia realismo/antirealismo, concerne proprio l’applicabilità della nozione di verità (e di asserzione) a enunciati contenenti espressioni appartenenti al vocabolario etico ed estetico. Wright è propenso ad applicare una nozione (minimalista) di verità a tutto campo, distinguendo di volta in volta condizioni di giustificazione specifiche, mentre Blackburn ritiene che questa applicazione sia molto problematica quando abbiamo a che fare con gli usi espressivi del linguaggio.
Quale che sia il valore delle considerazioni deflazioniste sui possibili usi della parola «vero», esse non mostrano affatto che tutto quel che si può dire del predicato «vero» vale anche del concetto di verità. Né Davidson né Dummett, né tanto meno Quine, traggono questa morale dalle osservazioni sulle caratteristiche «decitazionali» del predicato di verità. Una ragione ulteriore che milita contro sia la tesi di ridondanza sia l’impostazione deflazionista è che quando abbiamo a che fare con enunciati che deviano dal principio di bivalenza (enunciati né veri né falsi, o enunciati con una lacuna di valore di verità) è palesemente falso affermare che non c’è differenza fra asserire l’enunciato e asserire che l’enunciato è vero. Enunciati con propensione alla devianza sono quelli contenenti predicati vaghi, nomi propri che non designano alcunché, verbi al tempo futuro, e, secondo alcuni, anche quelli che esprimono proposizioni (semanticamente) paradossali. In generale, dire di un enunciato privo di valore di verità che è vero oppure che è falso equivale a fare un’asserzione falsa o comunque errata, e non un’asserzione identica in valore semantico a quella di partenza. Si potrebbe sostenere che, in un caso del genere, gli enunciati su entrambi i lati del bicondizionale sono privi di valore di verità, e che quindi lo schema decitazionale è fondamentalmente neutrale rispetto alla bivalenza. A ogni modo, resta il problema di dare una spiegazione intuitiva di come la nozione di verità e la pratica di fare asserzioni siano connesse, spiegazione che renda conto di come sia da considerare un’asserzione fatta impiegando un enunciato che, per una ragione o per l’altra, è privo di valore di verità (per una discussione si veda Strawson, 1950, Austin, 1962 e Dummett, 1959).
Coloro che applicano la tesi deflazionista al concetto di verità devono, per coerenza, ritenere che questo concetto non svolga alcun ruolo nella spiegazione del significato. A...

Indice dei contenuti

  1. Capire il significato
  2. Teorie del significato
  3. Cos’altro leggere
  4. Bibliografia
  5. L’autrice