Manuale di comunicazione pubblica
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Manuale di comunicazione pubblica

  1. 254 pagine
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Manuale di comunicazione pubblica

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La «pubblicità», intesa come disposizione dell'istituzione a rendersi aperta e trasparente, a comunicare verso l'esterno, rappresenta uno degli elementi fondanti della democrazia parlamentare.In questo volume, una esauriente introduzione ai soggetti, ai concetti, alle aree tematiche, alle metodologie della comunicazione pubblica.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858118443

1. La pubblicità: storia ed evoluzione di un concetto

1. Il luogo della pubblicità: la società civile

Come detto nell’introduzione, le tre espressioni «società civile», «comunicazione pubblica» e «pubblicità» appaiono strettamente connesse, anche se raramente i loro rapporti sono esplicitamente dichiarati e sufficientemente spiegati. Le loro stesse definizioni appaiono di sovente vaghe soprattutto se si guarda al dibattito giornalistico, a quello politico o alla manualistica di impronta strettamente professionale. Queste definizioni non sempre sono coincidenti e, cosa più importante, si modificano radicalmente nel corso degli anni.
I tre termini fanno la loro prima comparsa agli albori della democrazia liberale nel corso della discussione filosofica e politica che ne precede e, almeno per alcuni anni, ne scorta l’insediamento. Il loro avvento sulla scena della teoria filosofica e politica è riconducibile a quel processo di differenziazione sociale che accompagna la nascita delle moderne democrazie e che andrà successivamente radicandosi ed ampliandosi sempre di più. Il corpo del potere assoluto, che si identifica fino ad allora nella figura del feudatario e del monarca, inizia ad essere sottoposto ad un processo centrifugo di smascheramento e di scissione che lo trasforma radicalmente fino a renderlo inoffensivo con il progressivo smembramento delle sue funzioni e compiti che vengono assunti da organi e soggetti ad esso esterni, spesso in conflitto reciproco.
È Montesquieu a celebrare il successo di questo progressivo svuotamento con le sue ipotesi sulla divisione dei poteri: esse rispecchiano e concretizzano a livello istituzionale il processo di differenziazione che investe l’intera società con la creazione di nuovi soggetti che si affacciano sulla scena pubblica e che reclamano una propria sfera di azione. Il progetto di Montesquieu, contenuto, come è noto, nel volume Esprit des Lois pubblicato per la prima volta nel 1748, è soltanto uno degli indicatori dei cambiamenti che intervengono nella struttura del sistema del potere nelle società dell’Europa dei secoli scorsi e che sono teorizzati nelle opere degli illuministi e dei filosofi del liberalismo. Dal momento in cui Montesquieu definisce dispotico ogni governo nel quale i poteri non sono divisi, l’idea stessa di democrazia comincia ad identificarsi e a sostanziarsi nella differenziazione orizzontale dei poteri. Il monarca assoluto perde alcune delle sue prerogative funzionali, che vengono assunte da nuove entità che nascono dal suo stesso «ventre»: è questo il caso dei poteri dello stato moderno precedentemente assommati nella sua figura e che ora vengono decentrati a persone o istituzioni che si muovono nella scia dell’aristocrazia terriera e delle sue modificazioni, o che si configurano come soggetti autonomi frutto di un nuovo sistema di produzione della ricchezza imperniato sulla borghesia commerciale ed industriale (Montesquieu, 1952).
La democrazia si configura così come un assetto dei poteri, distinti e bilanciati nella dialettica tra soggetti diversi, istituzionali o meno, che rappresentano gli interessi di nuovi ceti che si sviluppano nel corpo sociale. E democrazia è anche pubblicità. Il punto è chiaramente posto da Norberto Bobbio nel suo Stato, governo, società, opera sulla quale si tornerà molto spesso. Ragionando di «arcana imperii» Bobbio afferma: «l’indivisibilità e quindi l’incontrollabilità del potere erano assicurate, istituzionalmente, dal luogo non aperto al pubblico in cui venivano prese le decisioni politiche (il gabinetto segreto) e dalla non pubblicità delle medesime decisioni» (Bobbio, 1985, p. 19). La differenziazione dei poteri introduce il criterio della trasparenza dal momento che sulla scena del governo della società si affermano soggetti «altri» dal sovrano assoluto che entrano in competizione, se non in conflitto con esso. Ne assumono alcune delle funzioni (comportando la fine dell’indivisibilità del potere) e nello stesso tempo reclamano la possibilità del controllo sul suo operato (introducendo quindi il criterio della pubblicità dei suoi atti).
Questi soggetti «altri» provengono dal corpo della società civile. Vediamo a che cosa si riferisce questo termine che, come afferma John Keane, osservatore inglese di questi fenomeni, ha avuto un grande «ritorno di fiamma» negli ultimi anni. Esso, dopo essere stato molto usato fino alla seconda metà del secolo scorso, era progressivamente scomparso ed ora sembra ritornato in auge (Keane, 1993). Perché? Probabilmente la risposta sta nella ripresa di interesse verso fenomeni e modalità di espressione sociale che negli anni precedenti erano stati sottovalutati e minimizzati all’interno di teorie totalizzanti e onnicomprensive come il marxismo. E proprio la scomparsa dei regimi dell’Est ha dato negli ultimi anni un forte impulso alla discussione attorno al concetto di società civile. Si è infatti scoperto che sotto la coltre degli apparati dello stato e del partito, che peraltro si identificavano, continuava ad esistere, ed è poi venuta allo scoperto, una rete diffusa di relazioni, di comuni attese e progetti, di organizzazioni tra cittadini che prefiguravano la concretizzazione operativa del concetto di società civile (Jakubowicz, 1991; Seligman, 1992; Keane, 1993).
Come molti dei concetti ai quali si farà riferimento, anche quello di società civile viene impiegato in accezioni diverse non sempre concordanti. Tutti gli autori che se ne sono interessati lo fanno risalire alla Politica di Aristotele nella quale, come sottolinea anche Bobbio (1985), sono già isolabili due delle principali interpretazioni secondo le quali si svilupperà successivamente l’idea di società civile. Secondo una prima interpretazione lo stato è la continuazione della società familiare mentre secondo un’altra interpretazione, che poi si svilupperà soprattutto con i giusnaturalisti, lo stato è l’antitesi della vita di natura in cui agiscono individui liberi ed uguali. Nella prima interpretazione la società civile è la continuazione della naturale vita di famiglia, mentre sulla base della seconda interpretazione essa si costituisce in seguito ad un contratto tra comunità e cittadini.
Aristotele non parla evidentemente di società civile, ma sono in molti a trovare quest’idea rispecchiata nel suo modello di polis. L’ambivalenza e la complessità di questo termine sono state discusse a lungo: spesso infatti esso viene tradotto con «città», ma anche, soprattutto quando è prevalente il significato politico dell’accezione, con «stato». In ambedue i casi Aristotele sottolinea il fatto che la polis è una «pluralità di cittadini» (Aristotele, 1991, p. 71), una comunità costituita in vista di un bene comune. È celebre a questo proposito l’apertura del libro primo della Politica: «poiché vediamo che ogni stato è una comunità e ogni comunità si costituisce in vista di un bene (perché proprio in grazia di quel che appare bene tutti compiono tutto) è evidente che tutte tendano a un bene, e particolarmente e al bene più importante tra tutti quella che è di tutte la più importante e tutte le altre comprende: questa è il cosiddetto ‘stato’ e cioè la comunità statale» (Aristotele, ivi, p. 3). È questa definizione a spiegare perché molti autori abbiano visto nel suo modello di polis molte delle caratteristiche strutturali della futura «società civile». Nella città/stato greca (definizione che consente di superare le ambiguità prima citate) la comunità dei cittadini costituisce infatti un corpo intermedio tra la famiglia e lo stato, o meglio quest’ultimo si pone come ideale continuazione ed estensione della comunità familiare. Se questa è il luogo di gestione degli interessi privati, la città/stato è invece il luogo in cui si mediano gli interessi della comunità dei cittadini riuniti in famiglie.
Hannah Arendt, tra i primi, torna sul solco tracciato da Aristotele e argomenta intorno alla separazione tra sfera privata e sfera pubblica delineata dal filosofo greco: la prima deve rispondere alle esigenze primarie di sopravvivenza, mentre nella seconda l’uomo esplica quelle doti di socievolezza, quella capacità di comunicare e di valutare il bene e il male, il giusto e l’ingiusto che lo distingue dall’animale.
Il pensiero di Hannah Arendt è importante ai fini delle ipotesi di questo volume dal momento che questa autrice si sofferma in particolare sulla dimensione comunicativa della sfera pubblica rintracciabile nella polis greca. Le questioni del gusto, le valutazioni di giudizio erano proprie della dimensione pubblica dell’uomo. Arendt, compiendo delle giunzioni tra i vari libri dell’opera di Aristotele, sottolinea come «i rapporti tra i cittadini della polis erano regolati dalla persuasione, che non solo escludeva il ricorso alla violenza fisica, ma anche, come ben sapevano i filosofi, si distingueva da quella forma di coercizione non violenta che è la coercizione della verità» e più avanti «cultura e politica sono in stretto legame in quanto implicano giudizio e decisione, un giudizioso scambio di opinioni in merito alla vita pubblica e al mondo comunitario, la decisione del tipo di attività da intraprendervi e insieme il suo futuro aspetto, le cose che in esso dovranno apparire» (Arendt, 1961, p. 242).
Anche se Arendt sembra privilegiare in particolare la dimensione estetica della discussione pubblica, tuttavia il suo ragionamento consente di mettere in evidenza i rapporti esistenti tra le questioni del gusto e le decisioni circa gli affari generali, essendo ambedue queste aree sottoposte alle leggi della persuasione. L’archetipo aristotelico di società civile pone dunque evidenti bisogni di strutture e circuiti di comunicazione che consentano il raggiungimento e l’esplicazione di quella dimensione superiore di socialità che contraddistingue la natura umana e la comunità dei cittadini.
L’opera di Arendt ha consentito un recupero ed una valorizzazione del pensiero di Aristotele su temi che appaiono così importanti per la vita di una moderna democrazia, ma anche molti altri autori vedono il filosofo greco come precursore dell’idea odierna di società civile. È però indubbio che questa idea si sviluppa soprattutto con l’età moderna, quindi con l’illuminismo e con i «padri fondatori» del pensiero liberale. In questo ambito, come afferma Bobbio interpretando Aristotele, due sono le interpretazioni principali secondo cui l’idea di società civile si sviluppa, almeno fino a Marx. Secondo una prima interpretazione, in particolare quella dei giusnaturalisti, «società civile» si contrappone a «stato di natura», o meglio più che contrapporsi si distingue e si separa da questa seconda condizione. In una seconda accezione la «società civile» si distingue invece dallo «stato». Vediamo ambedue queste interpretazioni1.
È Thomas Hobbes (1588-1679) nel saggio Elementi di legge naturale e politica, originariamente pubblicato nel 1640, a parlare tra i primi di una «legge di natura» della quale riconosce però l’impossibilità di una definizione unica ed onnicomprensiva. In senso generale la «legge di natura» può essere interpretata come il «diritto che l’uomo ha per natura a tutte le cose» (Hobbes, 1968, p. 119); la condizione che deriva dalla sua applicazione è di conseguenza definita «stato di natura»: una condizione di potenziale guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo. Nello stato di natura ciascun uomo vive infatti libero di rispondere ai propri desideri e alle proprie esigenze mentre nella comunità egli rinuncia a questo diritto generale che trasferisce per contratto ad altra persona in grado di regolare le controversie e di assicurare la difesa di tutti. Nasce in questo modo «un corpo politico istituito per il perpetuo beneficio di coloro che lo stabiliscono e che quindi desiderano duri per sempre» (Hobbes, ivi, p. 168). La condizione della comunità che così ne deriva rappresenta il superamento dello stato di natura.
Nel Leviatano, pubblicato nel 1651, per la prima volta compare dunque la contrapposizione tra status naturalis e societas civilis e si preannuncia quell’idea di contratto che sarà poi ulteriormente sviluppata da Rousseau e dagli altri illuministi. Nella visione di Hobbes il contratto lega tutti gli uomini di una comunità al potere del monarca assoluto o del governo aristocratico in grado di esercitare la necessaria coercizione per poter passare dallo stato di natura alla società civile e quindi organizzare secondo leggi la coesistenza degli individui.
Come scrivono in molti, Hobbes nasce con un gemello: «il pessimismo». Questa sua predisposizione non solo provoca una valutazione negativa dell’uomo nella condizione di stato di natura, in cui egli è preda degli istinti che gli rendono difficile la coesistenza con gli altri suoi simili, ma determina anche la necessità della coercizione. «L’uomo artificiale», lo stato, o, come egli lo definisce, «il Leviatano» (Hobbes, 1955, p. 257), al quale l’uomo demanda la regolazione dei conflitti, deve essere in grado di esercitare quel potere assoluto che solo la coercizione, e quindi anche la forza possono rendere effettivo ed efficace.
Ci sono alcune parti del pensiero di Hobbes che interessano particolarmente la nostra analisi. È di particolare significatività il riconoscimento dell’idea di comunità di uomini che comincia, seppure velatamente, sia a distinguersi dallo «stato di natura» che a porsi come entità autonoma da quella del sovrano. Mentre la comunità di uomini è costruita attorno al dato della proprietà, incarnando in ciò i nascenti non-profit elementari del liberalismo, le funzioni del sovrano appaiono ancora tutte saldamente nelle sue mani. Anzi, nel momento in cui il monarca assoluto o il governo aristocratico assumono funzioni di salvaguardia e di conservazione dell’idea e dell’essenza della comunità, il loro potere ne esce ulteriormente ingigantito e legittimato. Non a caso Hobbes viene dai più indicato come un teorico dello stato assoluto anche se il suo pensiero costituisce un primo passo verso il riconoscimento di elementi e presupposti che sono propri del pensiero liberale.
Contrariamente a quanto farà successivamente Locke, riprendendo la posizione che era di Aristotele, Hobbes dà un giudizio negativo non solo della democrazia, ma anche della retorica: «la democrazia – afferma Hobbes – è in effetti un’aristocrazia di oratori» (Hobbes, 1968, p. 179), nell’assemblea emergono quei pochi che riescono con vari espedienti retorici a portare la maggioranza dalla propria parte. I lunghi scontri oratori finiscono con il generare rifiuto da parte dei più in modo che la democrazia finisce con il rappresentare «per istituzione l’inizio sia dell’aristocrazia che della monarchia». Questa posizione di Hobbes è congruente con la sua esaltazione del potere assoluto che, una volta costituito, non deve negoziare le sue scelte con alcuno anche per non cadere nei rischi e nelle lungaggini della democrazia retorica.
La società civile di Hobbes è dunque la «condizione legale» della comunità dei cittadini contrapposta al disordine dello stato di natura rispetto al quale costituisce uno stadio più evoluto di società che tiene conto delle necessità di armonizzare le esigenze dei suoi cittadini.
Dopo Hobbes è Locke a teorizzare la separazione tra società civile e stato di natura. In Saggio sul governo civile, originariamente pubblicato all’interno del volume Two Treaties of Government nel 1680, Locke afferma che nello stato di ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. La pubblicità: storia ed evoluzione di un concetto
  3. 2. Pubblicità e Parlamento: gli albori
  4. 3. Pubblicità e comunicazione pubblica oggi
  5. 4. Il dizionario della comunicazione pubblica
  6. 5. La comunicazione dell’istituzione pubblica in Italia
  7. 6. La comunicazione politica
  8. 7. La comunicazione politica ed elettorale nell’età dei media
  9. 8. La comunicazione sociale: tra compiti rutinari ed emergenze
  10. 9. La comunicazione delle altre istituzioni «quasi pubbliche»
  11. Conclusioni. La trasparenza tecnologica
  12. Riferimenti bibliografici